Oggi, per i casi della vita, mi hanno invitato a un pranzo con Felipe González, a Madrid. Ormai sono passati gli anni, però nel decennio degli Ottanta e per buona parte degli anni Novanta del secolo scorso Felipe González è stato tutto per la Spagna. Per molti è stato il presidente del Governo spagnolo più brillante del XX secolo.
Sono arrivato al pranzo un po’ di malumore perché a Madrid pioveva, e ho perso l’orientamento. Alla fine ho dovuto prendere un taxi non necessario, perché ero vicinissimo al luogo in cui si sarebbe tenuto il pranzo, però non lo sapevo. Credo che non troverò mai il tempo di conoscere bene Madrid, eppure ci metto tutta l’attenzione di cui sono capace.
Mi accorgo che la mia capacità di orientarmi va diminuendo. Il mio senso dell’orientamento è sempre stato buono, ora non lo è più. Mi angoscia di più sapere che sto perdendo il senso dell’orientamento che sentirmi perso a Madrid. Alla seconda cosa si può rimediare, alla prima non più. Però le due angosce vengono a me fuse in un unico sconforto, come se si trattasse di un complotto di Arnold. Provo orrore per le malattie come l’Alzheimer, e questo mi porta a ricordare gli ultimi giorni del presidente Adolfo Suárez, che precedette nell’incarico Felipe González. Negli ultimi anni della sua vita, per colpa dell’Alzheimer, Adolfo Suárez dimenticò chi era stato, dimenticò di essere stato il presidente del Governo spagnolo. Raccontano – non so se sia vero – che quando una volta il re Juan Carlos I andò a trovarlo, Suárez non lo riconobbe, immaginò che Juan Carlos I fosse un mendicante che chiedeva l’elemosina e mise in mano al re qualche centesimo di euro. Nemmeno un euro, soltanto qualche centesimo.
La pioggia e il vento mi hanno ricordato l’ostilità delle città quando non hai un’auto ufficiale, quando viaggi con i mezzi pubblici.
Avevo una grande voglia di conoscere Felipe González. Poi, mentre la pioggia cadeva sul mio cappotto, ho pensato che quel cappotto era nuovo, e si stava rovinando. Mi è venuto anche da chiedermi se Felipe González fosse un autentico politico di fama internazionale, abbastanza famoso da comparire in un romanzo senza che si debba spiegare chi è. Uno come Ronald Reagan, Margaret Thatcher o Michail Gorbačëv, per citare politici dei suoi tempi. Anche se non so se questi che nomino siano davvero famosi. Non sappiamo chi ricorderà la storia dell’ultimo terzo del XX secolo. Forse la storia si sta già trasformando in un’immensa irrealtà.
Però io andavo a quel pranzo anche per una specie di omaggio a mia madre e a mio padre. Perché quando eravamo tutti insieme, quando eravamo una famiglia, quando pranzavamo mio padre, mia madre, mio fratello e io, negli anni Ottanta, allora era spuntato il presidente González.
E credo che mia madre, mio padre, mio fratello e io pensassimo che Felipe González era la Spagna. Perché è impossibile pensare un paese se non attraverso le persone che lo rappresentano.
E se la Spagna esisteva, allora esisteva anche la nostra famiglia. Così, quando vedevamo Felipe alla tele, vedevamo noi stessi, e formavamo un tutto, quello era il segreto.
Sono entrato nella sala dove si sarebbe tenuto il pranzo e diverse persone mi hanno salutato con affetto e amabilità. E ne sono stato molto grato, perché avevo paura. Mi fa sempre paura incontrare persone che rappresentano o hanno rappresentato lo Stato o la Spagna. E tuttavia, nel caso di Felipe González ho provato una sensazione strana: ho provato tenerezza.
Mi sono reso conto che era una persona molto timida, lo si nota dal movimento degli occhi. Quello che sto per dire sembrerà esagerato, ma quel movimento degli occhi dell’ex presidente, che oscillava da uno sguardo obliquo a uno sguardo basso, verso il pavimento, mi ha ricordato due persone. Forse il mio cervello è ormai una macchina capricciosa o un po’ logora a forza di processare informazioni, però ogni volta che mi concentravo sugli occhi e sullo sguardo di Felipe González mi venivano alla memoria due esseri umani che guardano o guardavano allo stesso modo dell’ex presidente del Governo spagnolo.
