Prendere il caffè all’Alvino faceva sentire Vincenzo, Stefano e Fabio più simili agli altri. Così, quando decidevano di uscire in centro -rare volte come appunto quella sera-, solevano passare da questo bar di lusso dove le vetrine straripano di dolci meticolosamente decorati, e dove i tavolini fuori sono pieni di giovani ben vestiti e sorridenti impegnati a parlare, ridere e scherzare. Tra i vari tavoli, le varie comitive di ragazzi consumano aperitivi gustosi a tal punto da far venire l’acquolina in bocca a coloro che si trovano di passaggio tra l’Anfiteatro romano dell’età Augustea e la schiera di attività che circondano piazza Sant’Oronzo nell’atmosfera del Barocco Leccese, dove la statua posta a ventinove metri di altezza, dedicata al Santo patrono che aveva bloccato la peste quattrocento anni prima, domina la scena.
Per due disoccupati e un cameriere occasionale, prendere un aperitivo sarebbe stato un sacrificio non alla portata delle proprie tasche, per questo, Vincenzo Mello e i suoi amici, si accontentavano di tre caffè da pagare separatamente, giusto per avere il tempo necessario per farsi notare tra le sfavillanti luci del bar mentre indossavano i loro abiti migliori: dei pantaloni fuori moda a tratti scialbi e delle magliette a manica lunga con marche impronunciabili che a Vincenzo e Stefano arrivavano all’altezza delle spine iliache lasciando in esposizione la cinta, e che a Fabio arrivava a qualche centimetro più in basso dei glutei. Eppure si erano guardati allo specchio prima di uscire, si erano apprezzati, e Vincenzo aveva addirittura mandato una sua foto in posa su WhatsApp a Fabio vantandosi del suo ottimo abbinamento. Ma quando ognuno di loro guardava il suo compagno, si rendeva conto di quanto fosse vestito male e lo disprezzava, credendo che per colpa sua sarebbe passato per ridicolo anche lui, che invece si era vestito abbastanza bene.
Dopo aver centellinato il caffè nel modo più lento possibile, i ragazzi uscirono dal bar e si incanalarono verso piazzetta Santa Chiara, a meno di cinquanta metri da piazza Sant’Oronzo.
Vincenzo Mello si guardò intorno alla ricerca di belle ragazze. Lecce è sempre piena di ragazzine ben truccate e ben vestite con capelli piastrati e aria vogliosa di nuove amicizie, ma nessuna di esse rivolgeva lo sguardo ai tre sfigati che passeggiavano lungo il tratto che costeggia le vetrate dei vari locali. Ma a Vincenzo bastava uno sguardo della durata maggiore di mezzo secondo per sentirsi invadere da testosterone e immaginarsi una scena di sesso con la ragazza che si era trovata casualmente il suo viso non curato nel campo visivo. Se solo una di esse lo avesse guardato, lui sarebbe stato capace di pedinarla tutta la sera a venti metri di distanza per capire e assicurarsi che quell’occhiata non fosse stata soltanto una coincidenza. Fabio e Stefano lo avrebbero seguito senza obiettare, d’altronde nessuno di loro tre era stato mai capace di reagire a qualcosa di scomodo per i propri interessi. E poi Vincenzo era così, viveva di emozioni effimere delle quali restava dipendente per qualche ora o al massimo qualche giorno, fino a che un’altra di esse non si sarebbe presentata per sostituire la precedente. Stefano e Fabio lo sapevano e dunque lo accontentavano, ma sapevano anche che Vincenzo non avrebbe mai avuto il coraggio di presentarsi a una ragazza, nemmeno se lei lo avesse guardato per mezz’ora. Eppure, in mezzo a loro tre, Vincenzo era il più “carino”: era alto poco più di un metro e settanta ed era snello, molto snello. Era di carnagione scura e aveva i capelli neri, corti e spettinati, occhi neri e qualche brufolo di troppo sulla fronte, sulla zona mandibolare e sul mento. Il suo peggior difetto non era sicuramente l’aspetto fisico, che con qualche euro in più da spendere sul vestiario e su un abbonamento in palestra sarebbe potuto anche passare. Il suo vero problema era il carattere: era un ragazzo introverso, insicuro, sfiducioso. Ciò derivava sia da fattori genetici, sia dal fatto che aveva perso il padre, aveva un rapporto pessimo con la madre e non aveva mai avuto un amico decente capace di farlo svegliare un po’.
Sin dalle scuole elementari si era sempre isolato e i compagni non avevano fatto altro che prenderlo in giro, intitolandolo lo “scemo della classe”. Vincenzo era cresciuto coltivando un senso di odio e di timore verso i suoi coetanei, nei quali ogni giorno notava sempre di più la cattiveria ed il disprezzo che provavano nei suoi confronti. Così aveva deciso -non che fosse proprio una sua decisione- di passarsi infanzia e adolescenza da solo, perdendo le speranze e la voglia di provare a stringere rapporti con qualcuno. L’unico ragazzo che aveva deciso di concedergli qualche minuto per le varie confidenze era il suo vicino di casa Christian, che di tanto in tanto si dedicava per un breve tratto di orologio al povero Vincenzo, ascoltando le sue afflizioni e cercando di dargli qualche motivo per continuare a crederci. In effetti, per Vincenzo, Christian era diventato davvero una persona importante e a momenti indispensabile. Sapeva che Christian non sarebbe mai uscito con lui sin dall’infanzia, ma quella sua disponibilità nell’ascolto gli bastava eccome.
