Bra è andato a studiare in Francia, in un paese sui Pirenei. Non voleva andarci. Avrebbe fatto un anno di scuola superiore lì.
Il liceo dove avrebbe studiato si trovava in un posto incredibilmente bello, in mezzo alle montagne e agli alberi infiniti. Era estate. Bra continuava a dire che non voleva passare un anno lì. Si trattava di fare la prima liceo in quella scuola francese, nell’ambito di un accordo tra Francia e Spagna.
Questo accadeva un decennio fa, nel 2009. Le date sono tutto per me, e ho bisogno di ripeterle perché mi sembra che sia necessario nominarle due volte, insistere su di esse.
Però dall’anno 2009, mentre guardavo il liceo dove avrebbe studiato mio figlio, sono passato agli inizi degli anni Settanta. Mio padre mi diceva sempre che voleva farmi fare uno scambio con un ragazzino francese. Io sarei andato in Francia e il ragazzino francese sarebbe venuto in Spagna, era questa l’idea che mi formavo nel cervello.
Fantasticavo su quell’idea.
Non la capivo bene.
«Ti manderemo in Francia» diceva mio padre mentre mi portava per mano per mezza Barbastro. «E un ragazzino francese verrà in Spagna» concludeva.
Non è mai successo.
Non voglio perdere quello che provai, le cose più belle che ho provato nella vita non voglio perderle.
Sto arrivando alla questione centrale di queste pagine che scrivo come meglio posso.
Non voglio perdere nessun giorno di quelli che ho vissuto a questo mondo, la cui essenza è la santità. Chi ha rubato la santità dal mondo? Qualcuno ce l’ha rubata e si tratta di un furto recente.
La santità? Che parolona. È un’altra: la bellezza. Confondo sempre le parole. Ma quando tenti con ogni mezzo di andare oltre la bellezza, che nome dai a questo?, e d’altra parte ogni essere umano ha diritto di desiderare un bene di natura sovrannaturale.
Qualunque essere umano che abbia avuto una famiglia, se lo desidera con immaginazione e con arte, può vivere sotto l’ordine della bellezza, è questo che volevo dire.
Bra non voleva restare lì. Aveva soltanto tredici anni. Per tutta quell’estate chiese di cancellare l’iscrizione. Lui non se ne ricorderà neanche più.
Tornammo ai primi di settembre, questa volta ormai per lasciarlo nel collegio. Aveva la sua valigia, una valigia grande. Era l’1 o il 2 di settembre, uno di quei due giorni. Lì, nei Pirenei Centrali, a trenta chilometri da Lourdes, molto vicino a Pau, tra fiumi e boschi profondi. Lì c’era quel vecchio liceo, con le sue camerate antiche. Il direttore evocò i princìpi culturali della Repubblica Francese. Ci fu una cerimonia pubblica.
La Francia mi commosse. Mi commosse l’ordine collettivo, l’amore per quell’ordine, una cosa impossibile per uno spagnolo.
I professori, molti di loro, portavano la cravatta.
Rimasi a guardare quelle cravatte con stupore.
L’internazionalismo della cultura e dell’educazione francesi, di questo ci parlò il direttore. Un uomo elegante, sereno, sulla sessantina. Sfoggiava baffi elaborati, nei quali volli scorgere un simbolo estetizzante della Francia.
Pensai alla Francia.
Mi ricordai di un’ovvietà geografica, che in quell’istante mi sembrò rivelatrice. La Francia e la Spagna sono i due unici paesi europei che hanno centinaia di chilometri di coste su due mari strategici: il Mediterraneo e l’Atlantico. Il Regno Unito e la Germania ignorano la cultura mediterranea. L’Italia e la Grecia ignorano la cultura atlantica. La Francia nasconde il suo lato mediterraneo e ha sviluppato di più la sua identità atlantica. In Spagna, al contrario, è più rilevante l’identità mediterranea che quella atlantica. Però possedere quei due mari è un dono degli spazi e dei labirinti politici della storia.
