Quando eravamo piccoli e mia madre non sapeva se mio fratello o io avevamo la febbre, ricorreva a mio padre. Lui ci metteva la sua enorme mano sulla fronte, premeva per due secondi e confermava o negava. Era tanto inappellabile quanto infallibile. Aveva quel dono: percepiva il calore nei corpi dei suoi figli.
Mi si è presentato questo ricordo alla memoria, così, all’improvviso, qui, nella città di Nashville, dove Mo e io stiamo trascorrendo due giorni in viaggio di nozze. Lei si è presa un raffreddore e pensa di avere la febbre. Le metto la mano sulla fronte e stabilisco che non ce l’ha.
Lo stesso gesto, la stessa affermazione, lo stesso dominio dei corpi altrui che aveva mio padre quasi cinquant’anni fa.
Siamo in una camera dell’Hyatt Place Hotel, al quattordicesimo piano. Si vedono un enorme ponte e alcuni grattacieli, e luci in lontananza, perché è scesa la sera. Mo è stesa sul letto. Quel ricordo di mio padre che è sopravvenuto mi ha lasciato perplesso. È venuto con un’intensità terrificante, così viene lui, così viene il passato, con un coltello fra i denti.
Forse Mo ha preso freddo stamattina, quando siamo andati a visitare la tomba del cantante Johnny Cash. Quando ci siamo svegliati, prima di scendere a fare colazione, abbiamo cercato l’ubicazione della tomba con il GPS. Poi abbiamo fatto una colazione molto abbondante, avendo ben chiaro che andavamo a vedere la tomba di Johnny Cash. Il GPS indicava una distanza di 20,9 miglia, con un calcolo di venticinque minuti in macchina. Era vicina.
Tutto sembrava andare alla perfezione. Però dopo venti minuti di viaggio ci siamo resi conto che il GPS aveva sbagliato posto. Abbiamo dovuto fermarci e prendere uno svincolo, che ci ha portati in una piazza in cui c’era quel tipico grappolo di negozi che finisce per costituire i bassifondi della periferia americana.
Fatto sta che quel contrattempo mi ha messo di pessimo umore. Ci eravamo allontanati dalla tomba di Cash. E ora il GPS ci dava una distanza di trenta miglia e di una quarantina di minuti.
Non sono riuscito a controllarmi e ho dato un colpo sul cruscotto dell’auto. Non riesco a evitare di trasformare in tragedia le idiozie del caso, le avversità minime. Un altro modo che ha Arnold di presentarsi nel mio cuore.
Forse perché in queste piccole avversità vedo segnali di un’avversità più grande, di un’oscura avversità che è piuttosto un’emergente sensazione di fallimento, che proviene dalla notte dei tempi, dalla vecchia paura della vita, della natura, della morte e del nulla.
Arnold in tutto il suo splendore.
Perciò, quando stasera, dopo essere stati alla tomba di Cash, ormai nella tranquillità della stanza d’albergo, ho messo la mano sulla fronte di Mo, mi sono calmato ricordando mio padre, ricordando lo stesso gesto che faceva lui quando misurava la febbre a mio fratello e a me, tanti anni fa, in una casa e in una famiglia che non esistono più.
È arrivata una tempesta di tenerezza che credevo estinta.
Guardo dalla finestra della nostra stanza al quattordicesimo piano e quel ricordo diventa amaramente malinconico al confronto con l’architettura di Nashville.
Alla fine siamo riusciti a trovare lo Hendersonville Memory, che è un cimitero di notevoli dimensioni. Una donna ci ha accolti con un sorriso materno. Ci ha detto che lì erano sepolte molte persone famose e ci ha spiegato dove si trovava la tomba di Cash, ma io non ascoltavo, pensando che lo facesse Mo. Fatto sta che di colpo ci siamo ritrovati a vagare alla deriva nel cimitero di Hendersonville e di nuovo mi hanno inghiottito l’avversità, la disperazione, e ho rimproverato Mo per non aver ascoltato le indicazioni della donna.
Ci siamo messi a cercare la tomba arrabbiati. E come se non bastasse, senza preavviso, è salito un vento gelido, che ci schiaffeggiava la faccia. Un uomo e una donna che cercavano una tomba.
Mo insiste perché le rimisuri la febbre. Vedo di nuovo la mano nell’aria, non è più la mia mano, mi si presenta quel ricordo dell’infanzia. Abbiamo acceso tutte le luci della stanza. Insomma, sono stato io ad accenderle. Mo è sul letto, in preda al suo raffreddore e a una tosse insistente. Ho la sensazione che non ci sia abbastanza luce, perciò accendo tutte le lampade. Malgrado ciò, parti della stanza rimangono in penombra, perché non c’è una luce potente che provenga dal soffitto. Ormai nessun albergo ha luci sul soffitto. Sono tutte lampade da tavolo o luci indirette. Le luci d’albergo sembrano un simbolo della vita attuale.
Siccome c’eravamo persi di vista, ognuno cercando la tomba dalla sua parte, mi ha chiamato sul cellulare.
«L’ho trovata» ha detto Mo stamattina.
Ed eccoci lì, tutti e due, arrabbiati, davanti alla tomba. Io ero infuriato, non capivo cosa ci facessimo lì. Mi sono arrabbiato con Mo davanti alla tomba, senza badare al luogo in cui mi trovavo, senza pensare al morto famoso sepolto lì, senza pensare che forse quella era una mancanza di rispetto: una coppia che si parlava urlando e si lanciava rimproveri insulsi davanti a Johnny Cash.
È stato allora che ho guardato la lapide di Johnny Cash e ho visto la sua data di nascita. Era nato due anni dopo mio padre. Nel 1932. Avevano vissuto, quindi, lo stesso tempo, in paesi molto diversi.
«Guarda, sono sepolti insieme» ha detto Mo. Era vero, erano due tombe. Johnny Cash giaceva accanto alla seconda moglie, June Carter.
«Si sono amati tutta una vita» ha detto Mo.
Ho guardato le due tombe, e mi sono ricordato di Bach e di Wagner.
È sparita la mia ira per non aver trovato subito la tomba, a poco a poco mi sono calmato. Guardavo le lapidi di Cash e Carter, su ciascuna c’era un’iscrizione tratta dalla Bibbia, un messaggio lanciato nell’eternità, che non esiste, però loro erano credenti, e hanno dovuto pensare che sì, che esiste l’eternità, la redenzione, l’amore oltre la morte.
«Vuoi che ti tocchi la fronte, per vedere se hai la febbre?» chiedo ancora una volta.