Per il resto, Vincenzo non aveva capito perché tutti lo disprezzassero, ma lui pensava fosse una specie di sfortuna. Secondo lui, nessuno di quei ragazzi aveva avuto l’occasione di conoscerlo a fondo per capire che in effetti anche lui era come tutti gli altri. Perché in fondo, lui si vedeva proprio come loro. Anzi, si vedeva anche migliore di loro.
Non potendo passare le giornate a giocare a campana, a calcio e a nascondino con i propri coetanei, era stato costretto a costruirsi dei personaggi immaginari e soprattutto a immaginare se stesso come se fosse un’altra persona. Una persona rispettata e voluta da tutti. Aveva sempre giocato ad essere qualcun altro: Vincenzo Mello, il grande attaccante della Juventus, passava le giornate di fronte casa fantasticando di essere su un prato verde circondato da cinquantamila persone. Era sempre lui a risolvere le partite della sua squadra, con la quale aveva vinto scudetti e Champions League, alzando infine l’agognato pallone d’oro. Si era costruito delle porte fatte con dei paletti di legno, e ogni volta che ficcava la palla di carta e nastro adesivo nella rete immaginaria correva ed esultava. A fine partita si fermava anche ad autografare qualche maglietta ai suoi tifosi e poi rientrava nella sua dimora e dava appuntamento al campo di calcio e ai compagni di squadra per l’indomani.
L’altro personaggio era sempre Vincenzo Mello, ma era un campione di arti marziali. Passava le giornate facendo a lotta con le piante che crescevano più alte vicino casa. Lui era il più forte lottatore della sua epoca e portava il record di oltre cento vittorie senza mai essere stato sconfitto. Nonostante fosse campione del mondo per chissà quante volte -inizialmente se le era segnate ma poi aveva perso il conto-, in certe occasioni aveva trovato avversari forti quasi quanto lui, tipo nelle semifinali o nelle finali. Quegli incontri duravano più degli altri e Vincenzo cadeva spesso per terra durante il combattimento, ma poi si rialzava subito e di quella pianta -o di quell’uomo- non ne rimaneva nemmeno la radice. Le donne impazzivano per il grande Vincenzo Mello.
Anche quando andava a scuola fantasticava in questo modo. Si sedeva da solo all’ultimo banco e se nessuno si metteva a fianco a lui era perché era troppo famoso. Questo lo sapevano tutti. Erano tutti orgogliosi di andare in classe con il grande attaccante della Juventus o con il più forte lottatore di tutti i tempi, ma lui era troppo celebre e andava a scuola giusto per arrivare al diploma, non poteva stringere amicizia con gli altri, era troppo diverso e impegnato per loro. Pazienza se ogni tanto al suono della campanella qualcuno picchiava il grande lottatore Vincenzo Mello. Pazienza se lo aspettavano all’uscita e mentre lui cercava di svignarsela gli arrivavano calci sullo zaino e bottigliette d’acqua sulla schiena. Pazienza se ogni tanto si ritrovava lo zaino che puzzava di piscio, la colla sulla propria sedia, le matite e le penne spezzate in due, o la testa ficcata nel water dei bagni della scuola… tanto quelle cose non le avrebbe sapute mai nessuno dei suoi tifosi o dei suoi compagni di squadra, e nemmeno dei suoi prossimi avversari nei tornei di arti marziali. Erano storie che nascevano e finivano, e dopodiché, sparivano per sempre. Ormai era diventato semplice sopportarle.
Poi erano arrivati Stefano e Fabio, due tipi molto simili a lui. Come se qualcuno avesse preso questi tre ragazzi solitari e introversi e li avesse messi insieme di forza. Perché in effetti non si erano scelti, si erano trovati e si erano dovuti accettare. L’altra scelta sarebbe stata restare soli a vita. Vincenzo, Stefano e Fabio erano rimasti comunque dei tipi solitari, ma almeno così si trovavano per andare a Lecce o al cinema una volta a settimana. Giusto per sentirsi più simili agli altri.
Fabio era disoccupato come Vincenzo, mentre Stefano faceva il cameriere occasionalmente. Il proprietario del ristorante lo chiamava solo nei momenti di difficoltà massima, quando gliene serviva uno giusto per numero. Anche se era buono soltanto per sparecchiare e nemmeno. Stefano, al contrario di Fabio e Vincenzo, non sembrava potesse avere dei fattori genetici generanti quell’insicurezza e quell’asocialità. I suoi genitori erano dei tipi abbastanza normali. Quando essi si accorsero dei suoi problemi decisero di mandarlo da una psicologa, ma dopo tre sedute dovettero annullare il percorso perché la dottoressa si era resa conto che Stefano si stava innamorando di lei. Un “Transfert” lo aveva chiamato, una specie di trasferimento di sentimenti ed emozioni represse sul proprio terapeuta.
