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C’è qualcuno di cui non ho parlato. Me ne sono ricordato ieri riguardando alcune cartelle di fotografie nel computer e ritrovandomelo in una foto.

Quando l’ho visto ho avuto un tuffo al cuore. Ho quasi pianto rivedendo Brod, il mio cane, l’essere con cui ho fatto colazione per quattordici anni della mia vita.

L’avevo dimenticato nel viavai di morti più illustri della mia famiglia. Mi ero dimenticato di questa creatura che ho amato con tutto il cuore e di cui non ho saputo prendermi cura quando è diventato vecchio.

Non gli ho neanche detto addio.

Non ho saputo prendermi cura di nessuno, per questo scrivo, alla ricerca di un perdono immaginario. Tuttavia ho piena coscienza che invece saprò prendermi cura di Bra e di Valdi. Perché in me si compie un passaggio dello straordinario romanzo intitolato Papà Goriot, dello scrittore francese del XIX secolo Honoré de Balzac. C’è un frammento in cui Goriot esprime così ciò che prova per le due figlie: «Quando sono diventato padre ho capito Dio. Egli è tutto quanto in ogni luogo, poiché la creazione è opera sua. Io sono così con le mie figlie. Solo che amo le mie figlie più di quanto Iddio ami il mondo, perché il mondo non è bello quanto Dio, mentre le mie figlie sono più belle di me».

Non ho saputo prendermi cura di Brod, quando si è ammalato. Mi sono innervosito, ho capito che aveva bisogno di molte attenzioni. Nosferatu dice che non so sacrificarmi per gli altri. L’avevo battezzato con quel nome in onore di Max Brod, che era l’amico intimo di Franz Kafka, perciò l’avevo chiamato così. La gente non capiva bene il nome del mio cane, molte volte lo confondevano con Tom, che, quello sì, è un nome da cane. Correggevo sempre quelli che gli modificavano il nome. Altri sceglievano Rod. In pochi pronunciavano bene il nome di Brod.

Non potevo chiamarlo Kafka, sarebbe stato un po’ esagerato, o forse no. Quando venne a vivere con me ed era un cucciolo, durante le feste di Natale del 1995, pensai molto a come battezzarlo. Avevo appena letto le opere complete dello scrittore praghese e capii che il mio cucciolo doveva venire al mondo sotto la tutela kafkiana.

Adesso che ci penso, anche Kafka sarebbe stato un buon nome. Però ne scelsi un altro più umile, il che mi sembra racchiudere un insegnamento kafkiano, perché Kafka è stato lo scrittore più umile della storia.

Pensai che Max Brod, l’amico di Kafka, era stato l’inventore di Kafka. Sapevo anche che Max Brod aveva voluto molto bene a Kafka, e la loro amicizia era stata leggendaria. Le amicizie leggendarie devono sempre essere celebrate, perché sono rare.

Brod apprezzava più l’opera di Kafka che la propria. Brod adorava Kafka, perciò chiamai Brod il mio cane, per la grandezza che vidi nel cuore di quell’uomo passato alla storia della letteratura come l’amico assoluto.

Pertanto, il più grande omaggio che potessi rendere a Kafka era scegliere il nome del suo grande amico Max Brod.

Così lo battezzai Brod.

E siamo stati felici, Brod e io. Siamo stati due esseri kafkiani per eccellenza. Abbiamo riso insieme e insieme abbiamo cospirato contro l’ordine e l’autorità. Abbiamo avuto conversazioni di ogni genere, conversazioni eleganti, di grande profondità morale e filosofica. Eravamo pronti ad assaltare il potere, aspettavamo con ansia il giorno giusto, era soltanto una questione tecnica. Guardavamo insieme i film su La 2, nel programma cineclub, film di Carl Theodor Dreyer, Sergej Ėjzenštejn, Max Ophüls, Andrej Tarkovskij e Luis Buñuel.

Una volta l’ho portato in spiaggia e volevo mettergli il costume da bagno.

Un’altra volta gli ho messo gli occhiali da sole.

Mi piaceva fargli la doccia.

Lui pisciava sui lampioni e io applaudivo. Lui abbaiava alla polizia e io applaudivo. Lui non rispettava i semafori rossi e nemmeno io. Lui aveva paura della luna e anch’io.

È stato in un pomeriggio di gennaio del 2009 che il cuore di Brod si è fermato. È morto all’età di quattordici anni e tre mesi.

A poco a poco mi si è cancellato dalla memoria, eppure quando era morto mi ero ripromesso di non dimenticarlo mai.

Quando morirò io, può darsi che sarà lui ad accogliermi, lui accanto a mio padre e a mia madre.

Ho fede, ho la vecchia fede nell’accoglienza dopo la morte. Tutti gli esseri umani hanno dentro di sé questa fede, che proviene dalla festa della vita, dal ricordo che nelle feste della tua vita c’era sempre gente che ti aspettava per festeggiare l’incontro con te.

Ricordo che quando chiuse gli occhi tra le mie braccia, quel pomeriggio di gennaio del 2009, Brod ritrovò la sua essenza divina. E nella sala del veterinario accadde la portentosa metamorfosi.

Morta la carne, vidi chi era Brod.

Ah, Dio, quanto sono grandi la vita, la materia e i misteri. Quanta bellezza aveva accumulato Brod nei suoi quattordici anni. Brod era un bambino. I quattordici anni sono centoquaranta, e i centoquaranta sono millequattrocento.

Brod era il padrone di migliaia e migliaia di branchi di cani innamorati dei loro padroni. Brod era amore puro.

Non dimenticarmi.

Non ho saputo amarti meglio.

Il veterinario gli fece le iniezioni letali e lui mi guardò negli occhi e Brod capì perfettamente che quello era il momento dell’addio.

Mi guardò come ti guarda un bambino spaventato.

Mi guardò dicendomi «non farlo, ti amo, non farlo, e non è per me che ti chiedo di non farlo, è per te, di’ al veterinario di non farlo, di lasciarmi ancora un paio di mesi accanto a te, è per te, e anche perché ho fatto mio il tuo orrore del vuoto, questo un giorno ti salverà, il tuo orrore del vuoto farà sì che i tuoi errori, le tue assenze, le tue mancanze, le tue paure, il tuo scarso spirito di sacrificio al momento di prendersi cura di chi ti ha amato, siano perdonati».

Poi il veterinario si portò il corpo in un’altra stanza e dopo tre minuti tornò con il suo collare, sul quale era inciso il suo nome e il mio numero di telefono. Uscii dalla clinica con il cuore a pezzi e il guinzaglio in mano.

Credo che Bra e Valdi non lo ricordino quasi più. Cary Grant lo accarezzava di tanto in tanto. Lo guardava con curiosità. Ava Gardner gli dava molte volte cibo di quello buono.

Ava vedeva Brod come un essere umano, così come aveva fatto con le automobili di mio padre. Ava gli diceva «poveraccio», perché le sembrava un mendicante, uno che chiedeva. Non riuscì nemmeno a capire bene cosa ci facesse suo figlio con un cane, o con un mendicante dal nome così strano.