Sono seduto nella sala imbarchi dell’aeroporto di Zurigo, devo tornare a Madrid. Sto guardando le scarpe nuove che Mo mi ha regalato qualche giorno fa.
All’inizio non volevo quelle scarpe, non perché non mi piacessero, ma perché non ne avevo bisogno. Però erano stupende. Me le guardavo deliziato. Le avevamo viste in un negozio di Zurigo che stava sotto dei portici. Una luce di febbraio entrava nel locale e faceva sì che le scarpe brillassero come se fossero frutti su un albero.
Siamo entrati nel negozio.
C’era soltanto la commessa.
Mi sono provato diversi modelli.
Ogni volta che mi provo delle scarpe cerco di indovinare quali luoghi calpesterò con loro. Penso a tappeti, a pavimenti di legno, a moquette. Penso ad alberghi, a pavimenti pregiati, a marmi. Penso al futuro.
Comprare delle scarpe è una scommessa sul futuro. Non compra scarpe chi morirà domani. Non compra scarpe un malato terminale. Nemmeno un suicida. Nemmeno un disperato.
Comprare scarpe è un sì al futuro, l’ho visto con estrema chiarezza.
Forse per questo mi è venuta una fitta di malinconia quando Mo ha deciso di regalarmele. Dovrò restare vivo un altro paio d’anni perché queste scarpe abbiano senso. Non potrei mancare di rispetto al regalo e alla materia con cui sono fatte queste scarpe, all’impegno umano, lavorativo, che c’è dietro la fabbricazione di un paio di scarpe.
Mi piacevano tanto che me le sono tenute ai piedi.
Sono uscito dal negozio con le scarpe nuove. Ricordo di quella sensazione di fretta in mia madre. Faceva la stessa cosa. Se si comprava qualcosa, voleva inaugurarla un minuto dopo averla comprata.
L’ho vista molte volte uscire da un negozio con le scarpe nuove ai piedi e quelle vecchie nella scatola. La prima volta che gliel’ho visto fare ho pensato che mia madre fosse una maga, che facesse magie.
Mi commuoveva il fatto che le scarpe vecchie finissero nella scatola nuova. Rompeva i miei schemi di nuovo e vecchio. Come di colpo le scarpe che fino a dieci minuti prima erano state le scarpe di mia madre smettevano di esserlo e ai suoi piedi ne compariva un nuovo paio e le vecchie finivano in una scatola attraente e di classe.
Non riesco a ricordare le scarpe di mia madre. Riesco a ricordare gli stivali che comprava quando era giovane, nei primi anni Settanta. Mi piacevano quegli stivali, perché estendevano il loro dominio fin sopra il ginocchio. Mi sembravano un successo, mi piaceva che mia madre portasse quegli stivali.
La vedo mentre cerca di togliersi quegli stivali, perché entravano a pressione. Erano stivali con il gambale floscio, e con una cerniera infinita. Mi sembrava che mia madre fosse molto sexy con quegli stivali di fine anni Sessanta e inizio Settanta. Adesso non riesco a ricordare le sue ultime scarpe. Questo mi rattrista. Come ho potuto non prestare attenzione alle sue scarpe. Se la rivedessi, le guarderei le scarpe. Quanto poco l’ho guardata, quanto poco.
Erano stivali di camoscio, e noi l’aiutavamo a toglierseli. A me sembravano stivali con il trucco, dato che non capivo perché le uniche parti dure dello stivale fossero il tacco e la suola, e perché tutto il resto si piegasse. Mi sembrava che fossero più sofisticati gli stivali da donna che quelli da uomo. C’erano stivali che arrivavano a coprire l’intero ginocchio. Non li ho mai più visti nei negozi di scarpe. Nessuna donna oggi li porta. Ma all’inizio degli anni Settanta furono una rivoluzione, e se li vedi oggi, ti rendi conto che in quei modelli c’era una forma antica della gioia, o dell’innocenza. Succede la stessa cosa con quei pantaloni detti a zampa d’elefante, che formavano un triangolo all’altezza della caviglia e nascondevano la scarpa. Allora fecero furore, oggi non esistono quasi più.
Non riesco a ricordare le scarpe di mio padre. Dove sono finite le sue ultime scarpe?
Magari avessi fotografato le scarpe di mio padre, adesso potrei ricordarle. Invece ho fotografato la Tour Eiffel di Parigi, o la Puerta del Sol di Madrid, o l’Empire State Building di New York, ma non le scarpe di mio padre, che erano più importanti di tutti i monumenti di tutte le più belle città del mondo. Per questo adesso fotografo cose che la maggior parte della gente non fotografa.
Non posso parlare con nessuno di mio padre e di mia madre, come mi piacerebbe fare. Non posso parlare con nessuno di loro, perché nessuno accetta che non li abbia ancora seppelliti. Tutti finiscono per seppellire i propri morti. Io non l’ho fatto, mi trattengo nel lutto perché sono avvelenato dalla bellezza del lutto, sono diventato dipendente dal lutto.