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Tutto nella vita ti arriva tardi, a questo pensavo mentre Valdi si era ormai addormentato. Mi ero messo i tappi nelle orecchie per non sentire le strida del ventilatore della stanza. A Valdi quel rumore faceva un baffo. Si era addormentato in un secondo. Avevo ancora la luce del mio comodino accesa (quei grandi paralumi americani) e ho potuto vedere il suo volto addormentato. Era come se il bambino che vive ancora in lui fosse uscito con il sonno e si fosse impossessato del suo volto. Non aveva più vent’anni, che sono quelli che ha, e il suo volto accoglieva la dolcezza e la vulnerabilità di un bambino.

Volevo toccare il neonato che era stato. E quante volte avevo toccato il neonato che Valdi era stato e non mi ero reso conto che in quell’istante ero nel punto più alto della mia vita, nella pienezza dell’esistenza, vicino a Dio, vicino al mistero della materia, padrone del segreto della vita.

Il segreto della vita si chiama bellezza.

Si chiama solitudine.

Avevo preso un paio di ansiolitici ed ero tranquillo, ero in pace e volevo godermi quella pace. Mi sono alzato dal letto e sono tornato a guardare dalla finestra. Era ormai quasi mezzanotte. Ho guardato di nuovo Valdi. Ho aperto il minibar e ho bevuto dell’acqua. Avevamo comprato alcune cose: c’era della frutta e qualche patatina al gusto d’aceto e di sale. Tutto questo l’avevamo comprato insieme. Nel cestino della spazzatura c’era il vassoio di una porzione di lasagne surgelate, che era stata la cena di Valdi. L’avevamo comprata in un 7-Eleven. Era un piatto precotto ideale per il microonde. E la stanza ne aveva uno. A Valdi le lasagne erano piaciute moltissimo. E aveva attirato la sua attenzione il fatto che la nostra stanza avesse un microonde. Ho finito per innamorarmi del microonde perché la sua presenza aveva suscitato la gioia di Valdi.

Tutto ciò che lavora per la gioia di Valdi è oggetto della mia adorazione, della mia profonda gratitudine.

Qualunque cosa renda felice mio figlio mi ispira gratitudine. Qualunque cosa sulla terra renda felici i ragazzi di vent’anni dovrebbe ispirarci gratitudine.

Ho pensato a milioni e milioni di figli e figlie di vent’anni.

Sentivo tutti come figli miei, pensavo di essere impazzito, ma non potevo evitarlo.

Ho guardato nel cestino della spazzatura il vassoio delle lasagne, e siccome erano state le lasagne di Valdi, mi sono innamorato di quel vassoio, che ormai era soltanto spazzatura. Però quelle lasagne avevano reso mio figlio felice, e le ho adorate.

Adoro tutto ciò che suscita la gioia di Valdi, tutte le cose minori, materiali e minori.

Mo ha chiamato dallo Iowa per sapere come stavamo, se andava tutto bene. Le ho raccontato la giornata. Lei mi ha raccontato la sua, ma a voce un po’ bassa per non svegliare Valdi.

Mo mi dà sempre consigli, perché esprime l’amore attraverso i consigli. Esprimere l’amore ha la sua complessità. Non basta dire «ti amo». La trasmissione dell’amore ha bisogno di materialità.

Tutto nella vita ha bisogno di concretizzarsi in qualcosa. E Mo mi ha dato consigli sugli aspetti pratici connessi al viaggio di ritorno a Madrid.

La vita, la maturità, consiste nel saper distinguere come la gente manifesta il proprio amore. Non tutti lo fanno allo stesso modo, è questo che volevo dire. È un lungo repertorio. Comprendere quel repertorio è vivere con gli altri.

Poi mi sono rimesso a letto, tra le lenzuola pulite e terse. Ho avuto la sensazione di non meritare quelle lenzuola. Ho avuto la sensazione di non meritare nulla nella vita.

Lo spagnolo non ha una parola per il non merito, non esiste la parola inmerecimiento, «inmerito». Però esiste l’aggettivo inmerecido, «immeritato». Forse può essere utile desmerecimiento, «demerito».

Non meritare nulla e in quel non meritare raggiungere il grande merito.

Le lenzuola pulite e senza grinze, le lenzuola che rappresentavano il lavoro di una cameriera, che io non meritavo.