A mia madre non piaceva l’Atlantico perché l’acqua delle spiagge era fredda, preferiva il Mediterraneo. Invece a mio padre piaceva la Galizia e piaceva il suo mare perché d’estate non faceva caldo e perché suo fratello Rachma se n’era andato a vivere in Galizia, e a lui questo era sempre risultato inquietante e attraente.
Mio padre amava la Galizia perché ci era andato a vivere suo fratello. Non seppe dire al fratello che gli voleva bene e lo disse all’intera Galizia, questo è stupendo. Quando parlava della Galizia, a mio padre brillavano gli occhi, ed era per Rachma, perché ricordava suo fratello, ricordava l’infanzia e la prima giovinezza, e quell’amore per la Galizia l’ho ereditato io, e ogni volta che vado in Galizia, con me vengono mio padre e mio zio Rachmaninov, i due grandi fratelli, che si sono tanto amati e tante poche volte se lo sono detti. La devozione di Bach per la Galizia si basava sui viaggi che facemmo alla fine degli anni Sessanta e agli inizi dei Settanta. L’ultimo fu nel 1974.
Attraversammo la Spagna con la Seat 600 e poi con la Seat 850 e poi con la Seat 124, e la destinazione era la Galizia. Era Lugo, dove abitava Rachmaninov con la sua famiglia appena fondata. E a mio padre piacevano le estati in Galizia perché di notte non faceva caldo e poteva perfino dormire con una coperta leggera e lo faceva impazzire la cucina galiziana, gli piaceva da morire come si mangiava da quelle parti. Gli piacevano le granseole. I suoi migliori ricordi sono quelli sulla spiaggia di La Lanzada, lì, insieme al fratello, nel 1970, nel 1971, nel 1972, allora. Una volta ci portammo a Barbastro una cassa di granseole, ma arrivarono in pessime condizioni, perché il viaggio in Seat 850 durava due giorni. E le granseole non ce la fecero. La faccia triste di Bach era oceanica.
Non ce la fecero le sue granseole, Dio mio, avresti potuto dargli una mano. Bach voleva portarsi l’oceano Atlantico nella sua Barbastro. Ma non ci riuscì.
Noi spagnoli abbiamo due mari, quasi tre, mari con spiagge chilometriche come quella di La Lanzada. E l’Atlantico si trasforma nel mar Cantabrico quando arriva a Santander e a San Sebastián. Cambia nome. Perché cambia nome?
Quale mare preferisco io?
Non lo so.
Per mia madre era chiaro, amava tanto il sole delle estati mediterranee, amava tanto quel modo di stare al mondo. Tutto questo pulsava nel mio cervello, lì, nel collegio dove sarebbe rimasto Bra. Ero immerso in un uragano geografico. Pensai che forse l’Atlantico in Francia era diverso dall’Atlantico in Spagna. Pensai che il Mediterraneo spagnolo fosse diverso da quello italiano.
Precipitavo in un caos sentimentale che mescolava mari, paesi e famiglia. Siccome la Francia si sarebbe tenuta mio figlio, avevo bisogno di meditare sulla natura dei paesi, sulla bellezza dei mari, sulla casualità di avere un solo mare, di averne due o di averne tre.
Il caso dà ad alcuni paesi montagne; ad altri deserti. Ad alcuni monarchie; ad altri repubbliche. Ad alcuni ricchezza; ad altri povertà.
Alla fine, pensai di amare la Francia, visto che le lasciavo mio figlio in custodia.
Francia, ti amo perché so che amerai Bra, questo pensavo, mi intrattenevo in quegli enigmi, in quella confusione mentale, in quella vulnerabilità, in quella frenesia, in quel tipo di pensiero magico, in quell’Arnold che stava lì e mi diceva «stai abbandonando tuo figlio», in quei confini a cui mi conduce Arnold.
Poi ci portarono nelle camerate e ci presentarono i compagni di stanza di Bra. Mi spaventai. Erano altissimi. Bra non aveva ancora fatto l’allungo definitivo.
La camerata era grande ed era predisposta per sei persone, con tre letti a castello. Mi misi a verificare che le brande fossero resistenti. Bra mi domandò perché stessi facendo forza sulle sbarre dei letti a castello, fu l’unico che se ne accorse.
