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Mi trovo adesso in un albergo di una città spagnola, una città in cui mi danno un premio per aver scritto il mio romanzo. Mi tolgo le scarpe, le parcheggio in parallelo, sotto il comodino che sembra un garage per scarpe, e mi stendo sul letto. Vedo all’improvviso un mucchio di pelucchi che macchiano il copriletto bianco. Quei pelucchi, scopro inorridito, provengono dai miei calzini. Tento di togliere quei pelucchi e mi impegno in quel compito con disperazione. Sembra che tutto finisca sempre nella più inattesa delle imperfezioni, perché quei calzini, come se non bastasse, sono nuovi.

Sono nuovi?

Sei paia di calzini per tre euro, questo è stato l’acquisto in un negozio di fama mondiale.

Ora mi pento di averli comprati. A mia madre succedeva la stessa cosa: si lasciava sedurre dal mondo a basso prezzo e aveva via via riempito la casa di utensili mostruosi.

Lei mi aiuterebbe in questo istante, in questo istante di furia, di splendore della furia, lei potrebbe guarire questo cervello ferito. Continuo a togliermi quei pelucchi dai calzini. Mi daranno un premio per il libro che ho scritto sui miei genitori. Mi sono portato un completo, pensando a mio padre.

A mio padre piaceva molto vedermi indossare un completo.

Il nostro aspetto fisico è importante.

Siamo un corpo.

L’eleganza non sta nel prezzo di ciò che indossi. L’eleganza è un dono. Mio padre l’ha avuto. L’eleganza è una coscienza aperta a te stesso, un fiume della vita.

L’eleganza di mio padre è venuta a me.

L’eleganza è un gesto, una maniera di stare davanti allo specchio universale del tempo.

Cosa penserà la cameriera che dovrà rifare la mia stanza vedendo quei pelucchi neri sul pavimento e sul copriletto? Continuo a toglierli, come posso. Dove sono andati a finire i calzini lasciati da mio padre quando è morto? Allora non diedi loro importanza, sicuro che sarebbero finiti in un sacchetto, e da lì nella spazzatura. Ora mi piacerebbe vederli. Gli indumenti delle persone che se ne vanno si trasformano in un problema morale. Mio padre non ha lasciato molto, un armadio rosso con qualche vecchio completo, passato di moda e consumato, però la gente ricca lascia metri e metri di armadi pieni di vestiti carissimi, nuovi – a volte usati in un’unica occasione; altre, in nessuna – che non hanno più un destino, al di là del ricordo della vanità di qualcuno che aveva scelto di spendere migliaia e migliaia di euro in vestiti invece di darli a quelli che muoiono di fame in questo mondo.

Quei vestiti cari lasciati dai morti ricchi sono la prova della loro condanna. Quei vestiti parlano del male, della follia, dell’egoismo, ed è triste, perché molte di quelle persone, se avessero una seconda opportunità, se potessero vedere i loro armadi e i loro guardaroba un minuto dopo la loro morte, comprenderebbero la loro follia e regalerebbero tutto. Venderebbero tutto e lo consegnerebbero ai milioni di esseri umani che non hanno da mangiare, e allora morirebbero alla luce della gioia. Ma non è così. Perché la gioia non è di questo mondo. È un’arte del cuore, che si nasconde sempre, un’arte della bontà.

A volte metto dei calzini di Mo, che sono eccellenti, perché non producono quei pelucchi neri. Non ricorda dove li ha comprati. Io le chiedo cose come questa. Lei sa che per me sono importanti. All’inizio, non capiva come avesse fatto a sposare un tizio che faceva quel tipo di domande, poi ha cominciato a rispondere come può. Ha visto che per me lì risiede il mistero della materia, e mi aiuta, mi aiuta con la croce, con questa croce che è la materia.

Mi metto il completo, mi metto la camicia bianca, anch’essa nuova. Mi è costata cinque euro e cinquanta. Ho pensato che non aveva più senso lavare e stirare i vestiti. Quel prezzo sembrava contenere una rivoluzione. Quanto ci piace, a noi esseri umani, sfoggiare cose nuove, di qualunque tipo.

