Ho nel nécessaire un mucchio di benzodiazepine nel caso Arnold venga stanotte. Magari non viene. Non viene sempre.
Alla fine, Arnold è venuto e ne ho presa qualcuna. Potrei prenderle tutte e morire qui, in questa meravigliosa stanza.
I miei sono già morti, quindi per loro la mia morte non sarebbe un problema. Per i miei figli la mia morte sarebbe qualcosa di irreale e lontano, perché dopo tutto la mia morte accadrebbe dall’altro lato dell’Atlantico. È Mo che se la passerebbe peggio. Dovrebbe occuparsi di tutte le pratiche burocratiche. Tutti i moduli ricadrebbero sulle sue spalle. Al principio, le costerebbe fatica reagire e piangerebbe come una Maddalena, ma poi il suo senso del dovere s’imporrebbe e riuscirebbe a risolvere tutti gli intoppi burocratici e a seppellirmi da qualche parte. E mi organizzerebbe un buon funerale. Quello che non so è se mi manderebbe in Spagna o mi lascerebbe qui. Mi piacerebbe che mi lasciasse qui, negli Stati Uniti, mi piacerebbe molto che mi lasciasse qui. Bach e Wagner non hanno una tomba, perché sono stati cremati, perciò non ho nessun posto dove andare con le mie spoglie mortali. Mi ricordo della tomba di Elvis Presley, vicina a quella di suo padre e di sua madre. Quanto è stato bravo Elvis: tutti e tre insieme; be’, tutti e quattro, perché c’è anche il fratello gemello di Elvis, che nacque morto l’8 gennaio 1935 e che nonostante ciò battezzarono Jessie Garon Presley. Mi sto dimenticando della nonna di Elvis, per cui sono cinque. La nonna di Elvis morì l’8 maggio 1980, dopo aver sepolto il nipote il 16 agosto 1977 e il figlio il 26 giugno 1979. Penso a quella nonna, che ha visto morire tutto.
Quando ho visitato Graceland e ho visto le tombe di suo padre e sua madre, e la sua, ho capito che Elvis se n’è andato da questo mondo avendo compreso l’unica cosa che valga la pena comprendere. Erano di nuovo tutti insieme, a questo mi riferisco.
Credo che starei benissimo sepolto negli Stati Uniti, come tanti uomini e donne che per un motivo o per l’altro sono finiti qui. Non mi rende affatto triste. Possiamo e dobbiamo parlare di tutto, senza drammi.
Nella parte delle ultime volontà, quando qualcuno esprime il desiderio di essere sepolto in qualche luogo preciso, non vedo che egoismo o vanità. La cosa normale è che ti seppelliscano dove si può. Perciò non c’è da esprimere alcun desiderio. Dov’è più facile. Dove neanche si nota. Dove è comodo a tutti. Dove non dà fastidio. Dove risulta più economico, per non dire più a buon mercato. Dove non bisogna preparare nulla. «Dove abita l’oblio», lì.
Dove va il mio corpo mentre dormo nei letti degli alberghi? Discende nel mondo di coloro che non ci sono più e si siede accanto a loro, e chiacchiera con loro, e riceve l’invito a perdurare lì, a rimanere lì, in un luogo senza luce né materia?
Sembra impossibile che Wagner non torni accanto a me.
Perché io l’accoglievo come se fosse il dono più elevato della mia vita, la vedevo discendere dai cieli, e lei si prendeva cura di me. Quando mi addormento con quel sorriso che producono le droghe che mi dà Arnold, vedo lei.
Vedo mia madre, una terra che ha colonizzato la mia terra, e non mi ha mai concesso l’indipendenza, né io l’ho chiesta.
Quando mi addormento nei grandi letti degli alberghi americani, comincio a scendere per corridoi e tunnel, per grotte sottomarine, per ghiacciai pieni di fumo e rocce gialle da cui escono arie d’opera, e vedo elefanti che parlano, vedo il volto del passato, vedo il passato trasformato in un comandante in capo della vita, e m’inginocchio davanti a lui.
E lui ride di me, come ridono i padri dei figli testardi e innocenti.
E mi dice «torna a letto, torna in albergo».
E allora mi sveglio quando si avvicinano le sei del mattino, quando già s’intuisce che sta per fare giorno.
L’arrivo di quell’ora, l’arrivo delle sei del mattino, mi tocca il cuore, perché tu, papà, ti alzavi molte volte a quell’ora quando partivi per qualche viaggio. E io ricordo quell’ora pieno di vertigini. E mi domando com’è possibile che il tuo ricordo sia agganciato a un’ora: le feroci sei del mattino. Perché era quella l’ora che liberamente sceglievi per partire.
I commessi viaggiatori avevano quella prerogativa: sceglievano l’ora della partenza. E tu sceglievi sempre la stessa: le sei del mattino. E quell’ora si è incisa sulla nera lavagna della mia anima, a fuoco giallo.
Era la tua ora: le sei del mattino.
E per me è stata la grande ora del mondo.
L’ora della gente che con il suo lavoro ha dato consistenza e materialità a questo mondo.
L’ora dei lavoratori.
I tuoi grandi viaggi non saranno mai come i miei. I tuoi più lunghi erano di trecento chilometri; i miei sono di settemila; eppure i tuoi viaggi sono leggendari e meravigliosi; i miei, no.
Tu visitavi paesi dimenticati e capoluoghi di provincia degli anni Sessanta dello scorso XX secolo.
Io visito le grandi città del pianeta.
E i tuoi viaggi erano cosmici, i miei minuscoli.
Come si compie questa magia?