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Oggi è venuto un amico di mio padre alla mia conferenza in una biblioteca comunale di Barcellona. È venuto per farsi firmare il libro.

Papà, hai un sacco di amici ancora vivi sparsi per la Spagna.

Gente che ti ha voluto bene e poi ti ha visto in un libro.

Si sono via via riuniti tutti, perché un libro li ha riuniti.

Aveva lo sguardo acceso.

«Sono stato molto amico di tuo padre» mi ha detto, con un’emozione buona in cui la voce si incrinava e appariva negli occhi la voglia di piangere. Accanto a lui c’era la moglie, una signora bionda, più giovane di lui.

Si chiamava Gabriel Borrell, e credo di averti sentito parlare di lui qualche volta. Tutti i nomi di persone che hai pronunciato nella vita per me sono nomi leggendari, che conservano e nascondono il segreto dell’universo. Sono leggende, gesta del tuo passaggio per il mondo. Del tuo grande passaggio per il mondo, del quale sono soltanto un umile cronista, così mi sento. Come se fossero nomi di altri imperatori della vita, che hanno governato il mondo al tuo fianco. Prìncipi, gran signori, uomini buoni, custodi di una verità radicata nelle terre del Nord della Spagna.

Mi ha detto qualcosa che ha suscitato in me un’enorme curiosità. Mi ha detto che a volte ha condiviso la stanza con te in qualche locanda per commessi viaggiatori, alla fine degli anni Cinquanta, nella città di Teruel.

Gli ho subito chiesto la sua età. Si è reso conto che cercavo prove che ciò che mi stava dicendo era vero. E invece di dirmi la sua età precisa, mi ha detto «avevo dieci anni meno di tuo padre. Tuo padre era come il mio maestro o il mio fratello maggiore».

Sua moglie ha detto «ha pianto leggendo il tuo libro, e quanto siamo stati contenti quando ci hanno detto che venivi a Barcellona».

Gabriel Borrell mi guardava cercandoti e cercando sé stesso.

«Tuo padre era come Cary Grant» mi ha detto. L’ha detto con grande convinzione, come uno che avesse pensato a quel paragone lungo molti anni di analisi, di prove e controprove. Non come chi butta lì una trovata, ma come chi segnala una scoperta, con la gioia di chi ha fatto un passo avanti in una questione che riguarda l’umanità intera.

Proprio lì volevo andare a parare: era da tempo che cercavo il tuo alter ego nella storia del cinema, perché nella storia della musica sapevo già chi eri, e nell’ambito musicale il tuo nome era già usurato, ma so che sei in espansione, come l’universo, e devi occupare altri luoghi, altri spazi, altre leggende.

Ed è stato Gabriel Borrell a farmelo scoprire.

Sei stato Cary Grant.

Devo dirti che a volte ti ho pensato come Elvis Presley, e in qualche universo parallelo sei stato Elvis. Ma non ho autorità su questo. Chi ce l’ha è Gabriel Borrell, ed è stato lui a battezzarti così decenni fa.

Di conseguenza proprio oggi hai smesso di essere Bach, e quel nome si dissolve per sempre, svanisce, va via, e oggi, grazie al tuo amico, ti chiami Cary Grant. E non sono stato io, voglio mettere bene in chiaro che non sono stato io né la letteratura a trovare il tuo nome definitivo.

È stato un tuo amico.

È stata, pertanto, la vita.

La vita ti ha battezzato di nuovo, ti ha regalato un altro passaporto con cui viaggiare per il cielo vuoto di questa galassia che t’invento a ogni istante per non essere solo.

Così ti sei trasformato di nuovo, come fanno gli esseri viventi, che sono in continuo movimento.

Quant’è difficile trovare la gioia profonda in questo mondo e quanto poco durano i momenti di gioia.

Una gioia così profonda da essere devastante, trasformatrice, annichilente.

Io l’ho trovata in quel nome che mi mancava, in quella descrizione perfetta.

Mi mancava quel nome per averti di nuovo al mio fianco, perché continuassi a essere ancora presente, a occupare i miei luoghi, a espanderti senza fine.

Adesso non sei musica, adesso sei immagine in movimento. Devo soltanto prendere i vecchi dvd e tu sei là, nella tua ampia filmografia. Il mio film preferito con te è Scandalo a Filadelfia, una pellicola del 1940, diretta da George Cukor, ma mi sei piaciuto molto anche in Intrigo internazionale, e lì ti ha diretto nientedimeno che Alfred Hitchcock.

Il tuo nome è Cary Grant, il grande attore di Hollywood al quale assomigliavi in molte cose, che Gabriel Borrell ha saputo vedere cinquant’anni fa, vale a dire: il taglio del viso, il mento, la forma della testa e delle spalle, lo sguardo, la statura, la presenza, il modo di pettinarti, il volume del corpo e l’uso degli abiti a doppiopetto, che erano i tuoi preferiti.

Sono in albergo, è mezzanotte, e sono felice con il tuo nuovo nome, perché il tuo nuovo nome è una rinascita, e la constatazione che nella tua metamorfosi palpitano la mobilità e l’ironia. Eppure l’ansia mi sta sempre accanto, la campana nera dell’ansia, cioè il grande Arnold Schönberg, che nella storia del cinema potrebbe essere Nosferatu. Perché se tu adesso sei Cary Grant, Arnold si è incarnato in Nosferatu. Ho preso una manciata di caramelle che c’era in un vassoio di benvenuto e me le sto mangiando in modo folle.

Non le mangio.

Le mordo con rabbia e avverto come mi si frantumano in bocca. Sembrano vetri rotti.

Pura ansia.

Puro Nosferatu.

La mia stanza dà su un cortile con degli alberi e un giardino, e quando arriva la mezzanotte sento cantare degli uccellini. È un canto che ha un tocco sinistro, uccelli che ululano nella notte.

Non sono uccelli primaverili.

Siete voi due.

Però lei non può continuare a chiamarsi Wagner.

Sono i vostri spiriti. Come non credere ai morti, se ora i morti siete voi due sotto forma di uccelli nella notte, di uccelli affamati della mia luce.