Chiamo la reception e chiedo di cambiare stanza. Non ci capiamo bene. Perciò scendo alla reception. L’addetta parla spagnolo e mi dice di seguirla. Me ne mostra una al quarto piano.
Prendo la nuova camera, ma credo che sia stato un errore. Esco a passeggiare per Torino, pensando in continuazione di aver sbagliato a cambiare stanza. Un’amica dell’organizzazione che mi ha portato a Torino mi mostra la città.
Mi stupisce ciò che vedo.
Ciò che vedo mi lancia zampate, e allora mi rendo conto che è possibile che in me ci sia un mistico, e che sia sempre stato questo il mio problema, vedere cose che non esistono, vedere cose straordinarie dove non c’è nulla, cose che finiscono per complicarti la vita.
L’amica dell’organizzazione mi chiede dei personaggi del mio romanzo mentre camminiamo per la città.
Entriamo nel Palazzo Reale di Torino, e mentre vedo dove vivevano i re italiani, racconto all’amica dell’organizzazione dove ha vissuto la mia famiglia. Le parlo di Barbastro. All’improvviso capisco che non ha senso che parli di quel paese a una donna italiana, perché credo che in me ci sia della vanità, perché non ho diritto a questo protagonismo, mi sembra illegittimo.
Allora, per chiudere la conversazione, le dico: «Tutti abbiamo un paese da cui veniamo, e tutti abbiamo una famiglia, ora parlami della tua».
Mi parla della sua, ma molto brevemente e non la capisco troppo. Vorrei con tutte le mie forze saper parlare italiano, ma non mi è concesso. Migliaia di cose non mi sono concesse.
Lo Spirito Santo regalò agli apostoli il dono delle lingue, il dono di parlare tutte le lingue della terra, le lingue che esistono e le lingue che sono esistite.
Il latino, l’aramaico, l’ebraico, il sanscrito, come saranno state quelle lingue vecchie, finite, sprofondate chissà dove. Nessuno parla più latino nel mondo. La lingua in cui tante cose furono dette è morta. La lingua che creò questa civiltà non esiste, come quelli che hanno creato me, che non esistono neanche loro.
Torno in albergo ed entro nella nuova stanza e so che ci ho azzeccato. Vorrei parlare in latino, in un atto di bellezza, in un atto di ornamento dell’aria con sillabe latine che nessuno dice più. Mi ricordo in questo istante di don Luis Castilla, lui mi ha insegnato tanto latino. Mi ricordo dei miei grattacapi quando traducevo Virgilio. Perché tradurre Virgilio era, in qualche modo, toccare la civiltà con le tue mani.
Immagino un uomo o una donna che parla una lingua che ha solamente tre parlanti: uno vivo e due morti; una lingua che non conosce nessuno, che nessuno capisce. Quella persona finirebbe per pensare di non saper più parlare, ed è quello che succede a me. Milioni e milioni di esseri umani parlano lingue che mi sono ignote, e la lingua che parlo io la parliamo soltanto due morti e io.
Credo di star fuggendo dall’immobilità.
Mi spaventa l’immobilità, per questo accetto tutti i viaggi di lavoro che mi vengono via via proposti. Credo che nessuno scrittore accetti tanti viaggi quanto me.
Stare sempre nello stesso posto ti costringe a essere qualcuno, a essere un’identità conosciuta. Se viaggi, se sei costantemente in viaggio, non ti rimane il tempo per pensare a te stesso, vaghi per le città, sulle banchine, lungo le strade, negli aeroporti, nei luoghi più inospitali. La tua identità si squaglia, e allora ti riposi.
Per questo viaggio, per non ricordare che ho un nome, per non portare me stesso sulle spalle.
Di città in città, di paese in paese, per non sentire me stesso, perché chi si muove non ha tempo per pensarsi. Stare fermi è come guardarsi allo specchio. Muoversi è rompere tutti gli specchi. Muoversi è non vedersi riflesso. Chi è in movimento non può essere catturato da uno specchio o da una fotografia.
Viaggio anche perché a volte i fantasmi si perdono nelle città dei vivi. E così vi vengo a cercare.
I fantasmi sono spaventati dall’immobilità, perché ricorda loro che sono morti, per questo viaggiano, come faccio io. Fuggiamo dall’immobilità, che ti trasforma in un cittadino, in un essere con degli obblighi sociali, con una famiglia, con un lavoro e con un domicilio costante.
Io non ho famiglia, almeno non una famiglia evidente, ho resti o ricordi di famiglia appiccicati alla pelle, e l’unico modo di dimenticare che non ho famiglia è viaggiare.
Per questo viaggio, perché ho perso la mia famiglia. E quella perdita è irredimibile. Si può soltanto ingrandirla, allargarla, esaltarla, ma non curarla, la si può esplorare finché quella perdita trasudi bellezza.