Quello stato di demerito mi ha riportato alla mente un ricordo di mio padre.

Qualche settimana fa, stavo firmando copie del mio romanzo alla fiera del libro della cittadina pirenaica di Jaca. Ero seduto in mezzo a una strada e accanto a me c’era un’altra sedia, per l’eventuale compratore del libro. Una donna ottantenne accompagnata da una ragazza, che l’aiutava in ogni istante, si è seduta vicino a me. Mi ha fissato. Anch’io l’ho guardata. Aveva gli occhi azzurri e la pelle sciupata. Capelli color rame, labbra truccate, ombretto sugli occhi. Le ho visto dei braccialetti ai polsi. Respirava un desiderio di eleganza realizzato in tutto il suo aspetto fisico. Un aspetto fisico curato, studiato, in cui c’era impegno, motivazione, speranza.

Ci ha messo un po’ a parlare.

«Non assomigli molto a tuo padre» ha detto alla fine.

Si è presentata.

Era Carmina.

Mio padre parlava di lei. Era per me un nome familiare, e legato alla città di Jaca. Quando mio padre cominciò a lavorare come commesso viaggiatore, Carmina, che aveva appena aperto un negozio di abbigliamento, fu la sua prima cliente importante. Calcolo che doveva essere verso la metà degli anni Cinquanta.

«Mi sono letta il tuo romanzo» mi dice.

E scoppia a piangere.

«Questa è mia nipote Araceli.»

La saluto.

Dico a Carmina di non piangere.

«Sai poco di tuo padre» mi dice. «Però è normale. Io ho conosciuto tuo padre a poco più di vent’anni, quando lui non conosceva ancora tua madre. Quando aveva un’altra fidanzata. Tuo padre ha sofferto, perché diceva di voler bene alla fidanzata che aveva, ma si era innamorato di tua madre. A me raccontava tutto. Ma il fatto è che tu non assomigli a tuo padre. Non assomigli per niente a tuo padre. Lui non avrebbe mai fatto quello che hai fatto tu. Avrai preso da tua madre. Così diceva tuo padre. Hai dei figli, vero? Non veniva più da tempo, e poi ho saputo della sua morte. Mi sono tornati in mente tanti ricordi di quando eravamo giovani. Riesci a credere che una volta sono stata giovane? Tu non lo sei più. Se lo fossi, non avresti scritto così di tuo padre. Hai scritto di tuo padre perché lo amavi molto, questo sì mi commuove. Il passato ci fa piangere. Tuo padre era molto elegante. Anche se la parola esatta è ‘distinzione’, è questo che caratterizzava tuo padre. Sempre con quelle camicie così ben stirate, e quando era giovane sembrava un attore. Insomma, il tuo libro è stupendo.»

Guardo il cielo estivo della città di Jaca. Interrompo la chiacchierata per guardare le nuvole. Ne vedo una che scivola via, bianca e leggera. Guardo i tetti delle case. La strada è animata. Com’era questa città a metà degli anni Cinquanta?, mi domando. Quando mio padre e Carmina erano giovani e la vita accadeva in un altro modo che mi è impossibile conoscere.

«Come si chiamava quella donna?» chiedo a Carmina.

Lei continua a parlare.

