E proprio adesso sto già provando nostalgia degli Stati Uniti. Nostalgia della forza e della volontà. Nostalgia delle enormi praterie del Midwest. Nostalgia degli hamburger giganteschi e delle stanze d’albergo ancora più gigantesche degli hamburger.
È stata Mo a tirarmi fuori dalla Spagna e a portarmi in quel paese, e la mia vita è rinata. Negli Stati Uniti non ero nessuno. Un essere anonimo. Un uccello nel cielo. Non avevo identità. Mi ero ridotto alla minima esistenza, alla minima visibilità. Godevo delle realtà materiali. Mo aveva una casa meravigliosa, che abbiamo condiviso per un periodo finché non l’ha venduta.
I primi giorni che ho vissuto in quella casa sono stati nell’inverno del 2014. La casa era in un bosco, a cinque o sei chilometri dal centro di Iowa City. Era come se fossi fuggito dalla realtà. Quattro anni dopo, cioè oggi, nel 2018, per questioni politiche e per la persecuzione da parte del presidente Trump contro i latinos, non mi attrae più tanto quel paese né provo la vertigine provata allora. Ma se evoco quell’inverno del 2014, il mio primo inverno lungo fuori dalla Spagna, m’invade la gioia.
Mo andava a lavorare all’università e io rimanevo a casa. Passavo la mattinata a scoprire gli elettrodomestici americani, affascinato dal frigorifero e dai prodotti alimentari statunitensi. Tutto era gigantesco, e questo m’infondeva felicità. Avevo tutto il giorno il cuore in sussulto. La grandezza delle cose era una festa: le auto, le case, i ponti, le autostrade, i supermercati, tutto era portentoso.
Pensavo a mia madre, pensavo a cosa avrebbe pensato mia madre se avesse visto la cucina che aveva Mo. Avremmo potuto cucinare qualcuno dei piatti che le riuscivano meglio. Mi sono messo a ricordare i piatti che le riuscivano bene: le patate ripiene di carne, la paella, la zarzuela di pesce, i cannelloni, le melanzane impanate, il cardo con il baccalà a Natale. Forse la sua maggiore conquista erano le melanzane impanate. Seduto nella cucina di Mo, pensavo alla cucina di mia madre.
Mi sono reso conto che non avrei più assaggiato nessuno dei piatti che cucinava mia madre. Pensavo che se non avessi più potuto assaggiare i piatti che cucinava mia madre, tutte le cucine della terra sarebbero diventate ai miei occhi cucine straniere, ostili, nemiche. Ho odiato tutte le cucine del mondo, perché in nessuna di esse si sarebbe mai più cucinato uno dei piatti di mia madre.
Mi mettevo a scrivere vicino a un bosco.
Un tacchino selvatico si avvicinava alla casa.
L’ho battezzato «Fermín» e l’ho disegnato su un foglio che poi ho appeso a una lavagnetta di sughero. Parlavo con Fermín, e immaginavo che lui mi rispondesse. Ho pensato che Fermín fosse spagnolo e aragonese e del mio stesso paese, e che fosse emigrato negli Stati Uniti per una questione privata, magari per fuggire da una delusione amorosa o da un’appropriazione indebita, e siamo diventati amici.
Fermín e io, sperduti negli Stati Uniti, e tutti e due aragonesi. Parlavo con Fermín con un marcato accento aragonese. La cosa curiosa è che Fermín mi rispondeva con un accento aragonese ancora più marcato.
Pensavo all’Aragona.
Fermín e io sembravamo gli ultimi due aragonesi sulla faccia della terra. Ho pensato anche a Francisco de Goya, a Joaquín Costa e a Luis Buñuel. Dopo quel trio di aragonesi illustri, c’eravamo Fermín e io.
In quei giorni ho pensato molto a Joaquín Costa. La magia del tacchino Fermín mi conduceva al ricordo della vita di Costa. Mi è stato dato di vedere la sua sofferenza morale. E stavo vivendo tutto questo dallo Iowa, accanto a Fermín.
Joaquín Costa era un aragonese molto sensibile al ritardo politico ed economico della Spagna. Non è famoso quanto Goya e Buñuel, ma mi tocca il cuore, perché aveva in testa l’idea che in Spagna le classi medie dovessero prosperare, e mi sembra che quell’idea sia ancora la più rivoluzionaria e la più moderna.
Sento nostalgia dell’Aragona, di Barbastro, della mia terra, e vedo nello sconosciuto Joaquín Costa un simbolo di tutto questo. Costa nacque il 14 settembre 1846 in un paese chiamato Monzón, che si trova a diciotto chilometri dal mio. Mio padre aveva molti clienti a Monzón. Quando ci andava, mia madre e io eravamo molto contenti, perché sapevamo che sarebbe tornato per pranzo.
