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Il giorno dopo, mentre percorrevamo il corridoio con le valigie, abbiamo incontrato un giovane addetto alla reception. Non so perché, mi è venuto l’impulso di parlargli, in uno di quei gesti euforici in cui alita Nosferatu, perché Nosferatu è anche euforia e delirio.

Ho detto al ragazzo che ricordavo che a metà degli anni Novanta Michael Jackson aveva alloggiato al Boston. L’addetto alla reception si è trasformato in un angelo, mi ha sorriso. Voglio dire che mi ha guardato come un angelo, e sapeva di cosa stessi parlando. Non perché fosse un fan di Michael Jackson, ma perché era ossessionato dalle stesse cose che ossessionano me: i resti degli esseri viventi sparsi nello spazio, nelle case, nell’aria, nelle strade, nel vento.

E ci ha proposto di mostrarci la suite in cui aveva alloggiato Michael Jackson. È andato a prendere la chiave. L’abbiamo aspettato per circa cinque minuti. La suite era al sesto piano. Ha aperto un’enorme porta di legno pregiato, e di fronte a noi è apparso il lusso imbalsamato degli anni Novanta.

Così erano le piramidi, forse in quell’istante ho capito la filosofia dei grandi monumenti funerari egizi: luoghi fermi nel tempo, avidità di permanenza, tutto così com’era, che non si sposti neanche la cornice di un quadro, che il tappeto resti identico, che resti tutto identico, che tutto sia indissolubile.

È un sogno che mi ha portato all’appartamento di Barbastro, perché quell’appartamento era per me una piramide egizia.

Ho ripensato ancora ai miei genitori, a quanto li avrebbe divertiti quella storia della suite di Michael Jackson. Perché quella suite concordava con la loro idea di lusso, perché io avevo conosciuto quell’idea. Il lusso degli anni Novanta era ancora in sintonia con il lusso degli anni Settanta.

C’erano un salone enorme, una sala da pranzo anch’essa grande, una sala per la televisione, una cucina invecchiata, e tappeti e mobili antichi e quadri con cervi e alberi e una nave di legno in una vetrina e una maschera e un’imitazione di zanna d’elefante. Tutte quelle cose non erano più di nessuno.

Hepburn e io eravamo stupefatti. L’addetto alla reception ha detto «non avete visto il meglio». E ci ha portato nella camera da letto principale.

«Qui ha dormito Michael Jackson» ha detto.

E si è steso sul letto.

«Posso?» ho chiesto.

E lui ha detto: «Prego».

E mi sono steso accanto a lui, e Hepburn, pudica, è rimasta a guardarci. Non si è azzardata a stendersi. Io ho insistito, ma le è sembrata una cosa inopportuna. Le è sembrato che non fossimo autorizzati, come se qualcuno avesse l’autorità per concedere quel genere di autorizzazioni.

Così, eccoci là, l’addetto alla reception e io, stesi, a guardare il soffitto. Poi abbiamo lisciato con grande cura il copriletto, in modo che non rimanesse neanche una grinza né fosse violata la piramide spagnola di Michael Jackson.

E ho provato tristezza. La notte in cui aveva dormito in quel letto era ancora un uomo fortunato, un uomo con un futuro. Ho cercato di comunicare con lui. Sì, per un motivo, perché sono riuscito a fare in modo che non mi parlino soltanto mio padre e mia madre. Sono riuscito a fare in modo che mi parlino altri morti.

Anche questo è un regalo di Nosferatu.

Perché la chiave per entrare nel regno dei morti si chiama amore, o compassione.

Non è vero. Non si chiama così.

Si chiama misericordia.

La misericordia è superiore all’amore e alla compassione. La misericordia è un regalo, non tutti gli esseri umani possono provare la misericordia. E poi, la misericordia conduce alla follia.

Il padrone della misericordia è Nosferatu.

E loro, i morti, vedendoti immerso nella misericordia, ti lasciano venire. Perché porti loro dignità, porti loro un abbraccio innamorato, un po’ di rispetto, un po’ di luce, mostri loro il tuo dolore, che è uguale al loro.

E ho parlato con Michael Jackson.

Gli ho detto che andava tutto bene, che tutto era in pace, che aveva lasciato amore nel mondo attraverso le sue canzoni, e che era tutto perdonato, e che poteva dormire tranquillo.

Questo gli ho detto.

Poi siamo andati a pranzo. Era il pranzo di Capodanno. Abbiamo celebrato il pranzo di Capodanno in un ristorante italiano del centro storico di Saragozza. È venuto mio figlio maggiore, il mio Marlon Brando.

Ed eccoci là tutti e quattro: Hepburn, Monty, Brando e io, che non ho nome, come se stessimo girando un grande film hollywoodiano degli anni Cinquanta, una grande produzione, con un cast memorabile.

Molte volte ho pensato a questa assenza del mio nome, all’impossibilità di trovare un nome. Chi narra questa storia è un essere senza nome. Perché tutte le mie persone amate hanno un nome e io no? Perché è molto difficile che un essere umano riesca a essere qualcosa in sé, al di là di come lo vedono gli altri.

Sono gli altri che dovrebbero battezzarmi.

Non avere nome, essere soltanto misericordia.