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Mia madre, negli ultimi anni, non si è comportata bene con tutto ciò che la circondava. Arrivava a essere molto dura e crudele. Io non sapevo cosa fare. Mi distruggeva vederla così. Ci distruggevamo entrambi, madre e figlio.

In vecchiaia, si è aggrappata in qualche misura a mio fratello e a me, e voleva che le risolvessimo la vita.

Mio fratello gliel’ha risolta più di me, anche se le soluzioni di mio fratello le risultavano poco festose. A mia madre sarebbero piaciute grandi soluzioni, basate sul lusso, la solennità, la festa e il ritorno della giovinezza.

Ma questo era impossibile.

Mio fratello le offriva risarcimenti di buon senso. Ma mia madre ha vissuto sempre lontana dal buon senso, è stato questo il suo marchio, il suo stile, il suo temperamento.

Io ero depresso, sempre con Arnold accanto. Mia madre mi telefonava per raccontarmi la sua solitudine. Allora non ero preparato a quelle telefonate. Perché allora vivevo soltanto per Arnold Schönberg: che nome illustre ho inventato per le mie angosce, forse è a questo che servono i libri, per adornare le nostre sofferenze.

Adesso che lo sono, che sono estremamente preparato a quelle telefonate, non c’è nessuna telefonata.

Non ero in grado di rimediare alla solitudine di mia madre, non avevo forze da darle.

Quella solitudine aveva fatto irruzione nel 2007, perché fino al 2007 non si era resa conto di essere rimasta vedova. Ed era rimasta vedova il 17 dicembre del 2005, ma allora non l’aveva notato, perché la morte di un marito è così enorme, così devastante, da sembrare una festa.

La morte si traveste da festa, questo lo so bene.

Viene a noi dall’alto, e ci seduce, è così la morte di coloro che amiamo, la confondiamo con un giorno di festa.

Mia madre ha tardato ad accorgersi che poi sarebbe venuto il brutto, e io non ero lì perché vivevo nel bel mezzo di una depressione.

Era normale che mia madre e io ci deprimessimo, perché eravamo la stessa cosa.

Sentivamo allo stesso modo.

Siamo una forma di malinconia rudimentale, mia madre e io.

Arnold veniva a far visita a entrambi.

Bach aveva ragione, l’ha sempre avuta: non assomigliavo a lui, assomigliavo a mia madre. Ero uguale a mia madre.

Ho dovuto scrivere un romanzo per rendermene conto.

Batto sulla tastiera, cercando di fare in modo che escano tutti i fantasmi e mi dicano cosa fare adesso.

Identici fino alla confusione, finché verremo confusi l’uno con l’altra nel giorno della resurrezione, quando nessuno saprà chi dei due è resuscitato. Lo stesso istinto. Lo stesso sangue. Lo stesso sguardo. Lo stesso terrore. La stessa solitudine. La stessa avidità della vita. Lo stesso amore per la vita.

Abbiamo visto gli altri secondo i nostri interessi e i nostri desideri più complessi. Perché se non realizzavamo i nostri desideri, morivamo. E non volevamo morire. Però i nostri desideri erano infantili.

Ora che sono quattro anni e mezzo che non sento la sua voce, mi sembra che sia io a essere morto. Siccome la sua voce non pronuncia più il mio nome, non so chi sono. Chiunque mi osservi con un po’ di attenzione si può rendere conto di quel nervosismo di chi ha perduto la propria identità perché da quattro anni e mezzo sua madre non dice il suo nome.

Quel nervosismo è Arnold.

Di gente che soffre ne ho vista moltissima nella mia vita, e ho sempre provato simpatia nei suoi confronti. Porto sempre quella gente nel cuore. Individuo la gente che soffre in maniera immediata. È un dono. La sofferenza si nota subito. Non è una peste. Non è cattiva. Non è offensiva. Non è neanche triste. Non è una maledizione.

È semplicemente coscienza e cortesia.