«Buooooonasera amigooo», disse una voce alle spalle di Vincenzo. «Come va compà?» proseguì quella voce, e quando i ragazzi si girarono si accorsero che si trattava di un uomo di colore con degli accendini e dei portachiavi disposti in una scatola di cartone sulla mano sinistra.
Vincenzo sorrise pensando già ad una scusa per non acquistare nulla, dato che era rimasto con un euro e trenta nella tasca destra. Stefano e Fabio si sentirono sollevati dal fatto che il nero avesse puntato Vincenzo e cercarono di guardare altrove ignorando la scena.
«Allora amigos? Dare qualcosa a me per mangiare panino più tardi?» disse il nero sollevando il braccio sinistro e avvicinando a Vincenzo la scatola con gli accendini e i portachiavi.
«Ma ho solo trenta centesimi», mentì Vincenzo sperando che il nero la finisse.
Ma lui continuò: «Va bene, dare trenta centesimi per prendere acqua», proseguì.
Vincenzo, che non se la sentiva nemmeno di perdere quei trenta centesimi decise di passare la palla ai suoi amici: «Ragazzi, avete qualche centesimo?» chiese loro, ma Stefano continuò a ignorarlo fingendosi distratto a guardare le vetrate dei locali a qualche metro di distanza.
Fabio si trovò ad incrociare lo sguardo del suo amico in difficoltà e provò ad improvvisare: «Io non ho niente Vin. Ho speso tutto al bar». Ovviamente non era vero e Vincenzo lo sapeva bene.
«Dai amigo, dare trenta centesimi tuoi e andare bene» disse il nero, e Vincenzo a quel punto si ritrovò spiazzato. Un altro ragazzo avrebbe scartato l’uomo di colore con due parole ma a lui sembrava talmente arduo. Mise la mano in tasca e cercò le monetine stando attento a estrarre soltanto le due più piccole, evitando così di mettere in vista la moneta da un euro. Prese le due monetine da venti e da dieci centesimi e le porse al nero.
«Grazie amigo, Dio ti benedica», disse lui facendo un saluto in stile militare e avvicinandosi verso un'altra comitiva di ragazzi disposta vicino al muretto dell’anfiteatro.
Vincenzo si complimentò con se stesso. Dentro sentiva un leggero fastidio, ma cercò di convincersi che aveva compiuto un gesto da ammirare e imitare. Soprattutto per i suoi due stupidi amici che avevano fatto finta di ignorarlo.
Un passo dopo l’altro i ragazzi giunsero in piazzetta Santa Chiara. Trovandosi di fronte all’Urban cafè, Stefano, che camminava qualche passo più avanti, si fermò e si girò verso gli altri. «Dove andiamo?» chiese. Fabio e Vincenzo si guardarono intorno. La stradina sulla sinistra li avrebbe portati verso il Nenè, dove una schiera di ragazzi con birre e cocktail in mano incuteva aria di minaccia. La stradina sulla destra costeggiava la piazzetta ed era piena più che altro di giovani che passeggiavano attraversando il mattonato bianco che circonda il verde della piccola e particolare piazzetta, portando poi verso la bellissima Chiesa Santa Chiara, una struttura risalente al millequattrocento decorata con motivi vegetali, colonne e angeli sorridenti.
«Ci sediamo un po’ alla statua?» chiese Stefano dopo aver atteso qualche secondo senza ricevere risposte alla sua prima domanda. Gli altri due annuirono e presero la stradina sulla destra, poi tagliarono puntando verso il centro della piazzetta, dove vi è una statua con dei gradini sui quali sedersi circondata da verde e da faretti bianchi che illuminano gli altissimi alberi, alcuni dei quali raggiungono o addirittura superano i dieci metri.
