Un giorno, nel paese di montagna pirenaico di Benasque, doveva essere il 1970, mio padre mi portò in un albergo che non esiste più. Quell’albergo aveva una piscina, tra le prime di quelle montagne. Era giugno, avevano appena aperto la piscina e l’acqua era gelida.
Nessuno faceva il bagno.
Al massimo ci fu chi indossò un costume. Le vecchie piscine erano più vicine alla scultura che al loro valore pratico attuale. Allora, sembravano opere d’arte. Erano decorate con grandi pietre, avevano un aspetto robusto, formidabile. Le scale erano di ferro. Arrivavano fino a tre metri di profondità. Le vecchie piscine erano piscine serie. Quelle di adesso sono soltanto brutte copie.
E mi disse mio padre: «Ti do cinque duros se fai il bagno», una di quelle vecchie monete da venticinque pesetas, su cui era inciso il volto del dittatore Francisco Franco.
E lo guardai negli occhi.
Sapeva che l’avrei fatto.
Avevo il costume da bagno.
E mi lanciai nella piscina gelata, feci un paio di vasche e tutti si affacciarono a guardare il prodigio. C’erano alcune persone, alcuni ospiti dell’albergo, c’erano signore anziane che si godevano l’aria di montagna. Tutto era placido, soave, ordinato. C’erano dei tavolini e delle panchine sotto i frondosi alberi pirenaici.
Mi tuffai in piscina, ci entrai di testa. L’acqua gelata non mi fece alcun danno perché lui mi guardava, perché lui era lì. Non c’era ostilità, né dolore, né paura, né pericolo.
Eravamo soltanto l’acqua e io, e l’immobilità del tempo, perché allora scoprii che sott’acqua si sospendeva il movimento della realtà, s’insonorizzava il tempo e se ne congelava il corso, scompariva l’identità sociale di chi dimora sott’acqua, ed esplorai lì, in quella zona di coloro che nuotano sotto la superficie con il desiderio di lasciare il regno dei vivi per andare in un altro regno, nel regno dell’acqua. Forse mio padre voleva che scoprissi il regno dell’acqua. Proprio lui, che non sapeva nuotare. Però, anche se non sapeva nuotare, sapeva tutto. Nel regno dell’acqua non arrivano le voci, non arrivano i patti né le vanità, non arrivano gli accordi, né le gerarchie, né i capi di Governo, né la ricchezza, né la povertà, né la giustizia, né l’ingiustizia, lì c’è soltanto silenzio, imponderabilità, annullamento dei sensi dell’udito e del tatto, e la discesa di una luce setacciata, una luce filtrata, che sembra un’invocazione.
Quando uscii dall’acqua, mi stava aspettando con un asciugamano. Pensai che mio padre era la natura in persona, come se fosse un fatto irreversibile.
E la gente ci guardava.
Forse pensò che nel regno dell’acqua avrei potuto di nuovo comunicare con lui, quando il tempo della sua vita fosse terminato.
Nessuno fece il bagno quel giorno, allora la gente non sapeva quanto faccia bene un bagno nell’acqua gelata. Allora la gente non sapeva niente delle spa. La gente non aveva molte cose in quell’epoca, ma aveva vita. Tutto costava più impegno, non esisteva la tecnologia, però la vita era più potente. Adesso viviamo tra rappresentazioni della vita. Prima, almeno nel giorno che sto evocando, la vita non aveva bisogno di rappresentazioni perché si dava in sé stessa.
Non so perché lo fece, perché quella sfida. Immagino perché voleva vedermi in acqua, lui faceva di queste cose, ma è lì il vero problema. E il problema vero è che quelle cose che lui faceva – come quell’offerta di cinque duros per fare il bagno in una piscina di montagna – sono le cose più umane che mi siano successe nella vita.
Esplose la gioia nel mio cuore quando uscii dall’acqua e vinsi la scommessa, come se fossi diventato un eroe.
Gli piaceva vedermi nuotare.
Il passato non può tornare, ma c’è qualcosa che invece torna sempre, che sempre sta ritornando: il mistero.
Può morire la vita, ma non il suo mistero, che adesso è nei miei figli. Gli esseri umani dimenticano il mistero. Perciò le loro vite cadono, affondano, s’intristiscono, si adulterano.
Come scrittore, la mia responsabilità morale è ricordare l’esistenza del mistero.