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Un giorno capisci che non sei mai stato pienamente con nessuno, neanche con te stesso. E quel giorno è un grande giorno. La vita di un essere umano che invecchia consiste nell’accettare che non è mai stato con nessuno e non starà mai con nessuno, non potrà mai dare la sua anima a un altro e fare in modo che l’altro capisca ciò che gli si dà, che lo protegga, lo curi e lo preservi. Per amare qualcuno devi rinunciare a te stesso. Poche persone rinunciano a sé stesse. Ogni essere umano, quando entra nella vecchiaia profonda, accetta la solitudine, a questo penso mentre torno in treno a Madrid.

Abbiamo costruito l’illusione della compagnia. L’abbiamo fatto con l’invenzione della famiglia, con l’invenzione dell’amore, dell’amicizia, dei legami incondizionati, e l’illusione funziona bene finché l’età fa decantare una sensazione nuova: la sensazione che morirai da solo, perché tutti moriamo da soli. Soli sono i mari, le montagne, le stelle e gli alberi, è così il mio sentimento della solitudine: un’esaltazione meravigliosa del mistero di essere qui, nella vita e sulla terra.

Mi piacerebbe vedermi morto per toccare dalla vita la mia stessa morte. L’idea della resurrezione, tanto strampalata e tanto umiliata e tanto vilipesa e tanto disprezzata, si presenta davanti ai miei occhi con una forza gialla, che mi chiama. La resurrezione, in cui credette il più grande romanziere dell’età moderna – vale a dire Tolstoj, il russo Lev Tolstoj – è assuefazione alla vita. Come non essere assuefatto alla vita, alla contemplazione dell’amore, alla contemplazione del cibo, alla contemplazione dell’inverno, dell’estate, della primavera, dell’autunno. Come non essere assuefatto al vento e alla carne del vento.

Ci siamo dimenticati dei misteri ancestrali.

Non posso fare un passo in questa vita senza che il fantasma dei miei genitori morti sia con me.

Dopo la pubblicazione del mio romanzo mi sono detto che non li avrei più evocati, che li avrei lasciati per sempre nella loro morte, però la gente, con le migliori e più delicate intenzioni del mondo, mi ha assediato di domande su di loro. E io volevo restituirli al luogo in cui erano. Ma che luogo era?

Anche questa donna che sta a fianco a me sul treno avrà un padre e una madre, e vista la sua età – dimostra un po’ più di sessant’anni – è probabile che siano morti. Sta mangiando accanto a me, ha un piccolo panino, e mangia con delicatezza. Guardo di sottecchi le sue unghie rosse sul pane in cassetta; e gli auricolari collegati al suo cellulare.

Dal treno si vedono case nelle periferie delle città, appartamenti poco invidiabili. Lì vivono delle persone, e io immagino le loro vite. Può darsi che io stesso finirò i miei giorni in uno di quegli appartamenti in periferia, appartamenti economici che danno sui binari del treno.

M’immagino sempre un finale così: abbandonato da tutti e da tutto, consegnato all’anonimato più ermetico, immerso in un appartamento di quaranta metri quadri dove ci sono quaranta gradi in estate, consumato dalla polvere e dalla sporcizia, steso su un letto sporco. E malato, e agonizzante, e tuttavia tranquillo. Così mi vedo nel futuro.

Probabilmente con questo tipo di pensieri tento di sfidare il destino, tento di non avere paura di nulla. Perché anche se in quegli appartamenti che vedo dal treno gli occhi non trovano nulla di appetibile o di desiderabile, là dentro ci sono sicuramente degli esseri umani, esseri umani che respirano e s’innamorano. E bisogna sempre ricordare che la vita accade sotto il sole, finché c’è luce, e sotto la luna, quando è buio. Nessuno può rubarti questo: il giorno e la notte.

Guardo di nuovo la donna che viaggia con me sul treno. Si è addormentata con una briciola di pane sulla bocca, che imbruttisce la sua espressione. Con impossibile mano ferma, le tolgo la briciola dalla bocca.

Adesso è perfetta.