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Sono tornato a Zurigo. Volevo vedere Mo, anche se solo per tre giorni. Abbiamo fatto una gita a San Gallo, che si trova a un’ora da Zurigo.

Mo aveva del lavoro da fare in città, così sono rimasto da solo a passeggiare per il centro.

Non so come si chiamasse la chiesa di San Gallo in cui sono entrato. Per me i nomi tedeschi sono indigeribili, viste le facoltà calanti del mio cervello, sempre più deteriorato dall’età e dai dispiaceri indefiniti e dall’incandescenza di Arnold. Non sapevo nemmeno se quella città svizzera in cui mi trovavo si chiamasse St. Gallen o San Gallo, perché su internet avevo visto che vengono usati entrambi i nomi. Quel dubbio mi ha messo in allarme. Lo stesso dubbio che ho avuto quando ho visitato la città di Basilea, che qui chiamano Basel. Quello che invece ho capito subito è che si stava bene dentro quella chiesa. Mi sono potuto sedere su una panca soffice. Non c’era nessuno all’interno, il che mi ha permesso di godermi il silenzio, una cosa che scarseggia dovunque, una cosa che negli anni a venire sarà motivo di delitti, perché la gente impazzirà per colpa dei rumori. Si ucciderà per il silenzio così come adesso si uccide per denaro, perché il mondo sarà uno strepito infernale.

Sono contati i giorni in cui l’uomo comune potrà godere gratis del silenzio. Anche il sole finirà per essere a pagamento. Non tutti potranno prendere il sole in futuro. Ci sarà un sole contaminato, che sarà di uso comune. Il sole vero sarà un articolo di lusso, come l’acqua dei fiumi.

Cosa ne sarebbe delle vecchie città europee senza le chiese e le cattedrali. Diffido sempre della datazione dell’architettura storica. Quando mi dicono che quella certa chiesa è del XVI secolo, diffido. Quando mi dicono che è dell’XI secolo, allora credo che mi stiano mentendo. Oltre il XIX secolo la mia intelligenza svanisce. In quell’istante Arnold ride, gli fanno piacere i miei dubbi, perché i dubbi sono il suo cibo, la sua carne, il suo zucchero, la sua verdura, la sua frutta, la sua anguria sgocciolante di acqua dolce.

Invece mi sono reso conto in maniera sconcertante che le chiese sono lo spirito delle città antiche. Succedeva la stessa cosa a Barbastro. Ho pensato di vivere lì dentro, in una chiesa.

Sono uscito da quella chiesa silenziosa e sono andato in un’altra, molto più grande, dove invece c’erano turisti che facevano foto. Hanno attirato la mia attenzione i confessionali, perché vi si leggeva il nome del sacerdote che officiava la confessione. Erano confessionali ottocenteschi, di legno scolpito, con sculture di angioletti e spesse tende di colore verde. Ho scostato le tende con la mano e sono stato tentato di domandare: «C’è qualcuno?»

Sarei rimasto a vivere in uno di quei confessionali della cattedrale di San Gallo, nell’enigmatica Svizzera. Stava già calando il buio quando Mo e io siamo saliti su un treno. Arrivati a Zurigo, abbiamo preso un caffè alla stazione centrale. Poi, sulla strada di casa, ho guardato per l’ennesima volta i negozi di orologi. Ho pensato ai laboratori in cui si fabbricavano quegli orologi di marche famose. Ho pensato a turni di sette ore. Ho pensato a operai molto qualificati, una sorta di operai del tempo, specialisti in minuscoli macchinari che misurano i giorni che ci restano.

Ho pensato alle loro pensioni, alle cene di Natale con i colleghi, all’allegria di quelle cene, all’allegria dei loro stipendi, all’allegria che producono gli incentivi per la produttività nella busta paga.

Le buste paga e il loro aumento annuale, l’aumento dell’indice dei prezzi al consumo, l’aumento dei benefit, hanno rallegrato la vita dei lavoratori europei.

Tutti gli orologi che vedevo in vetrina avevano prezzi impossibili. È già da parecchi decenni che sono comparsi gli economicissimi e popolari orologi al quarzo giapponesi, e si è democratizzata la misurazione del tempo. Però a me non basta sapere con precisione che ora è.

Voglio vedere l’ora disegnata su uno stupendo quadrante d’oro, che dia dignità e un po’ di bellezza al tempo che mi resta.

Ho bisogno di un orologio d’oro, non per esibire il lusso, ma per dotare il tempo di bellezza o di permanenza.

L’oro permane.

Credo che mio fratello si sia tenuto le fedi matrimoniali di Bach e Wagner. Le custodirà bene.

Le fedi devono essere d’oro, in modo che sopportino lo scorrere degli anni. Tutto si perde, però l’oro, nelle case umili, passa di generazione in generazione, finché non arriva una guerra o la miseria, che costringe a impegnare o a svendere.

Non ho mai chiesto a mia madre perché, dopo la morte di mio padre, si fosse messa la sua fede in una collanina, attorno al collo. La vidi lì, appesa. Pensai che dovesse esserci una motivazione estetica, e che avesse risolto così l’iconografia della sua vedovanza.

Penso che i miei genitori, in qualche modo, non credessero allo stato civile, c’era in loro qualcosa di selvatico. Per questo non c’erano foto del loro matrimonio. Non si sentivano una coppia convenzionale, così come mia madre non si sentì mai vedova.

Io ho ereditato questo, una disaffezione per lo stato civile regolato dallo Stato. Non è che non ami la tua donna, è che non vuoi che quell’amore sia oggetto di una catalogazione istituzionale. Non vuoi che, dove c’è la semplice natura, le leggi degli uomini edifichino un contratto artificiale.

Non vuoi neanche possedere nessuno.

Provo contrarietà per espressioni come «mio marito» o «mia moglie». Quei possessivi non mi piacciono.

Di colpo, era sola, e l’uomo che le aveva fatto compagnia per quarantacinque anni era scomparso, però non era vedova. Perché se diceva che era vedova, si omologava, e lei detestava l’omologazione. Per questo neanche mio padre si è mai sentito nonno. Erano contrari alla normalizzazione, alla socializzazione, alla standardizzazione, all’omogeneizzazione del loro stato civile. Credevano in una forma di originalità, e lo facevano per istinto, non per educazione o per un desiderio aristocratizzante.

Erano puro istinto.

Adesso penso alla pelle. Ai quarantacinque anni in cui mio padre ha portato all’anulare quella fede d’oro. L’aveva messa per la prima volta il 1º gennaio 1960. Qualcuno – non sono stato io – gliel’ha tolta il 17 dicembre 2005. Quasi quarantasei anni, per pochi giorni quella fede non ha compiuto quarantasei anni accanto a quella pelle.

Dunque sono stati quasi quarantasei anni di matrimonio.

Tutto ciò che siamo è scritto sul corpo che abbiamo. È questo il matrimonio: la conoscenza minuziosa di un altro corpo. In quella conoscenza la vita ci dà tutto. La forma di un piede, un gesto di sforzo quando puliamo la cucina, l’espressione della mano quando succede una tragedia domestica, lo sguardo che rimane dopo una conversazione telefonica complicata, un modo di sedersi a guardare la televisione, la maniera con cui si lascia lo spazzolino da denti sul lavabo, la quantità di vapore acqueo che rimane sullo specchio del bagno dopo una doccia, gli indumenti intimi sparsi sul letto, tutta quella cascata interminabile di conoscenze, in cui la vita si manifesta e in cui alla fine capiamo cosa sia la vita.