Perciò Monzón significava buone notizie. Costa morì a Graus, un altro paese vicino a Barbastro, l’8 febbraio 1911. Nacque in estate, e morì in inverno. Arrivarono a chiamarlo «il Leone di Graus». Mio padre aveva clienti anche a Graus, e in particolare diventò amico di uno di loro. Così qualche volta lo accompagnai a Graus. Lì c’è una statua di Joaquín Costa, che da bambino guardavo con un po’ di prevenzione o di paura, perché rappresentava il busto di un uomo serio, con una barba frondosa e lunga. Provo verso Costa una reverenza che coinvolge mio padre. Oggi il Leone di Graus è per lo più dimenticato. Nessuno ricorda la sua statura intellettuale. Joaquín Graus è dimenticato quanto la storia della mia famiglia, e quanto la storia di quelle terre del Nord della Spagna, quelle terre della provincia di Huesca.
Così, il tacchino Fermín mi portava ricordi della mia terra, lì nel bel mezzo della cucina della casa di Mo.
C’era e c’è un salto generazionale con Mo, che ha dieci anni meno di me. Si finisce per notarlo, perché apparteniamo a due generazioni differenti. Siamo cresciuti con parole d’ordine diverse. Per esempio, lei non ride per le cose che a me divertono enormemente.
Perciò ho pensato che Fermín ridesse alle mie battute.
Quando Mo andava a lavorare all’università, io rimanevo seduto al tavolo di cucina, accanto all’enorme finestrone, in attesa dell’apparizione di Fermín, che arrivava sempre. Se tardava, mettevo un po’ di pane e burro sul davanzale della finestra, e appariva subito.
Ho cominciato a passare in rassegna la mia vita e lo facevo accanto a Fermín, che rimaneva a lungo alla mia finestra, anche se non c’era più pane e burro.
Fermín mi porta a un ricordo del 1980, alle feste di Natale del 1980, quando mio padre portò a casa un tacchino. Glielo aveva regalato uno dei suoi clienti. All’epoca mia madre mi aveva comprato dei pantaloni molto moderni che mi piacevano parecchio, ma mi privavano del mio abituale anonimato quando mi presentavo in pubblico.
Io fumavo, quasi a mo’ di consolazione, e anche per passare inosservato, perché a quei tempi il tabacco era un comportamento sociale che uniformava. Fumavo moltissimo. A quei tempi tutti fumavano moltissimo, e fumare era come adesso guardare il cellulare, una risorsa immediata, che ci metteva a nostro agio. Allora non sapevamo che fumare uccideva. Immagino che uccida anche guardare il cellulare ogni trenta secondi in maniera compulsiva, però oggi non lo sappiamo, lo sapremo verso il 2040.
Ieri fumavamo.
Oggi guardiamo un telefono.
Siamo la stessa cosa.
Eppure non ci sono due esseri umani che ricordino allo stesso modo.
Ricordo che ero una persona che passava completamente inosservata.
Siamo stati tanti nel corso della nostra vita: non ha senso che ci chiamiamo sempre con lo stesso nome.
Quello che sono stato nel 1980 credo che sia morto, anche se a volte parlo con lui. È disteso, addormentato, e riposa, da qualche parte nel mio cuore. Non vuole più saperne niente di me. È rimasto nel passato, dove regna e dorme allo stesso tempo.
In ogni caso, è un defunto senza certificato di morte, però non esiste sulla faccia della terra.
Nessuno può comunicare con gli io morti che si porta dentro. Non esattamente morti, ma cambiati.
Allora devo pensare che nella mia vita ci sia stato un angelo custode, perché sono ancora vivo. Come se qualcuno avesse orchestrato un piano per me.
La bontà è uno dei miracoli che più mi hanno commosso, a volte la bontà degli altri nei miei confronti mi ha fatto sentire colpevole.
È stato tutto come se dietro ciò che accadeva ci fosse stata mia madre. Certo che c’era lei, sono assolutamente certo della sua forza sovrannaturale.
Non compirai cent’anni, mi dico sempre.
Voglio dire che ormai non ho più tante cose davanti a me. Questo lo so bene, questo pensiero si presenta ogni mattina appena apro gli occhi sul nuovo giorno. Questa presenza della fine trasforma la mia vita in pura bellezza.
Anche in bontà.
Mi rendo conto che tutto questo l’ho appena detto a Fermín, che è ancora al di là del vetro della finestra, in attesa che gli dia altro pane e burro.