Tirarono a sorte e a Bra toccò la branda di sotto, però il compagno che avrebbe dormito sopra mi sembrò molto corpulento, molto grande. Perciò mi prese l’ossessione della resistenza dei letti. Dissimulavo come potevo, ma verificavo in continuazione la solidità dell’acciaio di quelle brande. Quando tutti guardavano da un’altra parte, io verificavo con le mie mani la resistenza delle sbarre.
Perciò finché non salii, con una scusa qualunque, sul letto di sopra non fui tranquillo.
Di colpo, tutti mi fissarono. I genitori degli altri ragazzi, la persona incaricata di mostrarci le stanze, il proprietario del letto che vedeva un adulto stendersi sul suo materasso.
Se reggeva me, avrebbe retto il compagno corpulento e grande che avrebbe dormito sopra la branda di mio figlio, era quello il mio ragionamento, che era uguale sputato ai ragionamenti di mia madre.
Mia madre ha avuto sempre le stesse ossessioni quando si trattava dei propri figli. Non sono ossessioni, sono cautele primitive, intelligenze rudimentali, che insistono nella ricerca della sicurezza dei tuoi figli.
Rimanemmo a dormire in un bungalow, e il giorno successivo ci saremmo salutati. Non l’avrei rivisto prima di un mese. La natura era radiosa.
Perché c’era tanta luce?
Il bungalow era piccolo, ma era pieno di fascino, circondato da alberi frondosi, che si agitavano e facevano musica con i rami; e accanto c’era un sentiero di abeti che portava in paese. C’erano molte famiglie spagnole alloggiate nei bungalow vicini. Tutte quelle famiglie erano venute a fare la stessa cosa, a lasciare lì i loro figli, sotto le cure dell’educazione francese. Tutti condividevamo l’idea che i nostri figli imparassero il francese e migliorassero nella vita. Era il nostro anelito, che ai nostri figli andasse meglio, che parlassero il francese, che fossero più svegli di noi, perché tutti pensavamo che ai francesi è sempre andata meglio che a noi. Non l’avremmo mai verbalizzato, ma eravamo là per quello, perché in fondo tutti diffidavamo della Spagna.
Era quello il motivo.
Credo che l’unica persona che ho conosciuto nella vita che non diffidava della Spagna fosse mio padre.
Lui credeva nella Spagna.
Credeva nella Spagna per bontà naturale, perché amava Barbastro, il suo paese, perché amava suo fratello, sebbene non glielo dicesse mai.
M’innamorai di quel bungalow, sembrava un piccolo paradiso, e si parlava spagnolo dovunque.
Spiegai a Bra che era lì per conoscere un’altra cultura e imparare a convivere con ragazzi della sua età. In realtà, quello che più volevo era che imparasse a parlare francese.
Se impari un’altra lingua, e la impari bene, puoi arrivare a essere due persone, questo pensavo. Credo che fosse il pensiero di un individuo spaventato.
Il giorno dopo salutai Bra nel collegio. Gli diedi due baci, mentre Arnold scuoteva di nuovo la branda di sopra.
Pensai alle sue cose, ai suoi calzini, alle sue camicie, ai suoi pullover. Pensai a quello per tutto il viaggio di ritorno: ai suoi vestiti, al nécessaire nuovo, alle sue pantofole, al suo spazzolino da denti. Era Arnold a fare quella rassegna nel mio cervello.
Mi ricordai del nécessaire di mio padre.
I nécessaire sono importanti, sono pieni di vulnerabilità e di tenerezza. I nécessaire dei miei figli mi spezzano il cuore. Anche quello di mia madre, pieno di rossetti e di creme, me lo spezzava.
Quando vedevo quello di mio padre, negli ultimi anni di vita, mi cadeva l’anima a pezzi, perché aveva conservato lo stesso nécessaire per quarant’anni.
Per tutto il viaggio di ritorno Arnold mi ricordò che avevo abbandonato mio figlio. Ora vedo l’inconsistenza dell’angoscia di quel tempo.
Ma Arnold è ancora qui.