«Aspettate!» disse Vincenzo bloccandosi all’improvviso e mettendo una mano sul petto di Fabio nel tentativo di fermarlo. «Io direi di cambiare strada», proseguì con lo sguardo puntato verso la statua. Quando Fabio e Stefano guardarono bene, capirono il perché della proposta di Vincenzo. Ai piedi della statua, tra l’enorme nuvola di fumo e tra le bottiglie di birra sparse sui gradini, sedeva la comitiva tanto temuta da Vincenzo, la “comitiva dei bulli”. Federico Manzoni, Vanessa De Maio, Marco Rini, Gabriele De Santis e Virginia Rea ridevano e scherzavano passandosi qualche spinello da una mano all’altra. Stefano e Fabio non avevano avuto molto a che fare con loro in passato. Al massimo avevano ricevuto qualche insulto di troppo sui loro vestiti o sul loro presunto orientamento sessuale. Ma bastava ignorarli e non risponderli e li avrebbero lasciati in pace dopo qualche battuta. Per Stefano e Fabio era sempre bastato abbassare la testa e proseguire diritti per la loro strada fingendosi distratti, ma a Vincenzo no… a lui questo non era stato sufficiente. Vincenzo Mello aveva frequentato la stessa scuola media di Vanessa e Federico -il ragazzo più temuto da Vincenzo durante la sua adolescenza- capitando anche nella loro stessa classe. Durante quei tre anni Vincenzo aveva ricevuto una marea di scherzi di cattivo gusto e una gran quantità di schiaffi e pugni. Vanessa si era occupata più che altro di sostenere Federico durante gli scherzi e di inventare qualche tormentone, facendo nascere delle vere e proprie mode. Tipo quell’anno in cui tutti i muri e i banchi della scuola erano imbrattati di scritte con pennarello nero indelebile: “Vincenzo Mello ha un piccolo pisello”. Quella era stata una vera umiliazione per il povero Vin. Tutta la scuola non faceva altro che ridergli alle spalle mentre passeggiava nei corridoi e quasi era arrivato al punto di voler lasciare gli studi per quello. Ma come avrebbe fatto a convincere sua madre? Cosa le avrebbe detto? Che tutti i compagni sostenevano che lui avesse un pisello piccolo e lo scrivevano in giro per la scuola? Sua madre non avrebbe avuto tempo da dedicare al suo cambio di istituto. Anche perché in quegli anni era stata diagnosticata a suo padre la sclerosi laterale amiotrofica e quindi Ornella aveva completamente smesso di occuparsi di Vincenzo.
Riguardo a quella frase, tutto era cominciato quando Vincenzo aveva deciso di partecipare ai giochi studenteschi iscrivendosi al gruppo di pallavolo pomeridiano della scuola. E chi poteva essere il capitano di quella squadra se non Federico Manzoni? Vincenzo lo sapeva ma aveva deciso di provarci lo stesso. La vedeva come un’opportunità per farsi qualche amico e per sentirsi più accettato dai compagni. Sperava che un giorno sarebbe diventato un pezzo inamovibile della propria squadra e allora tutti lo avrebbero venerato. Persino Federico. Ma le sue fallaci speranze si erano spente già al secondo giorno di allenamento, quando era entrato negli spogliatoi per farsi una doccia e si era ritrovato una scritta sul muro dei bagni fatta con una bomboletta rossa: “Vincenzo Mello ha un piccolo pisello”. Gli altri ragazzi avevano continuato a farsi la doccia indifferenti e ogni tanto era scappata una risata a qualcuno. Vincenzo si era coperto bene con l’accappatoio ed era ritornato sulla panca nello spogliatoio. Poi si era scoperto leggermente e aveva dato un’occhiata al suo pene. Aveva alzato lo sguardo verso le docce e aveva cercato di confrontarlo con quello degli altri compagni. Non gli era sembrato più piccolo, effettivamente. Il problema era che dopo l’allenamento il suo pene se ne rientrava e diventava un po’ più ristretto del normale. Ma solo dopo l’allenamento. Altrimenti sarebbe stato della stessa grandezza di quello dei suoi amici. Ma quelle convinzioni non gli erano bastate. Dopo quel giorno, Vincenzo non aveva messo più piede né in palestra né, soprattutto, in quegli spogliatoi. Ma comunque sia, i mesi successivi erano stati una vera e propria umiliazione. Il suo banco era strapieno di quelle frasi e anche i muri dei corridoi, della classe, e qualcuno si era preso persino la briga di scriverlo sui muri del Centro di Lecce. Una volta, Vincenzo era entrato in classe e Vanessa gli era andata vicino e gli aveva detto: «Ma è vero che hai un pisello piccolo? Me lo fai vedere?» Vincenzo l’aveva guardata per un attimo e poi aveva porto lo sguardo altrove. Gli altri ragazzi avevano già cominciato a ridere.
«È vero o no che hai un pisello piccolino? Dai, voglio saperlo», aveva proseguito Vanessa imperterrita. Vincenzo aveva continuato ad ignorarla e aveva preso posto al suo solito banco.
Federico Manzoni si era alzato ed era andato verso Vincenzo con aria minacciosa. «È vero che hai il pisello piccolo o no, testa di cazzo? Rispondi alla domanda della ragazza.»
Federico aveva preso Vincenzo per la maglietta e lo aveva strattonato obbligandolo ad alzarsi. Poi lo aveva trascinato verso la cattedra e lo aveva posizionato di fronte a tutta la classe. Vincenzo era rimasto paralizzato per la paura. Federico lo aveva fronteggiato e gli aveva parlato a pochi centimetri e Vincenzo era riuscito persino a sentire l’odore di Vivident blu mescolato con l’odoraccio di fumo proveniente dal suo alito.
«Ora devi dire a tutta la classe che hai il pisello piccolo. Forza scemo, dillo», gli aveva intimato poi Federico.
Vincenzo non aveva risposto ed era rimasto impietrito guardando le facce divertite dei suoi compagni.