Cammino per la stanza dell’albergo e mi chiedo se mio padre e mia madre siano qui, a Torino.
Saranno spersi in qualche città della terra, e devo andarli a cercare, però non so quale città sia. Quante più città visiterò, tante più possibilità di incontrarli ci saranno.
Apro la finestra della stanza ed entra l’aria fredda e guardo le montagne in lontananza, le Alpi, piene di neve. Dovrei andare lì, sulle Alpi, dovrei andare subito a chiedere di loro.
Vedo tre esseri in viaggio, tre esseri in fuga dall’immobilità. Due di quegli esseri viaggiano dentro la morte. L’altro viaggia dentro la vita. Ma tutti e tre viaggiamo.
Forse sto magnificando il mestiere di mio padre: era un commesso viaggiatore, un uomo che dormiva nelle pensioni. Io sono un viaggiatore della parola, adesso dormo negli alberghi. Non so se gli alberghi in cui dormo siano migliori delle pensioni in cui dormiva mio padre.
Non mi ha parlato di quelle camere, di quelle trattorie, di quelle pensioni. Non me le ha mai descritte.
Perché andare da qualunque parte se non posso raccontarlo a mio padre. Non gli posso raccontare quello che mangio, quello che vedo, quello che compro, quello che guardo. Non gli posso descrivere le città che visito. Quindi, non mangio niente; quindi, non vedo niente; quindi, non compro niente; quindi, non guardo niente; quindi, non sono in nessuna città.
Una volta, sì, mi ha parlato di una pensione. Era la pensione Vivas della città di Jaca. Immagino che dovette sentirsi solo, come mi sento io adesso negli alberghi in cui dormo. Anche i livelli di solitudine sono importanti, perché ho appena chiamato Mo e abbiamo parlato per una decina di minuti. Ma poi abbiamo riagganciato. Ed è tornato il fantasma di mio padre, e il fantasma di tutte le camere delle locande e delle pensioni in cui ha dormito durante la sua vita professionale.
Non credo che mio padre abbia mai usato queste due parole: «vita professionale».
Mi domando in continuazione che lavoro tu abbia fatto, papà. Hai contribuito con il tuo impegno alla creazione di ricchezza in Spagna?
Cos’è la ricchezza?
Per poter ripartire la ricchezza, bisogna prima crearla. Chi sta creando ricchezza oggi in Spagna? Di questo non parla più nessuno. I grandi funzionari dello Stato sono quelli che creano la ricchezza? Chi la crea? Chi ci dà da mangiare?
Tu l’hai creata. Hai contribuito a far sì che gli uomini degli anni Sessanta potessero commissionare un completo in una sartoria, questo hai fatto. Cosa hanno fatto altri? Cosa fa la gente adesso?
Non ti ho visto alzarti presto, perché dormivo nel mio letto quando ti alzavi alle sei del mattino.
Non mi hai visto alzarmi presto, perché allora non vivevamo più insieme.
Non mi hanno visto alzarmi presto i miei figli, come io non ti ho visto alzarti presto, è una catena intensa, di invisibilità, al servizio della prosperità di un paese.
Ricordo che ti vantavi di non avere bisogno della sveglia, di riuscire a svegliarti all’ora necessaria. Te l’ho sentito dire molte volte. Tutto ciò che ti ho sentito dire rinasce di nuovo.
Perché a volte ti alzavi alle cinque invece che alle sei, se dovevi andare a Teruel, che era la tua destinazione più lontana.
Non dovrei continuare a cercarti, ma non c’è nulla nella mia vita presente che sia bello quanto cercarti, forse perché cercandoti cerco me stesso.
Cercarti è bellezza.
Ti cerco non già per te o per me, ma per la bellezza.
Ero io quello che ti ha sentito vantarti del fatto che non avevi bisogno della sveglia, e a me sembrava una prodezza divina, che dimostrava la tua origine leggendaria, la tua origine celeste, perché tutti i lavoratori di questo mondo avevano bisogno della sveglia, tu invece no. E voglio adesso evocare quel mistero, per sapere se quel mistero brilla ancora da qualche parte.
Perché quel mistero si contorce nel mio animo come un gigantesco serpente di fuoco ogni volta che devo alzarmi presto e ho bisogno di mettere la sveglia del mio smartphone, perché quando con l’indice scelgo l’ora sullo schermo, mi ricordo delle tue parole, e quelle parole che hai detto tante volte vengono a me come pellegrine, come lacrime azzurre.
Non capisco perché ti ricordo tanto, perché la mia vita non è altro che un consegnarsi alla tua memoria. Non capisco questa grandezza. Non la capisco. Perché la tua memoria mi risucchia, e mi conduce nel salone delle anime, un luogo in cui si fondono mistero, bellezza e gioia.