Credo di averlo visto una volta quarant’anni fa e l’ho appena rivisto stasera. È comparso alla presentazione del mio romanzo, in una città del Sud della Spagna. Alla fine dell’evento, sono venuti parecchi lettori a parlare con me e a farsi firmare il libro. Ho notato un uomo che mi risultava familiare. La forma del suo viso, i capelli, lo sguardo.
Ho pensato che l’avevo conosciuto da qualche parte.
Erano quarant’anni, forse quarantadue anni che non lo vedevo.
Quando mi ha avvicinato la copia del romanzo per farsela firmare, mi ha teso la mano e io gliel’ho stretta. Allora mi ha detto: «Sono tuo cugino Benito, il figlio di José e Adoración».
Sono rimasto di sasso. Mi sono molto innervosito. Non sapevo cosa dirgli. Gli ho chiesto dei due fratelli, gli altri miei cugini.
Mi ha detto che erano vivi.
«Vivi», così ha detto, come se sapesse che dopo quarant’anni questa è l’unica notizia che importi. Non importa se lavorano o non lavorano, se vivono a Madrid o a Parigi, o in un paese, o su un’isola, se sono ricchi o poveri, se scapoli o sposati o vedovi o sacerdoti.
Importa questo: «sono vivi».
Ho aperto il libro per firmarglielo, e allora mi ha detto: «Ci sono nel libro, vero?» E io non ho saputo cosa dirgli, però è vero, c’è nel libro. È nel libro, compare nel mio romanzo.
Era mio cugino di primo grado.
Sua madre, Adoración, era la sorella maggiore.
Le due sorelle – sua madre e la mia – si disegnano nella mia memoria di nuovo insieme, com’erano sempre più o meno quarantacinque anni fa, perché erano amiche, oltre che sorelle. Essendo la più grande, Adoración era quella che più comandava, quella su cui ricadeva il peso delle decisioni. Era intelligente, simpatica, affabile, ben disposta. Aveva carisma, era una donna travolgente e vitale. So che mia madre le voleva molto bene, ma è stato così tanto tempo fa che sembra che non sia mai successo.
Benito e io eravamo sempre lì, e ci guardavamo, senza sapere cosa dire. Non potevamo volerci bene né darci un bacio, ma dentro ero tutto un fuoco.
All’improvviso tutto era silenzio.
«Hai figli?» gli ho chiesto alla fine.
E allora ha sorriso, e mi ha mostrato con l’indice due ragazzi che stavano dall’altra parte della sala.
«Sono quei due lì.»
Li ho guardati e mi sono sembrati due angeli.
Erano due angeli.
L’arrivo del sacro, alla fine.
Il maggiore era un maschio, alto, molto più alto di Bra e Valdi, più alto di tutti i membri della famiglia che conosco; un ragazzo bello, sorridente, con la barba. La figlia non ho potuto guardarla, non ne ho avuto il coraggio.
Non so se sia stato un gesto di vigliaccheria.
Ho provato un profondo amore per i figli di mio cugino, mi è sembrato che fossero anche figli miei.
«Sono anche loro figli miei, mamma» ho detto a mia madre, al suo fantasma.
Avrei dovuto abbracciare Benito. Ma ho sempre confuso il suo nome con quello dei suoi fratelli, non ricordo bene le cose; aveva due fratelli: uno si chiamava Luis Alfonso, l’altro Armando, o forse Luis Armando e l’altro Alfonso.
Cugini i cui nomi sono svaniti.
Mi ha chiesto di scrivere nella dedica: «A Benito, figlio di José e Adoración». E l’ho scritto, e ho aggiunto «con un forte abbraccio da tuo cugino».
E se n’è andato con il libro firmato, i due figli lo stavano aspettando, sorridenti. Sembravano felici di avere un padre che compariva nel libro. Cos’abbiamo fatto, Dio santo, per finire come due estranei? Sembra questo il destino della mia vita.
Gli organizzatori dell’evento si sono accorti che la presenza di Benito non era quella di un lettore qualunque, no. Si sono accorti che mi succedeva qualcosa. Quando l’angoscia mi mette alle corde, smetto di ascoltare le persone che mi parlano ed entro in un tunnel.
Per il resto della serata sono stato nel tunnel, pensando a Benito. Forse la cosa più straordinaria è stata che il suo volto e la sua persona mi siano risultati del tutto familiari. Ho pensato all’espressione primo hermano, «cugino di primo grado», in cui c’è un abisso. Lì c’è la parola hermano, fratello, che significa figlio della tua stessa madre e del tuo stesso padre.
Quanti anni avrà? Quante volte si sarà sposato? Quando si è sposato? Che lavoro fa? Se la passa bene?
