Valdi e io abbiamo affittato due bici vicino al lago e siamo andati a spasso per il Navy Pier. Siamo passati sotto un tunnel e poi abbiamo costeggiato il molo. C’era un po’ di vento e l’acqua era agitata, con onde come quelle del mare.
Eravamo soltanto noi due, ma credo che fossimo felici. A me continuava a fare malissimo la schiena, però dissimulavo perché volevo che nulla turbasse quei momenti, i migliori di questi ultimi tempi.
Nel corso dell’anno vedo poco Valdi, troppo poco. Quei due giorni a Chicago erano interamente nostri. Più miei che suoi, perché Valdi non ha (ed è meraviglioso che non ce l’abbia) molta coscienza del fatto che il presente se ne va. L’avidità di stare con lui non era corrisposta, come io non ho corrisposto l’avidità di mia madre di stare con me negli ultimi anni della sua vita.
È mia madre che ha avuto più avidità di stare con me rispetto a mio padre. O se la sono scambiata. Durante l’infanzia era mio padre che voleva stare con me. E nella maturità è stata mia madre.
A tutto questo pensavo mentre pedalavamo sulle nostre bici in affitto a dieci dollari l’ora ciascuna. Ho preso venti dollari dal portafoglio e li ho dati a una ragazza che gestiva l’attività. C’era anche un uomo che si occupava della manutenzione delle biciclette. Usava una macchina che alzava le ruote all’altezza delle braccia, il che gli evitava di doversi chinare. Questo mi ha fatto ricordare la bicicletta che mi comprò mio padre verso il 1974.
Era una bicicletta da corsa, ma era riuscita male. Cominciò a dare ogni tipo di problemi. Il cambio s’inceppava, lo sterzo si inclinava. Le ruote facevano un otto quando giravano. Il peggio fu che in quel periodo comprarono delle bici da corsa anche ad alcuni miei compagni di scuola, però le loro non si guastavano mai, erano macchine perfette.
Non capivo cosa stesse succedendo.
Lo capii a poco a poco. Mio padre mi aveva comprato una bicicletta di scarsa qualità, e a basso prezzo, a bassissimo prezzo, un saldo scandaloso. Ricordo che spessissimo la catena usciva dal disco, e io soffrivo le pene dell’inferno vedendo allontanarsi quei due amici con cui andavo in bicicletta il sabato. E dovevo sporcarmi le mani cercando di aggiustarla, il che mi risultava impossibile, perché la mia abilità con le mani è infima. Non so aggiustare nulla. Invidiavo quei ragazzi che avevano ricevuto dai loro padri delle bici meravigliose. Tentavo di trovare la marca della mia bicicletta, ed era una marca spagnola sconosciuta. Le loro erano BH. Quelle due lettere finirono per riassumere la mia umiliazione: BH.
Non ho mai avuto una BH.
Ho avuto una bici senza marca.
Andavo sempre in un’officina di moto, che era il posto dove mio padre l’aveva comprata. E nell’officina non mi davano molta retta, perché lì riparavano moto. Non capivo perché mio padre mi avesse comprato la bicicletta in un posto dove riparavano moto. Spiegavo la faccenda dello sterzo inclinato, ma non mi ascoltavano. Non c’era nessuna BH in quell’officina. Mi ignoravano. Io mi vergognavo. Chiedevo a mio padre di accompagnarmi all’officina, ma lui non l’ha mai fatto. Non è mai venuto a darmi una mano. Alla fine desistetti. Ora so che mio padre mi comprò una bici in saldo, di seconda mano, era per quello che il meccanico mi ignorava ed era per quello che mio padre non mi accompagnava mai all’officina. Immagino che già non fossero tempi per spese superflue e tanto meno per una bici che non funzionò mai. Assolutamente mai.
Finii per essere ossessionato da quella bicicletta. Mi sentii più solo e umiliato dei sassi dei sentieri o dei fiumi o dei campi incolti. Perciò, in una stravaganza della mia memoria, ho pensato che quest’uomo potesse ripararmi quella bicicletta di quarantaquattro anni fa.
La verità è che per quella bicicletta non c’era soluzione. Era una bicicletta invalida. Stavo per raccontare a Valdi la storia della mia bicicletta, però alla fine non l’ho fatto.
Quante biciclette ci sono nella memoria di qualunque essere umano?