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«Com’è possibile che tu sia finito qui, papà?»

È questo che ho pensato quando sono sceso dall’aereo nella città peruviana di Arequipa e i miei occhi hanno contemplato i 5.822 metri d’altezza della montagna chiamata Misti.

Ti ho visto lì, trasformato in terra alta, trasformato in una domanda.

Misti è lì nello stesso modo in cui tu sei ancora nel mio cuore, come una presenza trasformata in mutismo. La città di Arequipa è tanto bella quanto difficile da comprendere. Ero invitato a un festival di letteratura, era quella la ragione della mia presenza lì.

Però non vedevo la gente, non riuscivo a connettermi con quanto succedeva intorno a me, perché ero ossessionato dalla tua metamorfosi. Perché ho sentito che ti eri trasformato in un vulcano, perché Misti, oltre che una montagna, è anche un vulcano, perché si possono essere entrambe le cose allo stesso tempo, come lo sei stato tu, perché sei stato uomo e padre.

Ho chiesto in che modo toccarti.

Sarei rimasto in città soltanto tre giorni. C’erano escursioni organizzate alla cima del Misti e mi hanno detto che era necessaria una preparazione fisica, perché bisognava camminare per molte ore. Ti vedevo da qualunque punto della città.

Mi hanno trovato posto in un albergo gradevole, ma la stanza che mi hanno dato era buia. Non c’era quasi luce naturale. Ho chiesto un’altra camera. Me ne hanno data una con più luce. La sera, quando sono andato a dormire, si sentiva nella stanza un lieve ma reale ronzio elettrico. Ho dovuto mettermi i tappi per le orecchie.

Quasi mi sanguinano le orecchie, per la forza con cui ci ficco dentro i tappi, nei condotti uditivi.

Ho pensato che il silenzio se ne fosse andato dal mondo.

Ho pensato che tu, lassù, sulla cima del Misti, ti stavi godendo il silenzio. Nel mondo che verrà, soltanto gli uomini e le donne più ricchi, con il maggior potere economico, potranno goderselo.

Il silenzio è un’utopia.

Forse il silenzio non esiste.

A volte sono riuscito a stare accanto al silenzio.

Di solito negli alberghi più modesti c’è silenzio, perché non ci sono complesse installazione elettriche, né tubature per l’estrazione dell’aria, né sofisticati rivelatori d’incendio.

La nostra dipendenza dall’elettricità grava il mondo di rumori che impediscono il silenzio naturale con cui la vita è nata, con cui la vita è stata regalata agli esseri umani.

Ho preso due pastiglie per poter dormire. Non è soltanto il rumore, è anche quello che significa il rumore. Significa una forza ostile che sta lì per distruggermi. Perché nel silenzio c’è perdono, c’è dissoluzione di tutte le aggressioni commesse contro di me e da me.

Soltanto la musica ha la legittimità di distruggere il silenzio.

Ad Arequipa, mi sono messo a pensare al tipo di uomo che sono. Non sono un uomo. Sono un corpo, questa è una rivelazione. Per questo mi sono sempre sentito fuori dal dibattito e dalle lotte di potere tra uomini e donne. Non sono un uomo. Non sono una donna. Sono un corpo che invecchia, un corpo che reclama migliaia di cure.

Per sentirsi un uomo o una donna, bisogna avere vanità.

Io non ho vanità.

La vanità che c’è nel dire «sono un uomo», o quella che c’è nel dire «sono una donna». La vanità che tutti accettiamo perché ci siano discendenza, lotta, movimento, aggressione, delitto, passione, ingiustizia.

Io ho soltanto vita, vita non identificata, vita senza allegati, vita senza vanità.

Ad Arequipa, mi chiedo quanti anni di vita mi rimangano. Questa ossessione non se ne va mai. Non posso godermi il semplice fatto di essere vivo perché penso che fra tre minuti sarò morto.

A questo festival di letteratura partecipa un famoso premio Nobel, molto mediatico, che ammiro moltissimo. L’ho visto a colazione. L’osservo con l’obbiettivo che il suo esempio mi aiuti nella vita. È un ottuagenario e gode di buona salute. Appare sano e forte. È elegante, attraente, intelligente, la vita lo ama. Ha ottantadue anni. Faccio i miei calcoli mentali, applico la mia matematica. Ha ventisei anni più di me. Comincio a riempire quei ventisei anni, ambisco a quei ventisei anni. Il cuore mi si riempie di rabbia. Rabbia contro la vita, perché è breve e fragile, perché è così poca cosa, così mutevole e dura. All’improvviso lo scrittore mi guarda. E in quello sguardo sono contenuti tutti i misteri. Sa quello che sto pensando. Vuole proteggersi da me. Vuole proteggersi dalla gente che sta pensando alla morte, perché lui ha davanti a sé la morte, però la schiva, perché possiede quel talento naturale nello schivare la morte.

Il talento di schivare la morte è un dono, un dono che in qualche modo si trasforma in una semplicità quasi volgare. Schivare la morte è un risultato, sì, ma anche un inganno che ti scredita di fronte all’immensità delle cose, all’immensità della tua stessa vita.