Queste due persone sono: lo scrittore Carlos Castán, autore di diversi eccellenti libri di racconti, e mio padre, Johann Sebastian Bach.
L’ex presidente guardava come loro.
È il dono che mi è stato dato a questo mondo: il confronto preciso fra gli occhi degli esseri umani.
Sono sempre stato bravo a paragonare fisionomie, a scoprire somiglianze fisiche, somiglianze segrete che annullano l’idea di originalità, l’idea che viviamo in un mondo originale; questa virtù l’ho ereditata da mia madre, che stupiva tutta la famiglia quando notava che tizio era sputato a caio.
Continuavo a guardarlo, con avidità.
E lui lo sapeva, immagino che conviva da più di quarant’anni con persone che lo guardano con avidità.
Più di quarant’anni sulla bocca di tutti, e ho pensato a questo, a come si deve sentire uno che è sempre in permanente esibizione del proprio volto. Poi mi sono messo a guardargli le mani: l’ex presidente ha dita sottili, non comuni, mi è sembrato piuttosto che avesse delle mani peculiari. E le dita risultavano più giovani del resto del corpo. Quasi che le dita delle mani non fossero invecchiate come invece avevano fatto le altre parti della sua anatomia.
Ho pensato a Gesù Cristo, ho pensato a come dovevano essere le mani di Gesù Cristo. I pittori hanno pensato a Gesù Cristo come all’espressione corporea della massima bellezza concepibile.
Dalle dita, sono passato a concentrarmi sulla sua abbondanza di capelli. Non c’era un solo capello che non fosse bianco. Però la sua testa non aveva stempiature né annunci di calvizie. Questo mi ha rallegrato. Poi ho ricordato che anche altri ex presidenti non avevano pochi capelli. Per esempio, non è che l’ex presidente José María Aznar abbia molti capelli, ma in pratica sfoggia una capigliatura nera molto folta. Anche Adolfo Suárez aveva sempre avuto molti capelli. Quello che aveva meno capelli era José Luis Rodríguez Zapatero, ma credo che fosse perché gli doveva piacere portare i capelli corti. Neanche a Mariano Rajoy mancavano i capelli in testa. L’unico calvo è stato un ex presidente che è durato pochissimo e che quasi non conta, si chiamava Leopoldo Calvo-Sotelo ed è salito al potere senza che nessuno l’avesse votato, per questo era calvo. Mi fa ridere il fatto che oltretutto il suo cognome avvalori questa teoria. La democrazia era fertile in fatto di capelli. Il dittatore Francisco Franco era calvo. La calvizie di Franco era la calvizie della Spagna.
La democrazia ha portato governanti con i capelli in testa.
Perfino con i basettoni, perché da giovane Felipe González aveva i basettoni, o io lo ricordo con i basettoni. La dittatura è calva e la democrazia capellona, rido di nuovo. Dal punto di vista anatomico e iconografico, la democrazia ha portato al governo corpi di maggiore altezza. Franco era cicciottello e piccolo di statura. Suárez e Felipe González erano alti, calcolo, almeno un metro e settantacinque, ed erano magri. Rajoy e Rodríguez Zapatero sono alti, superano il metro e ottanta. Franco era un metro e sessantadue, una cosa del genere. La democrazia ha portato corpi più slanciati, corpi migliori. Se il tuo presidente non è né grasso né calvo, questo ti motiva, ti aiuta nella vita. Ti aiuta molto. Credo che Dio in persona abbia maledetto Franco (proprio Dio, che Franco tanto invocava) dandogli calvizie e sovrappeso e piccolezza. Può anche darsi che la calvizie, il sovrappeso e la piccolezza fossero gli attributi che più facevano confidare in Franco. Può darsi che i baffi fossero il tocco definitivo del suo aspetto fisico. Quei baffi hanno spazzato via quarant’anni di storia della Spagna. Forse si trattava di baffi magici, di baffi con i superpoteri.
