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Siamo partiti per Santander, e abbiamo preso alloggio in un hotel che si chiama Abba, e che dieci anni fa si chiamava Hotel México. Gli edifici si rifondano. Anche gli esseri umani. Io stesso credo di essere una rifondazione.

Mo si è addormentata mentre scrivo. La finestra della camera è aperta. Ha appena piovuto ed entra una piacevole frescura che accarezza tutta la stanza. È una grande sera d’estate lungo il Cantabrico, un mare che mi ricorda le lezioni di geografia delle elementari. Ci dicevano che il Cantabrico era a nord. La Spagna era i suoi mari. Sarei potuto nascere qui, penso. Oggi sono andato in giro per la città e ho visto un sacco di case in cui mi sono immaginato vivere.

Vivere solo.

In una solitudine che non fosse umana.

In una solitudine al di là dell’idea che hanno gli esseri umani dello stare da solo.

In una solitudine che fosse una forma di pienezza, di grazia, di maestà, di potere, di governo, di ira e di serenità allo stesso tempo.

Credo di avere avuto questa solitudine quarant’anni fa, quando mi addentrai in quelle acque nascoste, in quel lontanissimo giorno del mio compleanno, nel fiume Cinca.

«Dove sei stato?» mi chiese poi mio padre. «Ci siamo preoccupati, ti abbiamo chiamato, che spavento.»

Mia madre era angosciata.

Mi guardarono con un’aria di infinita preoccupazione.

«E oltretutto è il tuo compleanno» disse mia madre.

C’erano delle tortillas di patate su un tavolino da campeggio. «Be’, adesso è qui» disse Ramiro, l’amico di mio padre. «Tutto sistemato» disse Pili, la moglie di Ramiro. Erano stati loro a portare il tavolino da campeggio. Fu questo che pensai in quell’istante: che il tavolino da campeggio era loro.

Vidi con chiarezza che mio padre non avrebbe mai comprato un tavolino da campeggio, e nemmeno io, perché non eravamo quel tipo di persone, non che fossimo migliori, piuttosto il contrario, ma avremmo potuto essere descritti grazie a quella caratteristica: persone incapaci di montare un tavolino da campeggio.

Io sorridevo, ero stato con il fiume. Non sono arrivato molto lontano nella vita, non sono ricco né particolarmente fortunato, e ho una propensione alla sofferenza che mio padre non ha mai conosciuto.

Ho pensato molto a questo, a quali zone della mia personalità ha conosciuto mio padre e quali no. Tutto ciò che mio padre non è riuscito a sapere di me, cos’è? Non presuppone un disordine inaccettabile pensare che mio padre è morto senza sapere esattamente chi ero io, suo figlio? Quel disordine manda all’aria il senso della vita e delle leggi fisiche e della logica matematica.

Mentre nuotavo in quel luogo segreto del fiume Cinca, mio padre non mi vedeva. Fu quello a spaventarlo. In quel lontano giorno del mio compleanno, fui perso per trenta minuti, fuori dalla sua osservazione.

Guardai la tortilla di patate.

Ramiro aveva acceso un fuoco e si mise ad arrostire le costolette. Allora capii anche che mio padre non avrebbe mai acceso un fuoco né arrostito costolette né avrebbe comprato una griglia. Quanto era grande il legame che stava nascendo e si stava sviluppando tra mio padre e me. Che proporzioni gigantesche aveva e ha quel legame. Che maniera calcolata e terribile di non andarsene da questo mondo attraverso la costante contaminazione del mio pensiero e della mia volontà.

Mio padre è come un alien.

E lo lascio stare, lascio che mi mangi dall’interno.

L’amore è cibo.