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Ho l’età che mio padre aveva nel 1987, e faccio sempre questo tipo di confronti e di parallelismi. Nel 1987 Cary Grant comprò quella che sarebbe stata la sua ultima automobile.

Comprò una Seat Malaga.

Fu il suo ultimo successo materiale nella vita.

La comprò con uno sforzo tremendo. La Seat 1430, che aveva sostituito la Seat 124, era già vecchissima, perché aveva quindici anni. La Seat 124, invece, era rimasta soltanto due anni con noi.

Quindici anni la 1430, due anni la 124, come se ci fosse un cammino in quelle mistiche proporzioni fra il tempo e le macchine.

Poco dopo che mio padre comprò la 124, la Seat mise in commercio la 1430. E Ava la vide, un giorno vide la Seat 1430 per strada.

E le piacque moltissimo. E arrivò a casa infervorata.

«Ma guarda che sfortuna, solo pochi mesi e ci saremmo potuti comprare la 1430, perché è molto più bella» disse Ava.

«Pensa che ha quattro fari e non due come la nostra, e questo incute rispetto» sentenziò Ava.

E quei quattro fari si ripercossero in tutta la famiglia come una specie di anelito trascendentale. Ci mancava rispetto: la nostra auto non lo incuteva. All’improvviso, eravamo al buio, perché avevamo soltanto due fari e non quattro. Eravamo nell’oscurità, esposti alle intemperie dell’assenza di quei quattro fari.

In quel periodo a mio padre le cose andavano bene. E alla fine decise di vendere la Seat 124 e di comprare la Seat 1430. E Ava battezzò la nuova macchina «la quattordici trenta», e la chiamò sempre così.

Nessuno nella storia del mondo ha meditato sulle differenze tra una Seat 124 e una Seat 1430 più di mio padre e di me. E io più di mio padre.

E continuo a meditare.

E continuerò a meditare fino alla mia morte.

Quando mia madre diceva la quattordici trenta, tutta la mia famiglia s’illuminava. Mia madre era contenta con la quattordici trenta, perché oltretutto le ruote erano enormi e aveva la vernice metallizzata e la capote era nera e aveva un orologio sul cruscotto e le luci interne di cortesia e la tappezzeria era rossa e lussuosa ed era equipaggiata con un contagiri. Mio padre sentì di essere stato sleale verso la sua 124. Mio padre era così, un uomo di un’originalità sovrannaturale, un artista della fedeltà.

Vendette la 124 a un conoscente.

Camminavamo, mio padre e io, mano nella mano, a passeggio per Barbastro, e a volte s’imbatteva nella sua vecchia 124 parcheggiata in qualche via. La riconosceva subito dalla targa. Indagava per vedere se il nuovo proprietario la trattava bene. Guardava se era pulita, se c’era polvere sui vetri, se avevano introdotto qualche miglioria, il consumo degli pneumatici. Una volta vide che il nuovo proprietario l’aveva lasciata in pieno sole, e soffrì e s’indignò e disse con tristezza e impotenza: «L’ho venduta a un imbecille».

Io imparai la targa della Seat 124, che era HU-35322. E ogni volta che la vedevo per strada avevo un tuffo al cuore, e se era al sole soffrivo e se era all’ombra mi rasserenavo.

Avevo fatto mia la desolazione di mio padre per le cose apparentemente meno importanti della vita, lo feci per amore, e oggi, quasi cinquant’anni dopo, non posso vedervi che una manifestazione della bellezza, della bellezza che sapemmo creare mio padre e io, il nostro profondo affratellamento, e la nostra profonda solitudine, e la nostra stranezza, perché mio padre era proprio strano e lo sono anch’io.

Padre e figlio impietositi per un’automobile a cui la nostra vanità aveva fatto del male, che le nostre ansie di qualcosa di migliore avevano umiliato.

Mio padre e io finimmo per pensare che fosse stata una crudeltà esserci liberati di quella Seat 124. Cominciammo a prendercene cura con l’immaginazione. Pensammo che non fosse colpevole per il fatto di avere soltanto due fari e non quattro, di non avere un orologio sul cruscotto, di non disporre di un contagiri e di ruote più larghe o di una vernice metallizzata.

La vernice metallizzata della quattordici trenta venne alla mia famiglia come porpora celestiale, come se l’intera famiglia fosse stata unta dalla modernità e dal potere delle cose nuove. Perché la vernice metallizzata fu un mito degli anni Settanta. Ava fece sì che la vernice metallizzata della quattordici trenta si trasformasse in una rivelazione, in annuncio di un cammino verso un benessere luminoso che non arrivò mai.

Perché ciò che arrivò furono la morte, l’abbandono e il silenzio.

Forse è questo che vide mio padre nell’addio a quell’auto che stette con noi soltanto due anni.

Camminavamo mano nella mano, Cary e io, cercando ciò che sarebbe potuto essere, come se quell’auto contenesse in sé un’ipotesi alternativa sul nostro futuro famigliare che era svanito quando l’avevamo venduta. Nel frattempo, mia madre consolidò il cambio di nome dell’auto nuova, come aveva sempre fatto, perché cambiò sempre nome alle cose, e benedisse quella macchina come la nuova nave ammiraglia di noi quattro.

Credo che in fondo mio padre fosse vittima della stessa cosa che succede a me oggi, della sensazione di non meritare nulla, perché non abbiamo vanità.

Tutto quanto ci è successo in questa vita è stato straordinario e leggendario, e l’abbiamo vissuto senza conoscere la sua vera natura, che mi viene rivelata solo adesso, tanti anni dopo. Ho avuto la famiglia più bella che si possa sognare, ed è obbligo degli esseri umani lanciare con furia la nostra famiglia contro la bellezza dell’universo, lanciarla perché combatta e vinca, perché la nostra famiglia sia più bella di tutto ciò che esiste.

E la quattordici trenta fu l’auto che rimase quindici anni con noi. Perché a partire dal 1975 a mio padre le cose non andarono più tanto bene. Dovettero chiedere un prestito per cambiarla con la Seat Malaga. Però Ava (ignoro come fece) trovò una parola per spiegare la situazione. Io mi stupii per la scoperta di quella parola, mi parve incredibile che mia madre avesse trovato quell’espressione.

E alla gente disse «l’abbiamo finanziata».

Questo diceva Ava Gardner alla gente, soprattutto ai famigliari, perché allora di gente accanto a lei non ce n’era molta. Però utilizzava quell’espressione, perché avevano dovuto chiedere dei soldi in banca; doveva averla sentita in televisione, dev’essere andata così.