Federico aveva fatto partire la sua mano destra colpendo la guancia sinistra di Vincenzo con violenza. «Devi dire a tutta la classe che hai il pisello piccolo. Lo capisci o no, brutto verme?»
Vincenzo aveva rimesso la testa in posizione diritta dopo lo spostamento causato dallo schiaffo ricevuto e aveva avvertito le lacrime che avevano cominciato ad inumidirgli la sclera degli occhi. Aveva girato lo sguardo tra i vari volti dei suoi compagni implorando aiuto con l’espressione, ma gli erano sembrati tutti divertiti. Nessuno stava provando compassione o dispiacere. Stavano tutti ridendo in attesa che Vincenzo avesse risposto a quella domanda.
Un altro schiaffo aveva colpito la guancia sinistra di Vincenzo. Questa volta più forte. Le lacrime si erano irrobustite e si erano formati i primi goccioloni pronti a scalargli gli zigomi.
«Oh!» aveva detto Federico. «Lo stupido e insignificante Vincenzo Mello ha un piccolo pisello e piange come un pivello.»
La classe era esplosa nell’ilarità totale e Vanessa si era avvicinata di più alla scena.
«Chiediglielo ora, magari ti risponde», aveva proposto Federico a Vanessa.
«Allora», aveva cominciato Vanessa divertita. «Prima che ti arrivi un altro ceffone dal mio amico, vuoi dirmi se è vero che hai il pisellino piccolino?» Federico nel frattempo aveva portato il braccio all’indietro nel tentativo di caricare. Stavolta più forte.
«Sì, è vero» aveva ammesso Vincenzo con le parole che si spezzavano nel pianto.
L’ilarità nella stanza era cresciuta ancora di più.
«Devi pronunciare quella frase, caro stronzetto. Devi dire: “Vincenzo Mello ha un piccolo pisello”» gli aveva detto Federico. «Altrimenti ti smonto la mandibola.»
Vincenzo aveva abbassato lo sguardo e si era abbandonato in un pianto consistente. Possibile che siete tutti così crudeli? Aveva pensato. Allora Federico aveva allungato la mano e aveva preso Vincenzo per capelli. Lo aveva tirato prima indietro e poi in avanti e successivamente lo aveva spinto con tutte e due la braccia sulla cattedra. «Piangi come un bambino. Sei ridicolo» gli aveva detto Federico voltandogli poi le spalle e ritornando verso il suo posto.
«Sei solo un finocchio», aveva aggiunto Vanessa mettendosi sui passi di Federico.
La classe aveva continuato a ridere e a tenere lo sguardo puntato su Vincenzo intento a rialzarsi con il volto inondato dalle lacrime.
Vincenzo non scordò mai quel giorno.
«Ops», disse Fabio. «Direi che sarebbe un’ottima idea cambiare strada. Prima che ci vedano.»
Vincenzo, Fabio e Stefano svoltarono di nuovo verso sinistra e si rimisero sulla stradina che affianca la piazzetta.
«Andiamo verso il duomo» propose Vincenzo. Ma quando si rigirò verso la comitiva dei bulli notò che lo stavano guardando e che Vanessa stava camminando verso di loro.
Vincenzo sentì l’ansia nello stomaco e cominciò ad immaginarsi il peggio. Girò lo sguardo in avanti e senza dire nulla ai suoi amici prese a camminare più veloce sperando di allontanarsi quel tanto che sarebbe servito per far cambiare idea a Vanessa e per convincerla a tornare indietro. Perché in fondo, sapeva già che le sue non erano semplici paranoie. Vanessa De Maio stava andando da loro tre, Vincenzo lo sapeva bene.
«Perché corri?» chiese Stefano notando il passo svelto di Vincenzo. Lui si girò a guardarlo.
«Vincenzo!» una voce femminile richiamò l’attenzione dei ragazzi che intimoriti proseguirono alzando il passo.
Vincenzo cominciò a comprendere che Vanessa non avrebbe cambiato idea. Non sarebbe più tornata indietro.
«Ehi, Mello. Fermati», disse Vanessa. E Vincenzo sentì una mano sulla spalla destra. Si girò e la guardò. Stefano e Fabio fecero qualche altro passo e si fermarono più avanti.
«Non ti mangio mica» disse Vanessa sorridendo. Vincenzo si perse nel suo sorriso. Notò che era diventata davvero una ragazza stupenda. Un viso liscio e delicato e degli occhi immensi.
«Ciao. Dimmi», le disse con un misto di timore e imbarazzo.
«Come va? Tutto bene? Non ci si vede da tanto» disse lei. Vincenzo rimase sorpreso e comprese che quelle parole erano le ultime che si sarebbe aspettate da una come lei. In effetti era passato tanto tempo dall’ultima volta che lo avevano insultato. Forse quasi un anno. Poteva darsi che nel frattempo era cresciuta e aveva lasciato da parte il passato.
«Va tutto bene. Tu?» disse cercando di nascondere l’imbarazzo. Non si era mai trovato a parlare in quel modo con una ragazza e tutto ciò lo metteva a disagio.