Felipe ha parlato parecchio, e ho notato un’altra cosa: ho notato che il suo pensiero linguistico era basato sulla spiegazione costante di cose ovvie. Erano ovvie per me, però ho capito che ci sono stati molti anni nella storia della Spagna in cui quelle non erano ovvietà. Pertanto, mi è stato rivelato un accidente importante nella vita di quest’uomo: si era trasformato in un maestro di scuola.
Ho visto Felipe González come un maestro.
Anche il poeta repubblicano Antonio Machado era questo: un maestro.
Lo era anche Gesù Cristo.
Lo era anche il filosofo Wittgenstein, che non ho mai capito benissimo, e quante volte ho dovuto dire che lo capivo per non fare brutta figura e perché gli intellettuali non pensassero di me che sono un ritardato mentale, che d’altra parte è quello che sono. Questo piacerà molto a Arnold.
Non ho mai capito Wittgenstein, forse soltanto le prime due frasi del suo Tractatus, poi era tutto impenetrabile. Non so perché, ma adesso sono contento di non averlo capito.
Tutto è vanità.
Nel fatto che sia incapace di capire tanti filosofi, mi contemplo ormai come un uomo di scarsa intelligenza, che vive soltanto per andare a caccia di bellezza.
Perché della bellezza invece mi importa.
La bellezza è analfabeta e incolta, ci si mette del tempo a capirlo.
Lo è ancora di più la gioia, più profondamente analfabeta e incolta.
I maestri della scuola pubblica ripetono mille volte la stessa cosa. E questo faceva e aveva fatto Felipe González nel corso della sua vita: una lunga ripetizione di tre concetti di base, come quelli di uguaglianza, democrazia e giustizia, assediando quei concetti da ogni genere di luoghi, di argomentazioni, di riflessioni.
Più che qualcuno che ha avuto potere, l’ho visto come un pedagogo paziente.
Nel mondo antico, la rappresentazione dello Stato o del regno o dell’impero doveva essere proporzionale alla grandezza di ciò che veniva rappresentato. È stata questa proporzionalità a far sì che i re o gli imperatori fossero sacri, fossero al di là dell’umano. Non potevi guardarli negli occhi. Perché altrimenti ciò che veniva rappresentato perdeva valore.
La grandezza di un impero o di una nazione o di uno Stato era simboleggiata dall’inaccessibilità dell’imperatore, e dalla distruzione immediata di colui che osava guardarlo negli occhi. Perché altrimenti la maestosità dell’impero non era credibile.
Se non fosse stato così, tutto sarebbe entrato nel territorio del dubbio.
Sono qui, accanto a quest’uomo di settantasette anni, in cui il potere di rappresentazione è disceso fino alla mia portata, alla portata di un uomo comune, come me. O di qualunque uomo.
La vita degli ex presidenti di tutti i paesi occidentali è diventata un’esistenza normale, serena, tranquilla, da cittadino. Però quest’uomo non è il potere, e può darsi che non lo sia mai stato.
Chi è il potere?
Chi è il garante?
Chi o cosa rende possibile che la gente si alzi presto per andare al lavoro, che i funzionari compiano il proprio dovere, che le strade esistano, che i treni spagnoli funzionino, che la polizia indaghi sui delitti, che i giudici scrivano sentenze, che i professori universitari facciano lezione e correggano le prove d’esame, che gli architetti facciano case, che i consiglieri comunali si preoccupino del servizio di smaltimento dei rifiuti, che i capitani generali organizzino l’acquisto di nuovi aerei dagli Stati Uniti, che i banchieri pensino ad affari futuri, che i calciatori desiderino fare gol, che gli spazzini raccolgano i secchi della spazzatura quando scende la notte su tutta la penisola iberica, quando tutta la Spagna va a dormire?
Chi rende possibile che esista la Spagna?
Pensavo che, quando era presidente del Governo, fosse Felipe González. Ora che ce l’ho così vicino, ho la sensazione che non fosse lui, e che non lo fosse neanche il sovrano che gli era accanto, Juan Carlos I.
