Poi, in albergo, seduto in poltrona ad ascoltare il mare in lontananza, con il balcone aperto e la brezza che entrava, mi sono messo a pensare alla morte, a pensarla davvero.
Non alla morte in genere, alla mia.
Come sarà?
Gli esseri umani non sanno pensare la propria morte: ogni volta che pensano alla morte, pensano a quella degli altri, a quella di altre persone, persone che hanno amato o detestato, ma non alla propria.
Quest’esercizio di intelligenza non sappiamo farlo. Non è piacevole farlo.
Fantastico sull’idea che ci sia una pistola sul tavolo. Le armi devono odorare di qualcosa, di metallo, di ferro, di grasso. Immagino quell’odore, perché sono molto sensibile agli odori. Perché la vita è stata, prima di ogni altra cosa, un odore. È indimenticabile l’odore di un’arma da fuoco. E quell’odore rimane sulle dita delle mani.
Quando facevo il servizio militare mi resi conto di quanto sia mortifero un proiettile. Non puoi immaginare quello che fa un proiettile finché non lo vedi. Un colpo è un’astrazione finché non vedi quello che fa. Nei campi di tiro c’era una grossa trave di ferro, dimenticata da qualche impresa di costruzioni. Era accanto ai bersagli a cui sparavamo. Un giorno, andando a verificare i risultati sul bersaglio, mi accorsi della trave. C’erano diversi colpi di proiettili lontani dall’obbiettivo. Quei proiettili avevano fatto fori perfetti sulla trave di ferro. Immaginai quegli orifici, quelle perforazioni in un corpo umano. Fu come una rivelazione. Capii meglio la morte da arma da fuoco.
Le armi da fuoco hanno il vantaggio di farti avvicinare alla morte nel modo più immediato che si possa immaginare. Creano la simultaneità fra la vita e la scomparsa della vita. Per questo le proibiscono dovunque, tranne che negli Stati Uniti, dove questa passione per l’immediatezza della morte non è caduta in prescrizione.
Mi sono venuti in mente Ernest Hemingway e Mariano José de Larra. Entrambi si sono uccisi così, con un’arma da fuoco. Mi si è presentato anche il ricordo del presidente cileno Salvador Allende, che si suicidò l’11 settembre 1973 dinanzi al colpo di Stato del quale fu vittima il suo governo, e dinanzi all’assalto armato e cruento al Palazzo della Moneda. La sinistra non ammetteva il suo suicidio e per molto tempo sostenne che fosse stato assassinato dai militari golpisti. Adesso ormai si accetta che Allende abbia deciso di spararsi, e in quel gesto c’è ancora più onestà che nel suo presunto assassinio per mano dei militari, perché non diede loro l’opportunità di giustiziarlo, e questo conta. Conta molto, poiché presuppone un gesto consapevole, in cui la resa non viene nemmeno presa in considerazione. Chi non si uccide lo fa perché in fondo spera che gli altri non lo uccidano, e apre così la porta alla richiesta di clemenza. Allende non volle suggerire nemmeno un’ipotetica clemenza, non volle trasformarsi in una decisione da prendere, non volle guardare negli occhi i miserabili che venivano a distruggere la democrazia. Né insultarli né parlare con loro né dire loro il suo nome né condannarli, non volle nulla. E quel proiettile che gli perforò il cervello era, di conseguenza, un proiettile moralmente buono, prezioso e pieno di necessità. In realtà, furono due proiettili, perché Allende usò il proprio mitragliatore per spararsi in testa e in faccia. I due proiettili distrussero le ossa della faccia. I medici legali constatarono che il suo volto era diventato irriconoscibile. L’autopsia di Allende rivelò qualcosa di sorprendente: il presidente cileno aveva il fegato, il cuore, i reni e i polmoni in ottime condizioni di salute, come se fossero gli organi di una persona giovane, una cosa insolita in un uomo di sessantacinque anni.
Il fatto che avesse gli organi sani ci dice simbolicamente che la democrazia ha a che fare con la gioia, così desidero vederla io. Avrebbe potuto vivere molti altri anni. Vista la robustezza dei suoi organi interni, Allende sarebbe arrivato a novant’anni.
Mi emoziona la lucidità di Allende, mi emoziona il fatto che non ci sia stato in alcun momento spazio per il dubbio. Sapeva perfettamente ciò che doveva fare, e quella determinazione di Allende continua a illuminarci. Personalmente, m’illumina, perché mi dice che ci sono esseri umani che valgono, che sono lì a condurre tutta la specie umana in un luogo di dignità.
Senza dignità non si può vivere.
Continuo a pensare alla mia fantasia, con la pistola sul tavolo, nella sua pesante struttura di ferro, nella sua presenza decisiva. Il proiettile e il fuoco rappresentano il decimo di secondo in cui il corpo passa dalla coscienza all’incoscienza.
Ma cosa penserebbe mio padre se mi vedesse comparire accanto a lui con un foro sulla tempia.
Bach smetterebbe di amarmi.
Non posso farlo per te.
Fino a lì arriva il tuo potere, fino a quel luogo sconosciuto della mia coscienza. Un morto mi proibisce di uccidermi.
Non ti farebbe per nulla piacere che arrivassi dove sei tu in quelle condizioni, con un «no» alla vita marchiato sul corpo che tu e mamma mi avete dato. Non posso farlo, per voi.
Per voi due, che siete morti.
Ma potrei farlo per quelli che sono vivi. Perché i vivi non mi hanno dato niente.
Soltanto voi due, che neanche mi aspettate, che neanche vi ricordate, perché mi sto inventando tutto; m’invento che ancora mi sentite perché questo mi aiuta a restare vivo, mi aiuta a raggiungere lei, la gioia.
So che mi sto inventando tutto, che non mi sentite, so che nulla è accaduto come io lo racconto, so che non c’è stato tanto amore, so che tutto è stato banale, so che sono pazzo perché m’invento questa storia d’amore, perché m’invento la mia vita, che non è come la racconto, perché chi la racconta è Arnold, quell’essere intrattabile, ma allo stesso tempo troppo luminoso.
I vivi che mi amano, forse non più di quattro o cinque persone, lo supererebbero. Sarebbe terribile, certo. Per loro sarebbe davvero terribile. Ci penso. Che bisogno ha un essere umano di essere tanto egoista.
Non sarebbe mai per disperazione, né per malinconia, né per qualche disgrazia.
Sarebbe per amore della bellezza.
Sarebbe per bellezza.
E perché la gioia se ne va dal mio cuore.
Non credo che la bellezza si mostri agli esseri umani in gioventù, né durante la prima maturità. Piuttosto si mostra quando tutto comincia ad andarsene. Si mostra all’età di cinquantacinque o cinquantasei o cinquantasette anni. Lì, a quell’età, comincia a lasciarsi vedere la bellezza che è stata nascosta per tanto tempo.
È divertente che stia pensando ai proiettili, alle crepe in un corpo, a travi forate. Proprio io, che quando devo andare dal dentista mi sembra di andare a un macello di polli. Io, che non resisto neanche a una minima puntura di anestesia su una gengiva. Io, che al controllo dell’oculista non sopporto che qualcuno metta il naso nelle mie pupille.
E d’altronde, dove diavolo la prendo una pistola.
Non le vendono al Carrefour, non le vendono all’Hipercor, non le vendono da Zara.