«Anche a me va tutto bene» rispose Vanessa con un altro sorriso. Vincenzo notò ancora una volta la sua irresistibile bellezza e con la coda dell’occhio intravide una scollatura che metteva in risalto un seno quasi esplosivo. Se non fosse che Vanessa era una bulla come i ragazzi della sua comitiva, Vincenzo se ne sarebbe innamorato sicuramente negli anni delle scuole medie.
«Vorrei chiederti una cosa anche se mi imbarazza» riprese Vanessa. Vincenzo cominciò a pensare a qualcosa di negativo e gli venne in mente qualche scena degli anni peggiori.
«Dimmi» disse deglutendo nel tentativo di scogliere un nodo che gli si era formato in gola.
«Lo so che può sembrarti strano», continuò lei, «ma volevo dirti che sei cambiato molto. Mi sembri più maturo… non lo so. Più uomo.»
Mello abbassò lo sguardo e sentì il sangue che gli irrorava le guance rendendole vermiglie. Si guardò prima i piedi e poi girò lo sguardo verso i suoi amici come se volesse dire loro qualcosa. Ma non sapeva esattamente cosa.
«Chi l’avrebbe mai detto, vero?» disse Vanessa accennando una risata. «Dopo tutto questo tempo caratterizzato da una sorta di inimicizia poi» concluse facendo una smorfia di dispiacere.
«N… n… non ti preoccupare. C… ci… ci m… mancherebbe» rispose Vincenzo avvertendo un leggero tremolio invadergli il corpo. Strinse i pugni e notò che le mani avevano cominciato a sudare. Sperò che Vanessa la finisse presto, anche se era rimasto molto contento e sollevato dal fatto che non era andata da lui per chiedergli se avesse il pisello piccolo o per sapere se fosse gay.
«Va bene, capisco che è una situazione un po’ imbarazzante e non pretendo che ora prendiamo a farci un bel discorso. Ma se magari ci scambiassimo il numero potremmo risentirci nei prossimi giorni. A meno che non sei impegnato con un’altra ragazza.»
Vincenzo non credette alle sue orecchie e quasi gli venne voglia di darsi un pizzicotto. Guardò la comitiva dei bulli e notò che qualcuno di loro stava guardando la scena da lontano, ma senza ridere. Pensò che forse in quegli anni erano cresciuti ed era cresciuto anche lui. Forse sembrava appunto, più uomo! Era questa l’impressione che dava ormai alle persone. Si sentì persuadere da un’emozione mai avvertita prima. Era come se la società lo stesse accettando. Vincenzo Mello in quel momento era un ragazzo come tutti gli altri. Forse per il suo cambio di look, per il suo corpo sviluppato, o per il suo modo di vestirsi, che secondo lui era decisamente migliore di quello degli anni precedenti. Ma nonostante la gioia infinita continuava a provare un imbarazzo dissestante. Era come se il suo viso prendesse fuoco e non sapeva più come posizionare le gambe e le braccia per apparire normale e rilassato. Era come se qualsiasi postura da lui assunta sarebbe sembrata inadatta. Ma Vanessa gli aveva offerto la possibilità di tagliare corto e lui doveva approfittarne. Perché per messaggi sarebbe stato tutto molto più facile. L’unica cosa che voleva in quel momento era andarsene dai suoi amici e raccontare loro cosa gli aveva detto Vanessa. Far capire loro che quel suo abbinamento perfetto e il look adottato quel giovedì sera avevano fatto colpo su una ragazza bellissima come Vanessa De Maio e su chissà quante altre.
«N… no… non sono impegnato. Ti posso dare il mio numero» disse infilando la mano tremolante in tasca per prendere il cellulare. Ma perché sto prendendo il cellulare? Il mio numero lo so a memoria. A cosa mi serve il cellulare? Pensò, ma continuò l’azione che aveva cominciato ed estrasse dalla tasca il telefono. Lo sbloccò ed aprì la rubrica. Fece finta di scorrere tra i vari contatti e poi si fermò su quello di Stefano. Pronunciò il suo numero a memoria senza dar conto ai numeri che comparivano sullo schermo, dato che non appartenevano nemmeno al suo numero di cellulare, ma Vanessa rimase immobile.
«Un attimo che me lo segno» disse lei aprendo la tastiera digitale del suo.
«S… sì scusa, te lo ripeto» riprese Vincenzo accorgendosi di aver fatto l’ennesima figuraccia dettando il suo numero quando Vanessa non aveva ancora il telefono tra le mani.
Dopo aver digitato e memorizzato il numero con il nome “Vincenzo M”, Vanessa lo ringraziò e gli disse che gli avrebbe mandato un messaggio più tardi in modo da fargli memorizzare il suo.
«Sì, sì. P… perfetto» rispose Vincenzo rimettendo il cellulare nella tasca e volgendo lo sguardo verso i suoi amici che sembrarono incuriositi dalla scena.