Ho la sensazione che ci sia una forza sconosciuta, che sta in ogni paese, una specie d’inerzia, che fa sì che tutto funzioni.
A un certo punto della chiacchierata, l’ex presidente ha chiamato Juan Carlos I «il vecchio re».
Sembrano parole belle ed eleganti: «il vecchio re», però in Spagna Juan Carlos I non gode più di prestigio. Si ha la sensazione che non lo ami più nessuno. Anche questo mi ha dato da pensare. Muore la gente che l’ha amato. La gente che c’è adesso, la gente giovane, di trent’anni, associa il vecchio re con affari loschi, con la corruzione, con la riscossione di commissioni illegali. Eppure l’ex presidente l’ha chiamato «il vecchio re».
Lo guardo di nuovo, e noto che ha la testa grande, come me. È un carattere genetico famigliare che abbiamo in comune.
Tutti gli spagnoli sono lo stesso spagnolo.
Tutti gli uomini sono un unico uomo.
Perché provo tenerezza per quest’uomo? Mi sembra di colpo un bambino. A chiunque di noi poteva toccare quella sorte della storia che ti porta a diventare presidente del Governo. È toccata a lui, ma sarebbe potuta toccare a chiunque.
Non c’è nulla di speciale, non c’è mai stato.
Nulla di speciale in nessuno, da Giulio Cesare, da Carlo V, da Napoleone.
È una casualità imponderabile, non è neanche il mistero della storia. Non è altro che il nostro desiderio di riempire i vuoti della natura, cose che la natura non ha completato.
Non ha saputo completare.
Dopo il pranzo, ci hanno mostrato dei voluminosi archivi, dove erano ordinate e catalogate le lettere che gli spagnoli avevano scritto a Felipe González quando era presidente del Governo spagnolo. La gente mandava lettere a Felipe González perché era il volto della Spagna. Lo è stato per molto tempo. Gli uomini, le donne, i bambini, i giovani, i nonni, le nonne, gli adolescenti, tutti gli scrivevano perché una pubblica amministrazione non ha volto, perché un municipio non ha volto, perché un ministero non ha volto, perché i funzionari dello Stato non hanno volto.
Un funzionario non può risolverti la vita.
Un edificio pubblico non può comprendere le mille disgrazie che ti sono capitate: una pensione di reversibilità negata, una malattia, un lavoro perso, la morte di un figlio, la rovina economica, la disperazione, la solitudine, la povertà.
Soprattutto, la povertà.
Soprattutto, la solitudine.
C’erano soltanto tre volti a quell’epoca: Juan Carlos I, Adolfo Suárez e Felipe González.
Juan Carlos era il re, era qualcosa di lontano e di ornamentale, e Adolfo Suárez aveva perso le elezioni in maniera clamorosa, e su entrambi si allungava ancora la triste ombra del dittatore Francisco Franco.
Fu, allora, Felipe González che finì per essere la Spagna.
Senza di lui non sarebbe stata possibile la costruzione dell’edificio democratico in cui adesso siamo tutti. Questo la gente lo sapeva. Conviene ricordarlo. La brava gente, semplice, tranquilla, lo sapeva. Lo sapeva la classe media. Lo sapevano le casalinghe e i padri lavoratori, perché sto pensando a quella Spagna del 1980. Perché la gente a quell’epoca usciva da una dittatura, usciva dall’analfabetismo politico, tutto era nuovo, e c’era un entusiasmo collettivo, tutto era novità. La gente capì che González significava progresso. E la gente voleva progredire. Dovevamo toglierci di dosso la puzza del sottosviluppo, la puzza del ritardo ancestrale della Spagna, la puzza del franchismo, della Chiesa, del cattolicesimo rancido, perché eravamo stati la società più retrograda d’Europa. Se si guarda agli anni Ottanta con gli occhi di oggi, si nota subito che gli esseri umani non scelgono quasi nulla, perché il tempo storico in cui vivono determina tutto. Coloro che hanno vissuto negli anni Ottanta furono assorbiti dalle convenzioni di quel periodo, come noi che viviamo nel secondo decennio del XXI secolo siamo assorbiti da quelle di oggi. E quelle convenzioni le chiamiamo verità, libertà, democrazia, giustizia, progresso, perfino amore, perfino vita privata, perfino erotismo, perfino poesia.
