Vincenzo sorseggiava una Coca Cola seduto sulla sedia del soggiorno. Indossava sempre il solito pantalone beige e una maglietta bianca con delle piccole macchioline che sembravano schizzi di vomito. Non faceva una doccia e non cambiava la biancheria intima da giorni ma non ci faceva caso. La cura personale era uscita dai suoi impegni quotidiani. Era seduto in una posizione scomoda, il sedere era scivolato in avanti sul bordo della sedia, le ginocchia erano vicine e i piedi lontani tra loro. Lo sguardo era fisso sul televisore a 21 pollici posato sul mobile, un tizio parlava di calcio e descriveva le future mosse di mercato delle grandi squadre di serie A, ma in Vincenzo quelle parole non penetravano nemmeno. Era come se ci fosse un velo sulle sue orecchie, le onde sonore gli passavano a fianco senza disturbarlo. La sua espressione era vuota, le occhiaie estese fino agli zigomi e gli occhi gonfi e arrossati. Si guardò intorno e notò che vicino alle scale vi era ancora un vaso rotto, una scopa era posata per terra vicino al mobile, la Coca Cola vuota di un paio di giorni prima era ancora sul tavolo. Contemplò la stanza e si convinse che sarebbe rimasta così, non gli andava di far nulla, si sentiva spento e scarico e un lieve mal di testa minacciava continuamente nuovi attacchi violenti. Prese il telecomando e spense la TV. Si alzò e gettò la lattina di Coca nell’immondizia. Poi sentì un rumore venire da fuori.
Si voltò e andò verso la finestra. La nebbia era calata ma era meno intensa dei giorni precedenti, riusciva quasi a distinguere l’arredamento della casa a fianco dalle finestre, anche se risultava tutto un po’ sfocato. La luce del soggiorno dei vicini era accesa ma non si vedeva nessuno. Prese il cellulare dalla tasca per vedere se vi fossero chiamate o messaggi da Carmine o da sua madre. Niente di niente.
Qualcuno urlò. Vincenzo trasalì e avvertì una botta di adrenalina che lo fece risvegliare.
Di nuovo un altro schiamazzo, questa volta più prolungato, sembrava provenire da fuori.
Vincenzo restò immobile e osservò ciò che riusciva a vedere del prato, poi andò verso la porta e la aprì, uscì sotto il porticato e si guardò intorno. Vuoto totale. L’oscurità in sinergia con il banco di nebbia nascondevano il prato e il silenzio totale era disturbato solo dal regolare e tollerabile frinire dei grilli. Girò lo sguardo verso la casa e notò desolazione. Qualche luce era accesa ma all’interno non si muoveva anima viva. Poi qualcosa lo attirò nel banco di nebbia intenso che si era formato di fronte casa. Era come se la maggior parte della nebbia, quella sera, aveva deciso di lasciare in pace le due abitazioni e si fosse messa lì di fronte, pronta però ad aggredirle.
Sentì un rumore sibilante, c’era qualcosa o qualcuno nel prato. Si fece avanti e scese i gradini di casa. Si fermò ed ascoltò ancora: era un rumore strano, qualcosa che camminava o strisciava. Riprese a camminare e fece altri venti passi. La fitta nebbia lo avvolse come una madre che accoglie tra le braccia il proprio figlio.
Mentre abbandonava le case e si inoltrava nella bianca oscurità perdeva sicurezza e cognizione. Il rumore si fece più vicino, era qualcosa che si muoveva a velocità modesta calpestando il manto di erbetta umida, qualcosa che restava sempre a contatto col suolo ma nonostante ciò riusciva lo stesso a muoversi, senza il bisogno di alternare dei passi. Era qualcosa come… delle ruote.
La sedia a rotelle.
Un brivido percorse la spina dorsale di Vincenzo. Fu preso da un forte tremito. La sedia non si era distrutta nella caduta dalle scale? E quella era l’ora e la condizione di fare una passeggiata ad un bambino disabile nel prato?
Il rumore sembrò rinvigorirsi ed espandersi nell’ambiente circostante, come se venisse da più parti. Veniva prima da destra e poi da sinistra, prima davanti e poi da dietro. Vincenzo si voltò di scatto in tutte le direzioni ma vide soltanto nebbia, solo delle microscopiche goccioline sospese in aria e messe in evidenza dalla fievole luce della luna.
