Torno a Madrid domani. Ho dovuto passare la notte a Chicago. Il pullman che ho preso a Iowa City mi ha lasciato nella Città del Vento verso le tredici. L’autista mangiava Doritos e ascoltava musica negli auricolari, e guidava con una mano sola. Sorrideva, perché la musica che ascoltava lo metteva di buon umore.
La compagnia di pullman con cui viaggiavo non ha una sua stazione. Si chiama Megabus, la concorrenza più economica alla Greyhound. Però il viaggio con Megabus è molto più piacevole, anche se ti lasciano in mezzo a una strada sperduta, senza case, senza civiltà, in uno spiazzo. Ho camminato un po’ finché non ho trovato un taxi, che mi ha portato in albergo.
Avevo molta paura, paura che mi dessero una stanza che non mi piaceva. Avevo scritto chiedendone una silenziosa. Mi ha preso la paura delle stanze d’albergo. Può darsi che sia la stessa paura che si prova per ciò che è sconosciuto. Però stavolta sono stato fortunato e la camera è risultata splendida.
Era così grande che mi sono innervosito. Volevo dominare subito la sua estensione.
La stanza ha (ora scrivo al presente perché ci sono dentro in questo stesso istante) quattro grandi finestroni, due dei quali danno direttamente su Michigan Avenue e altri due su un altro grattacielo che sta di fronte, anche se in realtà direi che i quattro finestroni danno su Michigan Avenue. Era tutto così pulito che ho pensato di non meritare tanta pulizia. Il letto gigantesco mi è sembrato una sfida alla mia piccolezza. Come coprire con il mio corpo quella grandezza, quella vasta immensità di materasso, lenzuola, cuscini, copriletto.
Sono uscito in strada a passeggiare. Sono tornato sul ponte dove ero stato a fine anno. Stavolta non mi è parso minaccioso. Stavo per chiamare Valdi e Bra per dire che domani torno a Madrid, ma non mi avrebbero risposto al telefono.
Ho chiamato mio fratello, e ho fatto bene. Mi sono reso conto di una cosa stupefacente: attraverso mio fratello potevo dire ai miei genitori morti che ero qui, perduto in questa città.
Avevo bisogno di far arrivare loro quel messaggio.
Forse vi siete trasformati in grattacieli, ho pensato. Se è così, non ho nulla da temere.
Credo che la mia propensione al caos psicologico stia aumentando. Penso al deterioramento delle mie facoltà. Non penso al deterioramento di Mo, perché è più giovane. La vedo bene, la vedo contenta. È piena di entusiasmo. Ha la vita dalla sua parte, anche se a volte non se ne rende conto. Ha dentro una profonda energia vitale. Mo è come un albero. Gli alberi sono la cosa più bella del mondo. Mi hanno sempre affascinato gli alberi.
Ho approfittato di questi giorni nello Iowa per parlare con il mio psicoterapeuta, perché Mo mi ha inserito nella sua assicurazione sanitaria e ho avuto accesso alla sanità statunitense. Così, grazie a lei ho avuto a disposizione un mucchio di medici. Mi sono cercato, ovviamente, uno psicoterapeuta bilingue. Gli ho parlato delle mie nevrosi. Mi ha detto di non sentirmene colpevole, di vivere le mie nevrosi senza complessi di colpa.
Sono andato a comprare acqua e frutta in un CVS. Ho vagato per i corridoi pieni di cose, di cose la cui finalità mi sembrava la cosa più insignificante della terra. Era tutto carissimo. Mi sono comprato una banana per un dollaro, era la cosa più economica che c’era.
Di nuovo la sensazione di profondo demerito.
Quando sono salito in camera mi sono reso conto delle incoerenze che ci sono nella mia vita: non aveva alcun senso cenare con una banana da un dollaro in una stanza di lusso, questo pensiero mi ha fatto sprofondare in un abisso, nell’abisso di tutte le immense e misteriose contraddizioni su cui si è fondata la mia vita, che un giorno se ne andrà.
Il capitalismo è spossante.
Anche Arnold è il capitalismo.