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Sono le sei del mattino, la camera d’albergo è immensa, mi alzo dal letto. Fa freddo. Guardo Michigan Avenue dai finestroni.

Ci sono sette gradi sotto zero.

Mi vesto in fretta e furia, e scendo in strada dal ventunesimo piano.

Non c’è luce.

C’è soltanto il freddo.

Cammino un po’, e vedo che in realtà ci sono undici gradi sotto zero.

Continuo a passeggiare.

Passa qualche macchina.

Al bancone della reception, l’addetto al turno di notte mi guarda sorpreso, mi domanda se ho bisogno di qualcosa. Non so cosa dire. Avevo bisogno di toccare la notte gelata, non posso dirgli questo. Gli mostro la chiave elettronica della mia stanza, non sia mai gli giri di chiamare la polizia. Non esistono ospiti strani come me.

Mi svesto in camera.

Mi rimetto a letto.

Dalle tende cominciano ormai a intrufolarsi le luci del giorno. È l’arrivo della luce.

Faccio timidi sforzi per invadere la parte del letto in cui non ho dormito, vale a dire un territorio immenso che rimarrà vergine. Non oso invadere quella zona del letto. Mi sembra che sia un lusso che non merito.

La mancanza di meriti è l’unico tema della mia vita. Quando sei cosciente delle grandi mancanze di meriti per ogni bene e per ogni fortuna, capisci la generosità della vita.

E ho una rivelazione; nelle stanze d’albergo riesco, alla fine, a sapere cosa mi succede. Torno nell’utero materno, torno al corpo e alla materia di mia madre. Torno al suo sangue, da cui non sarei mai dovuto uscire.

Perciò non possono esserci rumori.

Perciò sono così contento nelle stanze degli alberghi americani, perché sono grandi e lussuose, perché sono ai piani alti, perché quell’altezza è simbolica, perché il lusso di quelle stanze mi restituisce il lusso del sangue di mia madre.

Perciò trovo la gioia in quelle stanze.

Il sangue di mia madre era lussuosa architettura fatta di carne.

E allora entro in casa, entro nel corpo di mia madre.

La relazione tra una madre e un figlio ha una forza energetica in grado di far fronte a tutti gli sviluppi tecnologici del futuro e a tutte le conquiste di nuovi e inimmaginabili spazi di libertà che l’avvenire regalerà agli esseri umani.

Nella relazione tra una madre e un figlio si deposita l’energia di Dio. Lui è lì – non importa cosa si intenda per Dio, non ha a che fare con le religioni né con il mistero – in quella relazione, si sedimenta lì, riposa lì. Per quante cose il futuro dell’umanità potrà portare (e saranno cose affascinanti, liberatrici, giubilari), non ti perderai nulla se mantieni viva tua madre attraverso i tempi.

Tutto ciò che hai vissuto accanto a tua madre ha più rilievo di tutto ciò che verrà, questo volevo dire.

Di più: se sai vedere e trattenere nella tua anima tutto ciò che tua madre ti ha dato, non morirai mai.

A tutto questo penso stanotte e stamattina, in questo hotel di Chicago, dove sento che l’intera città ha deciso di proteggermi, ha deciso di amarmi.

Cerco di dormire, ma dormo di venti in venti minuti. Mi sveglio e accendo la luce. Mi metto la vestaglia (cortesia dell’albergo) e vado a spasso per la stanza.

E quella vestaglia è così perfetta che tento di toglierle la sua indefinizione umana, la sua assenza di radicamento in una famiglia. È una vestaglia anonima, che andrà di corpo in corpo.

Come io vado di città in città.

Guardo dai finestroni.

Mi rendo conto di non avere più paura di me, anche se continuo a distogliere lo sguardo dagli specchi.

Ci ho messo cinquantasei anni a perdere la paura di me stesso. Non so chi sono, e non lo saprò mai, ma non mi faccio più paura. Se mi guardo allo specchio, non so chi è quell’essere che sta lì. Nessuno l’ha mai saputo. Nessuno lo saprà mai.

Neanche mia madre sapeva chi ero.

Lo sapranno un giorno Valdi e Bra?

Lo sapranno i figli dei loro figli?