La sedia a rotelle si muoveva ancora, era come se gli stesse girando intorno.
Non è possibile! Si disse.
Si agitò, il respiro prese ad essere più corto e il battito cardiaco più accelerato. Porse le mani in avanti per evitare che quel qualcosa che si muoveva gli arrivasse addosso. Il rumore si fece più vicino, troppo vicino per essere ancora invisibile la sagoma del bambino o quella dell’uomo, troppo vicino per non farlo sentire in pericolo. Il volto di Vincenzo era immobile, gli occhi spalancati si muovevano velocemente da un punto all’altro. Le capacità del suo udito si intensificarono, gli sembrava di riuscire a sentire di tutto: dall’oggetto che strisciava al frinire dei grilli, dalle chiome degli alberi che si muovevano fino al rombo dei motori che attraversavano la SP241 a qualche metro di distanza. Ogni rumore gli esacerbava il mal di testa e gli rinvigoriva l’ansia.
Qualcuno gli urlò davanti agli occhi, vide la sagoma di un volto scuro e quasi demoniaco che sparì dopo un istante.
Si incamminò verso casa a passo svelto, voltandosi di tanto in tanto indietro nel tentativo -ma con la paura- di scorgere qualcuno. Un metro dopo l’altro il rumore alle sue spalle si attenuò fino a divenire di nuovo un semplice frinire dei grilli. Respirò a fondo più volte e si convinse che era stato solo un giochetto della sua immaginazione.
Guardò la casa dei vicini e scorse un’immagine che lo fece balzare ancora: il bambino con la sedia a rotelle era fermo vicino le scale d’ingresso. Inizialmente vide solo la sua sagoma, ma mentre si avvicinava la figura diventava più nitida.
Fece qualche altro passo, gli ultimi furono di una lentezza estrema. Il bambino era seduto immobile con il tronco e la testa che si inclinavano verso un lato. Il suo sguardo era rivolto verso Vincenzo ma faceva trasparire il vuoto interno.
Vincenzo si chinò in avanti col busto e strinse gli occhi, corrugò le sopracciglia e si avvicinò ancora.
Scrutò meticolosamente prima la sedia a rotelle e poi il bambino: nessun guasto, nessun graffio. Si chiese se il giorno prima non avesse sognato o se quello che stava vivendo ora fosse solo un sogno. Era tutto una gran confusione, ma era quasi sicuro del fatto che fosse tutto reale.
«Ciao ragazzino» disse con un filo di voce. «Tutto bene?»
Come poteva aspettarsi il bambino non rispose, ma continuò a guardarlo fisso negli occhi.
Si. Mi sta vedendo. Mi sta fissando negli occhi.
Gli sguardi restarono incrociati e questo provocò qualche brivido in Vincenzo, poi il bambino mosse gli occhi alla sinistra di Vincenzo, come per guardare qualcosa alle sue spalle. Vincenzo sussultò e si girò di scatto: nebbia e oscurità, solo e soltanto nebbia e oscurità.
Ci fu un rumore, una porta sbatté. Vincenzo guardò verso la casa alle spalle del bambino e il terrore lo smembrò: il padre, con uno sguardo serio e concentrato, era sulla soglia di casa. Fermo e impassibile. Vincenzo restò immobile. Era una trappola?
Avere entrambe le presenze di fronte a fissarlo lo fece sentir debole, troppo debole. Era come se non mangiasse da una settimana, il mal di testa aumentò e la paura altrettanto.
Indietreggiò di qualche passo in preda ad un tremito sproporzionato. Chi siete? Cosa mi avete fatto?
I due erano sempre immobili. Guardavano Vincenzo negli occhi e sembravano entrambi troppo seri, il padre quasi arrabbiato.
«Mi scusi» disse Vincenzo in un sibilo. «Torno a casa, mi perdoni» soggiunse.
Non riusciva a reagire, per quanto si sforzasse non riusciva a non avere paura di quelle presenze. Poteva solo scusarsi e scappare a casa per poi non ritornare più in quell’abitazione.
«Non è stata colpa mia» gridò l’uomo col baffo brizzolato volgendo di scatto lo sguardo verso il bambino con la sedia a rotelle. Vincenzo si fermò e spalancò gli occhi.