Gli indumenti bianchi non sono mai completamente bianchi, e questo mi fa male. Mio padre lo sapeva, si stirava le camicie come un dio che migliora il mondo con le sue mani forti e volenterose.

La volontà che le camicie bianche siano completamente bianche, questo è stato mio padre.

Non è facile vestire di bianco, perché una camicia bianca o dei pantaloni bianchi si sporcano subito. Perciò, quando ho di fronte un uomo o una donna che indossano una camicia o una blusa bianca mi invade la sensazione di trovarmi di fronte a un eroe. Il bianco è un’affermazione della vita, un’affermazione semplice, elementare, senza ornamenti fatui.

C’è umiltà nel bianco.

È il mio colore preferito, ma io soffro moltissimo, perché affinché una camicia resti bianca dopo averla lavata bisogna compiere quasi una magia.

Quello che succede di solito è che la gente che crede di vestire di bianco in realtà veste di giallo. Perché il bianco delle camicie o delle bluse o delle magliette si perde subito. Le lavatrici sono nemiche del bianco.

Se vedo un uomo con la camicia bianca che sta ingiallendo, provo tristezza, ma mi sento anche in compagnia, meno solo nell’oscurità. Quando vedo qualcuno con una camicia bianca come la neve, mi sento male, mi sento un essere inferiore. A volte intravedo soltanto una possibilità: indossare una camicia bianca nuova ogni giorno. Sembra l’unico modo di sconfiggere quei filamenti scuri, quei punti neri o quei toni giallastri che cominciano a comparire sulle camicie quando le si lava per la prima volta.

Cosa faceva mio padre per riuscire a vestire di bianco? Perché il bianco lo affascinava: le camicie, le giacche bianche. Sarebbe così meraviglioso domandarglielo ora, per farmi dire quali erano i suoi trucchi per mantenere bianco ciò che è bianco.

Ho verificato che molti uomini e donne hanno rinunciato al bianco assoluto, e si adattano a bianchi parziali. Dopo tutto, una coscienza del bianco radicale è ormai infrequente in questo mondo, perché il bianco angelicale non esiste più, dato che tutti commettono piccoli delitti, piccole offese, piccoli peccati, piccole mancanze, e tutto questo scurisce il bianco di quelle camicie, di quelle bluse, di quelle magliette.

Il sudore di uomini e donne si nota molto di più sulle camicie bianche. Quel sudore finisce per formare una chiazza grigiastra nel giromanica, che nessuna lavatrice e nessun deodorante riesce a togliere. Perciò, quando t’imbatti in qualcuno che indossa una camicia di un bianco accecante, luminoso, di un bianco senza un’esigua particella di oscurità, molto probabilmente ti trovi di fronte a un angelo, di fronte a una creatura sovrannaturale, perché in questa vita nessuno più veste di bianco.

La camicia da cinque euro e cinquanta è perfettamente piegata, e ha una piccola gruccia e delle mollette che la fissano a un cartone. C’è un piccolo adesivo tondo su cui compare il prezzo. Non oso gettare l’adesivo. Mi rimane appiccicato alle dita. Se mio padre fosse qui, mi direbbe cosa fare con l’adesivo da cinque euro e cinquanta.

Con un gesto comico, decido di appiccicarmi l’adesivo sulla fronte. Mi guardo allo specchio e rido.

Il mio prezzo è cinque euro e cinquanta.

La commedia della vita mi porta via, mi trascina.

Quell’adesivo è indistruttibile.

Rido di quanto sono economico. Rido di me come prodotto in offerta.

Mi rendo conto di aver bisogno di qualcuno che mi dica cosa fare con questa immensità del mondo che non capisco, che non posso capire, perché mi lambicco il cervello tentando di capire la vita e non capisco nulla. Con l’adesivo sulla fronte, rimango a guardarlo nello specchio in silenzio. Non voglio gettarlo nella spazzatura. Non voglio che esista la spazzatura.

Perché tutto è spazzatura.

Abbiamo trasformato tutto in spazzatura.