«Quella donna si chiamava, e a te ormai cosa importa di come si chiamava? Mi ricordo perfettamente come si chiamava. Ho ottantasei anni, sono nata nel ’32, ho due anni meno di tuo padre, avrei due anni meno di tuo padre se fosse vivo, voglio dire. Perché devo rivelarti come si chiamava? Quando tuo padre l’ha lasciata, lei è stata male, ma poi si è sposata e ha avuto due figli. Perché la vita continua sempre, a volte sembra un pozzo buio, passa il tempo ed esce di nuovo il sole, e così di generazione in generazione, la vita si riprende sempre, ricompare sempre. Era innamoratissima di tuo padre. Però pensaci, ormai queste cose a chi possono importare, non so nemmeno di cosa stiamo parlando, perché questa è la prima e l’ultima volta che ci parliamo, te ne rendi conto, non è vero?, pensa a quanto poco spazio occupa apparentemente il passato, eppure è tutto; voglio dire che ci inventiamo il presente per fuggire dal passato, perché l’unica cosa che alla mia età ha senso è ricordare, però se ricordo muoio di tristezza, così m’invento il presente. Si chiamava María, ed era alta e bella. Bruna. Tua madre invece era bionda. Tuo padre mi diceva che non sapeva cosa fare. Ripeteva sempre che le voleva bene, ma che aveva conosciuto quella che poi sarebbe stata tua madre. Un giorno si è fatto coraggio e glielo ha detto. Io gli avevo consigliato di dirglielo subito, che se aveva preso la decisione doveva dirlo a María. Gli avevo perfino detto le parole che doveva usare. Nel tuo romanzo tutto questo non lo racconti. Come facevi a raccontarlo se non lo sapevi. Non so se a tuo padre sarebbe piaciuto il tuo libro. È inutile dirti bugie: io penso che a tuo padre, conoscendolo come lo conoscevo, il tuo libro non sarebbe piaciuto per niente. Ma proprio per niente. Era molto orgoglioso, aveva il suo amor proprio. Quando entrava in negozio sembrava un’apparizione, perché era molto alto e da giovane era molto magro. Veniva con la Seat 600 e lavorava per Vitos. Era tanto alto quanto discreto. La prima volta che l’ho visto ho pensato ‘guarda che bel ragazzo, così silenzioso’. Tuo padre era così, hai fatto bene ad amarlo tanto. Ah, lo so che parlo troppo, ma come non parlare di tuo padre, perché era anche un uomo misterioso, ci puoi scommettere. Ma quella fidanzata, che storia incredibile, vero? E quella fidanzata non vive troppo lontano da qui. Si è sposata e ha avuto due figli, te l’ho già detto, che devono avere la tua età. Ti farebbe piacere conoscerli? Ma questo ormai non ha nessun senso. Guarda quant’è strana la vita quando è vicina alla fine. Finché la vita dura, viviamo e punto, ma quando sta per finire, diventa stranissima. Diventa stranissima perché ritorna, e sembra diversa da come l’abbiamo vissuta, è piena di sfumature nuove, e ci confonde molto, ma penso che di queste cose tu ne sappia più di me.»

Non sentivo quel nome da più di venticinque anni, a questo penso. Smetto di ascoltare Carmina, perché la parola «Vitos» mi ha sezionato la memoria come un coltello da macellaio. Era un’azienda di abbigliamento per cui lavorava mio padre. Fallì nel 1973, e con lei finì il benessere economico di mio padre. Lui e mia madre riverivano quella parola: Vitos. Da molti anni non la sentivo pronunciare da nessuno.

I miei genitori smisero di dirla, quella parola.

Quella parola era il nome di un’azienda che rappresentava la loro felicità economica e che all’improvviso era scomparsa. Avevamo vissuto grazie a quella parola. Avevamo mangiato grazie a quella parola. Da quando Vitos chiuse, mio padre non guadagnò più altri soldi. Voglio dire un po’ di soldi. Guadagnare soldi, non ne guadagnò mai, ma quando lavorava per Vitos ci potevamo permettere una vita con un po’ di gioia.

Carmina e io siamo rimasti a guardarci.

A lei l’aspetta la morte, e a me vagare ancora un po’ per il mondo, in compagnia di Arnold, che inventa le mie angosce.

Ci siamo salutati con un bacio. Sua nipote mi sorride.

«Mio padre parlava sempre di te con un affetto immenso» dico a Carmina.

Le firmo il libro.

«Lo so quasi a memoria» afferma Carmina. «Erano altri tempi. Non si possono spiegare. Era tutto diverso. Lascia in pace il passato» dice, e se ne va per mano alla nipote.

«Lascia in pace tuo padre. Quanto poco gli somigli» ha ancora il tempo di dirmi.

Io non la guardo più.

Non la rivedrò mai più, questa è l’unica certezza, ma è anche vero che l’ho appena vista, ed è stato molto importante, perché abbiamo ottenuto qualcosa di eroico: ci siamo rivisti, e penso perfino che mio padre, attraverso i miei occhi, l’abbia rivista.

Papà, non è una cosa così brutta che io abbia scritto la storia della tua vita in un libro, perché quel libro ha fatto sì che Carmina si sia alzata dalla sua poltrona e abbia detto «devo andare a incontrare il figlio del mio amico, quello che ha scritto questo libro».

All’improvviso, sei uscito per un po’ dall’oscurità, papà.