«Va bene, ti lascio in pace allora» aggiunse Vanessa. «Ci sentiamo.»
Vincenzo fece uno strano cenno col capo, come una specie di gesto di conferma. «Ciao Vanessa» concluse. Lei si girò e si incamminò verso i suoi amici e Vincenzo le guardò il fondo schiena sentendo qualche ormone di troppo circolargli nelle vene. Vanessa sarebbe stata sicuramente il centro dei suoi pensieri sessuali una volta tornato a casa quella sera. Si girò e raggiunse i suoi compagni, che sembravano aver intuito che tra i due ci fosse stato uno scambio di numeri di cellulare.
Vincenzo si sentì sollevato dal fatto che la discussione tra lui e Vanessa era terminata, ma si sentiva anche estremamente eccitato. Non ci stava più nella pelle.
«Ma cos’è successo?» gli chiese Stefano perplesso e incuriosito. Vincenzo raccontò loro tutto assaporando già la sensazione di sentirsi super invidiato dai suoi amici ma la risposta dei due lo deluse.
«Ma che cavolo fai?» gli chiese Fabio.
«Ma lo sai che potrebbero torturarti per telefono ora che lei ha il tuo numero?» aggiunse Stefano. «Secondo te una ragazza che ha passato la sua adolescenza a prenderti in giro adesso si sarebbe inspiegabilmente innamorata di te?»
I tre ragazzi ripresero a camminare in direzione del duomo e Vincenzo si rigirò verso la comitiva dei bulli per esaminarla un’ultima volta prima di imboccare le stradine del centro storico di Lecce che gli avrebbero tolto dalla visuale la piazzetta: nessuno di loro aveva il cellulare in mano e sembrava che avessero vertito i loro discorsi in chissà quale altro argomento. Per un momento ebbe paura che le supposizioni dei suoi amici fossero veritiere e avvertì un senso di fallimento e delusione, ma poi pensò al sorriso di Vanessa e al suo modo di pronunciare quelle frasi.
Sono cresciuti tutti e sono cresciuto anch’io. E loro lo sanno, pensò Vincenzo.
«No ragazzi, le cose sono cambiate. Le cose cambiano», disse ai suoi amici con aria convinta.
«Vin, ma hai idea della persona con la quale hai avuto a che fare?» riprese Stefano.
«Ma che ne sai tu? Nemmeno la conosci» gli rispose.
Tra i tre ci fu silenzio. Percorsero le stradine per qualche minuto e Vincenzo si abbandonò nei pensieri di quella scena. Era come se in un istante fosse tutto cambiato. Si osservò intorno e notò che gli altri lo guardavano con aria diversa. Si sentì come se in lui fosse mutato qualcosa da tempo ma che non se ne fosse mai reso conto. O meglio, fino a quel momento non aveva avuto l’occasione di accorgersi che Vincenzo Mello era diventato un ragazzo come tutti gli altri. Era cresciuto, e qualsiasi ragazza avrebbe potuto provare qualcosa per lui. Quella sera era capitato a Vanessa, una ragazza un po’ strana, questo sì, ma pur sempre bellissima! Vanessa era una delle ragazze più belle che Vincenzo avesse mai visto ma quella loro “inimicizia” -come l’aveva definita lei- non gli aveva mai permesso di notarlo. Ma le cose erano cambiate, Vincenzo ora era un uomo e il passato andava messo da parte. Pensò che da quel momento in poi, la sua verginità si trovava a rischio di sparire una volta per tutte. Lo doveva accettare! Anche se avvertiva un po’ di ansia e si sentiva inadatto… doveva accettarlo! Era cresciuto e doveva abituarsi a nuove situazioni e a nuove avventure. Ai suoi amici non era ancora capitata una cosa simile. Loro sembravano ancora dei bambocci destinati a rimanere vergini. Ma lui no. Lui era cambiato.
«Vin, secondo me hai sbagliato», disse Fabio interrompendogli quel momento di gradevoli riflessioni.
«A fare cosa?» chiese Vincenzo.
«A darle il tuo numero.»
«Sì. Hai decisamente sbagliato», aggiunse Stefano. «Ti stai facendo prendere dalla situazione, come al solito. Ci sono tante ragazze più brave e sincere di lei. Lasciala perdere.»
Vincenzo pensò per un attimo alla Vanessa che aveva conosciuto fino a pochi minuti prima. Quella Vanessa bulla e irrispettosa. Quella che avrebbe picchiato tutte le ragazze ma anche qualche ragazzo. Poi sentì il suo telefono vibrare e lo prese per scorgere la notifica. Era un messaggio su WhatsApp:
“Ciao Vincenzo. Sono Vanessa. Questo è il mio numero. A presto”
Vincenzo aprì la foto profilo di quel numero e notò che vi era Vanessa al mare con la sua amica Virginia. Aveva degli occhi azzurri dello stesso colore del cielo e dei bikini gialli che facevano intravedere i capezzoli irrigiditi. Sulla parte di seno scoperta vi era qualche goccia d’acqua e qualche granello di sabbia, e le labbra carnose facevano intravedere il bianco e lucido smalto dei suoi denti.
