Vivaldi, il mio figlio minore, lavora per un’azienda di consegne a domicilio e percorre la città in bicicletta. Io lo chiamo Valdi, per abbreviare e in omaggio al celebre compositore delle Quattro stagioni, che era anche lui rosso di capelli.
Comprai il disco delle Quattro stagioni di Antonio Vivaldi verso il 1977. Lo comprai in offerta, mi costò centoventicinque pesetas. Allora ero soltanto un ragazzo di quattordici anni, ma quel disco mi abbagliò: intuii in quella musica la volubilità del tempo, la trasformazione, il movimento, il cambiamento, e quell’intuizione mi fece male, perché desideravo che nulla cambiasse.
Valdi e io viviamo in città diverse. Io vivo a Madrid e lui, da poco tempo, a Barcellona. Da quando so che lavora per quell’azienda, che si chiama Glovo, vedo ragazzi e ragazze della sua età in un sacco di strade di Madrid. Prima non ci facevo caso, ma adesso sì. Li vedo da quando mio figlio fa quello stesso lavoro.
Quando vedo un ragazzo con la sua bici e il portapacchi giallo di Glovo, ho un tuffo al cuore e penso a Valdi.
Mi è impossibile non amare anche tutti quei ragazzi che non sono figli miei ma che fanno il suo stesso lavoro. Penso ai loro padri e alle loro madri. Dato che non posso avvicinarli e dire loro che li amo, faccio una foto con il cellulare e la mando a Valdi via whatsapp. So che gli fanno piacere. Commenta gli aspetti tecnici delle biciclette di quei suoi colleghi di Madrid.
È vero anche che allora Valdi mi risponde. Se gli parlo di altre cose, non mi risponde. Gli interessa il suo lavoro, e questo mi rallegra.
Penso che dovrei essere lì con lui, ad aiutarlo a pedalare, ad aiutarlo nelle consegne. Valdi non ha voluto studiare, non gli piace. Mi racconta di quanto guadagna in quell’azienda di consegne. Mi dice che si può arrivare a guadagnare molto. Io so che è impossibile, ma mi fa un enorme piacere vederlo pieno dei suoi sogni. Penso che sia meglio che abbia quelle ambizioni, che mi ricordano le mie di quando avevo la sua età.
E tuttavia, mi rattrista che faccia quel lavoro, mi piacerebbe che ne facesse un altro. Lo vedo così sperduto. Eppure quella perdizione mi sembra così bella, così grande, così commovente.
Quanto adoro Valdi e quanto poco lo vedo. Però quando parliamo al telefono sono felice. Mi racconta cinquantamila cose, tutte un po’ pazze.
Si è dovuto registrare come lavoratore autonomo. Si trova, dunque, nella mia stessa situazione, perché anch’io sono un lavoratore autonomo. Mi entusiasma questa coincidenza, perché forse significa qualcosa.
Sicuramente sì, sicuramente significa qualcosa, ho tanto bisogno che ci sia senso nelle cose che facciamo.
Anche Bach, mio padre, era un lavoratore autonomo. Così noi tre facciamo parte di una catena lavorativa, perfino musicale, perché essere un lavoratore autonomo è come essere esposto alle intemperie salariali, è come vivere di musica.
Se morissi ora, Valdi mi ricorderebbe sempre giovane, perché non sono ancora un vecchio. Se morissi ora, dovrebbe piangermi, e io non voglio questo. Non voglio che nessuno mi pianga mai. Ma quanto mi piacerebbe che mi ricordasse al mio apice, che mi ricordasse pieno di bellezza, pieno di luce.
La vita è tanto grande quanto crudele e dura.
La vita è l’impossibilità di conoscere la vita. Non conosco più bene mio figlio, né lui me. Andiamo per il mondo ciascuno per la sua strada. E questo non conoscerci crescerà di pari passo con il logorio delle nostre vite.
Soltanto la contemplazione della bellezza del nostro non conoscerci presente e del nostro non conoscerci futuro ci salva dalla tragedia di non conoscerci.
La vita di un padre e la vita di un figlio sono piene di non conoscenza reciproca che soltanto l’amore può trasformare nell’odissea più bella.
Però nessuno sa cosa sia l’amore né quali siano i suoi limiti.
Non sapremo mai cosa significa vivere, perché forse è soltanto respirare e guardare il cielo. E questo non ci basta, non ci è mai bastato.
Il tuo povero padre si trascina per questo mondo invocando un minuto della tua vita, Valdi.
La condizione di padre è quella del mendicante d’amore.