Salgo nella mia stanza d’albergo di Arequipa e mi viene un attacco di rabbia. Cosa sta succedendo nel mio cuore?

È la follia.

È Arnold, Arnold Schönberg, che è tornato: i nervi vacillanti, le sillabe mal pronunciate, il desiderio di non si sa che.

Arnold sempre nel mio cuore.

Era da giorni che non lo vedevo, però oggi è tornato.

Ho visto la figlia e il figlio dello scrittore. Ho voluto vedere nei loro volti i volti dei miei figli. Li ho visti felici e pieni d’amore per il padre. Ho desiderato che ai miei figli succeda la stessa cosa.

Ho visto e analizzato la somiglianza fisica tra lo scrittore e i suoi figli. Ho compreso la natura dell’ereditarietà. La figlia ha ereditato la forma del viso, la mandibola e il collo. Il figlio ha ereditato gli stessi capelli.

Penso a cosa hanno ereditato i miei figli. Mi mancano attraverso i figli dello scrittore che schiva la morte.

Sembra che mi voglia dire «schiva la morte, perché in lei non c’è nulla, e soprattutto nulla che tu possa fare; schivare la morte non è una rinuncia, è compimento, è bellezza, è eleganza».

Li ho visti così felici di stare con il padre che ho provato invidia. Come si ottiene quella cosa?

Quella cosa è il successo.

Mi sono rallegrato non per il suo successo letterario, professionale, sociale, culturale, storico, ma per il suo successo vitale, che è quello che mi è parso desiderabile, perché è l’unico successo desiderabile, l’unico che mi interessi.

Il successo di essere ancora vivo con saldi propositi, in cui i tuoi figli si trasformano in fondamenta poderose, questo ho visto in quell’uomo.

All’improvviso ha squillato il telefono. Mi chiamavano dalla reception. Mi chiedevano se avevo dormito bene e mi offrivano un cambio di stanza. Ho declinato, ho detto che non importava, che mi rimaneva soltanto una notte e che era più scomodo cambiare stanza. Dopo due minuti mi sono pentito e ho preso il telefono per dire all’addetta alla reception che accettavo il cambio.

Mi facevano salire al quarto piano, io ero al secondo. È significativo che di solito gli alberghi abbiano le camere migliori ai piani più alti. Il quarto era l’ultimo. Mi hanno messo nella stanza 402.

Non so che significato abbiano per me gli alberghi, non so cosa mi succeda negli alberghi. Sono giunto a credere che sia una specie di ossessione o di mania. Un’ulteriore mania nella mia vita da maniaco, nella mia vita dominata da Arnold. Ma non è così.

La vita gioca sempre con noi e finisce per dirti le cose quando vuole lei. Perciò sono dovuto venire nella città di Arequipa per saperlo. Per sapere che ciò che sto cercando è la mia casa, che si è persa nel tempo ed è annegata nello spazio.

Sto cercando la casa della mia infanzia.

Sto cercando la mia stanza attraverso le decine di stanze d’albergo in cui ho tentato di dormire. Sto cercando una sensazione di serenità e di pace, e sto cercando la restituzione di una cameretta infantile e lo sto facendo da un capo all’altro della terra, in tutte le città e in tutti i paesi in cui vado.

C’è una ragione confusa che spiega perché nasciamo dove nasciamo, in quale punto del globo terracqueo, in quale luogo della vasta e vecchia Terra. Non si nasce in Spagna, in Francia, in Russia o in Perù per caso. C’è una ragione che evoca gli astri, i pianeti, gli alberi, i mari, le grotte, i dinosauri.

Ascolta quelle voci.

Se non sentissi quelle voci, saresti perduto, sarei perduto. Non so se sono prima o seconda persona. Sento ancora quelle voci remote, che sono l’unica cosa che ho, l’unica cosa che mi impedisce di impazzire.

Per tutta la vita ho combattuto contro la follia, contro quel disgraziato di Arnold, e lui sa che finirà per sconfiggermi, però combatto, combatto contro di lui con tutte le mie forze. Se la mia vita si potrà contemplare con un po’ di benevolenza e di indulgenza, sarà per la titanica lotta contro Arnold.

Arnold ha ucciso molta gente.

Gli amici di Arnold, gli psichiatri, i medici, i giudici, i poliziotti, gli sciamani, lo sanno. Gli psichiatri e i sacerdoti conoscono bene ciò che Arnold fa alle menti.

È una distanza molto breve quella che separa la lucidità dall’oscurità.

Non è esattamente la follia. Non è la psicosi, no, entrambe sono forme semplici di Arnold. Se Arnold si presentasse di fronte a me con il suo abbigliamento abituale, tutto potrebbe essere perfino più semplice. Arnold viene a me come uno stato di nervosismo connesso con il desiderio. È una voglia matta di vivere che finisce in frustrazione. È uno stato di eccitazione acre. Come se dal cielo cadessero lunghi coltelli, come spilli di luce. È lo sgocciolio delle stelle, che sgocciolano sangue e demonio. È uno stato di frustrazione permanente, una frustrazione astratta, metafisica.

Arnold mi regala le sue frecce più rare. Arnold mi mette in testa le equazioni morali più oscure. Arnold mi va distruggendo millimetro dopo millimetro e in modo artistico.