Dal 2 dicembre 1982 al 5 maggio 1996, il presidente del Governo Felipe González fu una forma umana, degli occhi, un sorriso, due mani, un tono di voce attraverso cui migliaia e migliaia di cittadini spagnoli disperati percepivano l’idea di vivere in un paese, cioè in un avvenimento collettivo, in una democrazia, in una fraternità riconoscibile, in un luogo in cui valeva la pena stare.
Perché se non vivi dentro un avvenimento collettivo (è questo che chiamiamo una nazione) non vivi da nessuna parte, rimani esposto alle intemperie.
È passato il tempo, si placano gli odii e gli amori, tutto alla fine è ormai storia, tutto è ormai pronto per quella serenità con cui il passar del tempo scioglie le passioni politiche, gli errori e i successi.
Voglio ricordare quel potente incantesimo che fa sì che un popolo cerchi in un volto la propria rappresentazione. Senza quel volto non esistono le nazioni. Pochi volti democratici e legittimi abbiamo avuto noi spagnoli.
No, non sono stati numerosi i nostri volti democratici né i nostri volti di progresso. Molti degli spagnoli che scrissero a Felipe sono ormai morti o hanno ormai dimenticato che una volta avevano depositato una lettera nella buca della posta, però una volta nelle loro vite Felipe González è stata l’ultima speranza trovata dalle loro anime spaventate.
Penso a un essere umano che in un momento di quel tempo in cui González governò la Spagna andò fino a una buca con in mano una lettera scritta per il suo presidente, in cui gli raccontava tutta la sua vita.
Non esiste onore più grande che ricevere quella lettera.
Le lettere degli spagnoli che credettero nel loro presidente, che credettero che il loro presidente li avrebbe aiutati, che confidarono nel fatto che il loro presidente fosse là per incoraggiarli, ci devono proteggere da ogni forma di tenebre.
Me ne vado, e mentre sono nella metro, di ritorno a casa, m’invento una conversazione con mia madre. Le dico che ho pranzato con Felipe González. Però non so alimentare questa conversazione. Provo con mio padre, ricordando ciò che mio padre aveva detto in questa vita di Felipe González. Neanche questa conversazione riesco ad alimentare. Perché nelle mie conversazioni con loro due non c’è mai stata letteratura. Non vogliono parlarmi.
Perché?
Non osservano più il mio presente.
Non possono accedere al mio presente.
Sono due fantasmi che si alimentano soltanto del tempo passato. Il mio presente non gli interessa. Avrei dovuto conoscere Felipe González quindici anni fa, adesso ormai è tardi.
Un’immagine ritorna. L’ex presidente del Governo è venuto al pranzo con una vecchia Mercedes. L’incontro si è svolto alla Fondazione Felipe González di Madrid, uno spazio piuttosto piccolo, ridotto a una sala, all’interno della Real Fábrica de Tapices, in calle Fuenterrabía. Ho visto l’auto dalla finestra. Aveva un uomo di scorta, che non portava nemmeno la cravatta. Era vestito come una persona normale. Non indossava nemmeno una giacca. Naturalmente era la cosa più lontana dal Kevin Costner che ha interpretato quel film del 1992 intitolato Guardia del corpo. E la Mercedes era un modello degli anni Novanta, un modello passato di moda.
La cosa peggiore che possa succedere a un paese è la stessa che può capitare a un essere umano. La cosa peggiore è sempre la stessa attraverso il tempo e la storia: la cosa peggiore è essere povero. C’è una gioia che nasce dalla ricchezza intesa come un’esaltazione della vita, la ricchezza che proviene dalla contemplazione degli edifici, delle cattedrali, dei grandi ponti, delle costruzioni umane; anche la gioia che ha origine nell’abolizione della fame, delle necessità elementari; gli esseri umani hanno bisogno di case, armadi, vestiti, lenzuola, asciugamani, scarpe, viaggi, automobili, aerei, non si accontentano di essere al mondo; hanno bisogno di essere colmi, soddisfatti.