Mi frequenterò con questa ragazza, pensò. Ho l’opportunità di uscire con questa splendida bionda, di baciare le sue labbra, di toccare il suo seno. Poi alzò lo sguardo verso i suoi amici. «Ma che ne sapete voi? So io cosa fare», rispose loro con una leggera arroganza e ritornò con i pensieri a Vanessa De Maio, la bionda dal seno esplosivo che gli aveva chiesto il numero qualche minuto prima, squilibrando completamente l’immagine che aveva di sé.
Piazza Duomo è uno dei posti più incantevoli di Lecce. Si tratta di un’ampia distesa di mattonato circondata da edifici del classico stile Barocco. La Cattedrale fronteggia l’ingresso della piazza, ed è costituita dalle solite decorazioni che si possono vedere in giro per le chiese di Lecce e da statue raffiguranti i Santi Pietro e Paolo, San Gennaro, San Ludovico, San Giusto, San Fortunato e poi, in alto al centro, la statua di Sant’Oronzo. A sinistra della Cattedrale vi è il Campanile del Duomo risalente al milleseicento che raggiunge i settantadue metri d’altezza. Esso è costituito da cinque piani, l’ultimo dei quali è sormontato da una cupola a base ottagonale dalla quale è possibile osservare addirittura il mare Adriatico e le montagne dell’Albania. Il tutto è illuminato da una trentina di faretti che da terra indirizzano in modo perpendicolare al suolo dei fasci di luce che accarezzano le pareti degli edifici creando un gioco di luci e ombre che ti terrebbe attaccato ad osservare il tutto per più di mezz’ora.
Stefano, Fabio e Vincenzo restarono per dieci minuti a guardarsi intorno, nonostante piazza Duomo fosse una tappa fissa per le loro uscite serali in centro, quell’atmosfera li teneva impietriti e imbambolati ogni santa volta. Dopo aver scattato anche qualche foto si orientarono verso i gradini della Cattedrale per far riposare un po’ le gambe.
«Ciao carissimi», disse un ragazzo di passaggio alla loro destra.
«Ciao Carmine», rispose Vincenzo dopo aver capito chi fosse, e gli altri due fecero eco al saluto. Dopo essersi incrociati, il ragazzo continuò a tenere la testa dritta lasciandoseli alle spalle e Vincenzo si girò indietro per osservarlo. Era Carmine Serti, un ventitreenne che conosceva per via dei posti in comune che frequentavano. Era figlio di un proprietario di parecchi ristoranti leccesi ed era un ragazzo molto serio e educato, lavorava con i genitori quasi tutte le sere. Era alto uno e sessantacinque ed era leggermente robusto, capelli castano chiaro e occhi verdi. Vincenzo lo aveva sempre stimato. Lo conosceva poco ma si era fatto un’immagine alquanto positiva di lui. Lo avrebbe sempre voluto come amico e alcune sere, in passato, aveva cercato anche di avvicinarsi a lui ma con scarsi risultati. Carmine non aveva tantissimi amici ma era capace di uscire con chiunque. Vincenzo lo aveva visto diverse volte con tante comitive differenti. Anche con la comitiva dei bulli un paio di volte. Loro lo rispettavano come d’altronde tutte le altre comitive. E anche lui aveva rispetto per tutti, perfino per i tre sfigati che aveva appena incrociato. Era uno di quei ragazzi che si guadagnano il rispetto rispettando, e Vincenzo lo stimava per questo. Di solito era sempre impegnato a lavorare ma quella sera a quanto pare era libero. Vincenzo, vedendolo solo, pensò di tornare indietro e di mettersi sui suoi passi. Magari si sarebbero scambiati la parola e sarebbe nata un’amicizia. Con Carmine sarebbe stato tutto diverso. Sarebbe stato più facile, secondo Vincenzo. Altro che con quei due amici sfigati al fianco dei quali si potevano rimediare solo insulti e occhiatacce. Con Carmine, Vincenzo avrebbe acquistato quel rispetto che gli serviva. Carmine gli avrebbe dato i consigli giusti su come comportarsi con Vanessa, su come reagire, su cosa dirle, su come fare per conquistarla e per non deluderla, facendole capire che lui era la persona che lei adesso pensava. Per non rovinarle quell’immagine che si era fatta del nuovo Vincenzo Mello.
«Torniamo indietro dai» propose Vincenzo ai suoi amici. «Non mi va di stare seduto.»
«Ma sediamoci un po’. Cosa speri? Di ritrovare Vanessa e di stare con quei delinquenti? Scordatelo», gli rispose Stefano sorridendo.
«Ma no» disse Vincenzo. «Nemmeno ci stavo pensando più a quel fatto. È solo che non mi va di stare seduto» concluse.
Stefano e Fabio lo guardarono e eseguirono un segno di resa. Così, i tre fecero dietrofront e Vincenzo allungò il passo per dettare la direzione, seguendo la scia di Carmine Serti.