La pubblicazione del mio romanzo è stata come una calamita che ha attirato verso il libro tutti i resti della mia famiglia, sparsi per la Spagna, soprattutto cugini. Primos hermanos, cugini di primo grado. Ad alcuni il libro piace, ad altri immagino di no.
E a me piace?
Io credo che sia il mio congedo da questo mondo, e lo sto facendo a modo mio.
Cosa avrei provato io se un mio cugino di primo grado avesse scritto un libro che raccontava la storia della famiglia?
L’avrei letto con il fiato sospeso. Credo che avrei pianto, perché il solo fatto di scrivere la storia dei nostri morti è bellezza in sé. Riportare i morti al presente non può mai essere una brutta cosa.
Se non li riporti, muoiono di più.
Non è accettabile che muoiano tanto, soprattutto se è nelle tue mani poterlo evitare.
Sicuramente Benito ha un altare nel cuore dove ci sono i suoi genitori, i miei zii, e li contempla ogni giorno. Benito non ha avuto bisogno di scrivere un libro, gli basta portare nel cuore José e Adoración. Invidio quell’austerità, quella solvibilità intransitiva del suo cuore.
A me non bastava portare i miei nel cuore; ho dovuto spiattellare le loro vite, e forse per questo nel modo in cui Benito mi ha guardato c’era anche, più che un rimprovero, una dolente intuizione della mia debolezza umana. Ma senza quella mia debolezza non ci saremmo mai rivisti.
Non avrei mai visto il sorriso candido e buono del suo figlio maggiore, anche se quella visione è durata un secondo.
No, non è stato così censurabile, o così stupido, o così inadeguato quello che ho fatto.
Ha avuto senso.
La cosa incredibile è che non credo di aver preso io quella decisione.
Chi l’ha presa?
Forse non è venuta dalle più inesplicabili tenebre quella decisione, forse i morti non finiscono per interferire sul futuro dal loro passato dolente. Se non avessi scritto un libro sulla mia famiglia, non li avrei rivisti, i miei cugini.
Non ne avrei saputo più nulla.
Sapere di loro era importante.
Sapere che erano vivi e che esistevano e che celebravano la vita e che l’oscurità da cui proveniamo tutti noi alla fine si è illuminata un po’. I nostri genitori erano fratelli. Noi non siamo più nulla. Il legame si è dissolto, e quello tra i loro figli e i miei è ormai meno di niente. E all’improvviso compare un romanzo in cui ci siamo tutti, e quel legame ritorna.
Quel romanzo sembrava un’eucarestia.
Una speranza nel bel mezzo del silenzio universale.
Fatto sta che molti dei miei cugini, di ciò che resta della famiglia dei miei genitori, hanno letto il mio libro.
E una famiglia che non era mai stata nulla, che non è mai stata esemplare, che aveva dimenticato la fraternità, che aveva distrutto la memoria comune, in cui non esistevamo gli uni per gli altri, ora è di pubblico dominio.
È strano, indubbiamente.
È una stranezza che mi affascina.
Non riuscivamo a guardarci negli occhi, Benito e io, non ci siamo neanche abbracciati, ci siamo soltanto stretti la mano.
Eppure, dentro di lui c’era la carne di mia madre come nella mia c’era la carne della sua, perché le nostre madri erano sorelle. E i suoi tratti anatomici erano simili ai miei. E quella somiglianza anatomica era qualcosa di reale e di biologico. Non avevamo più una relazione famigliare, ma biologica, che è l’unica sicura e decisiva e inappellabile.
Benito assomigliava molto a Monteverdi, suo zio, il fratello minore di mia madre. Il grande Monteverdi, che rimase scapolo, che morì solo, che morì ubriaco di segreti famigliari. Povero Monteverdi. Fortuna e dolore allo stesso tempo, fortuna perché l’eroicità di morire senza sapere perché hai vissuto mi illumina in questo istante.
La famiglia di mia madre era composta da sei fratelli, e soltanto io lo ricordo.
Ne resta vivo solamente uno, che si chiama Cristóbal. I suoi figli, vale a dire i miei cugini, vogliono che vada a trovarlo, ma io non voglio. I figli di Cristóbal hanno letto il mio romanzo e subito hanno voluto che andassi a parlare con lui, però non ci riesco, non ne ho il coraggio, non ho la forza di sfidare i fatti, perché in fondo mi sono inventato tutto.
Resta soltanto lui.
Resta soltanto Cristóbal, perduto in una casa popolare a equo canone, nella periferia di Madrid, in attesa dell’ultimo giorno.
E con lui si perderanno tutti i fratelli.
Nessuno li ricorda tutti con la passione con cui li ricordo io. Se questa passione non è amore, qualcuno mi dica cos’è.