«Non è stata colpa mia» gridò ancora l’uomo in preda alla disperazione. «Non è stata colpa mia», sempre più forte. La sua voce penetrò nelle orecchie di Vincenzo e riecheggiò nel suo cervello, era troppo forte e fastidiosa, come lo stridore del treno sulle rotaie.
Si mise le mani sulle orecchie e indietreggiò ancora. L’uomo continuò a urlare. Vincenzo si voltò e scappò verso casa.
Durante la corsa, quelli che sembravano litri di lacrime preparati da una settimana, gli inondarono il viso. Si chiuse la porta alle spalle e salì in cameretta chiudendosi a chiave. Si gettò sul letto e pianse, il suo corpo tremava e il mal di testa era ai limiti del sopportabile. Si strinse le tempie tra i palmi delle mani e gridò. Aiutatemi vi prego. Pensò riferendosi a nessuno. Perché nessuno lo poteva aiutare, lui era solo. Lo era sempre stato e sarebbe restato tale per sempre.
In quegli attimi desiderò solo di dormire. Doveva dormire per non pensare a nulla, era l’unica cura, non ve ne erano altre. Non voleva nemmeno più sapere la verità, gli interessava solo evadere, dimenticare tutto.
Il tremito svanì lentamente e si portò via anche la cefalea. Vincenzo si ritrovò assorto a guardare il soffitto. Quasi non ricordava cosa fosse successo negli ultimi minuti. Aveva dormito? Non se ne era reso conto. Si alzò dal letto e guardò la finestra. Qualche minuto prima stava per promettersi che non avrebbe più messo naso negli affari della casa a fianco, ma sapeva benissimo che questo non sarebbe mai successo. Non finché la verità non sarebbe balenata.
Andò verso la finestra a passo lento e l’ansia gli pervase lo stomaco, sapeva che avrebbe visto qualcosa che non gli sarebbe piaciuto, era un presentimento e i suoi sospetti sino ad ora non avevano mai sbagliato. Si affacciò e guardò prima il prato, lo scrutò attentamente, ma l’uomo e il bambino non si trovavano più dove li aveva lasciati. Girò lo sguardo verso la finestra del soggiorno e avvertì l’impulso del vomito: nonostante il lieve filo di nebbia, riuscì benissimo a capire che quell’uomo era lì, dietro la finestra, con lo sguardo rivolto in su, precisamente negli occhi di Vincenzo. Era come se lo avesse aspettato lì, come se sapesse che prima o poi Vincenzo si sarebbe affacciato dalla finestra della propria camera. Restò impalato e tremolante. Non poteva fare più nulla, lo aveva scoperto, lo aveva beccato due volte nella stessa sera.
Cosa farò adesso?
L’uomo mosse il braccio e prese qualcosa dalla tasca.
Era qualcosa che si illuminava… un cellulare.
Abbassò lo sguardo su di esso e digitò per qualche secondo, poi se lo posizionò all’orecchio.
Sta chiamando la polizia, si disse Vincenzo.
Ma per sua sorpresa venne spiazzato. Qualcosa gli vibrò in tasca.
Non è possibile!
Il suo cellulare cominciò a squillare.
Non poteva essere quell’uomo, non poteva avere il suo numero. Doveva essere sua madre o Carmine. Si trattava per forza di una stramaledettissima coincidenza. Prese il telefono e se lo mise all’orecchio mantenendo lo sguardo saldo sulla finestra della casa di fronte. Aveva gli occhi completamente fuori dalle orbite e il cuore sembrava tirasse dei calci sulle sue costole.
«Pronto» disse.
«Devo confessarti una cosa» rispose una voce vecchia e soffocata in sintonia con i movimenti del labiale dell’uomo di fronte casa.
«Oh mio Dio», esclamò Vincenzo percependo tutti i peli del suo corpo raddrizzarsi. Era proprio lui. Aveva il suo numero.
«Sono stati loro, lo capisci?» continuò la voce soffocata mostrando un pizzico di nervoso. «Sono stati loro sul ponte. Sono stati loro il giorno dell’incidente!»
Vincenzo si passò una mano tra i capelli. «Chi? Loro chi?»
«Sono stati loro, Vanessa e Federico. Lo capisci o no? Il tuo amico lo sa bene» disse facendo seguire un sogghigno. «Il tuo caro amico Carmine lo sa bene!» aggiunse con aria di sarcasmo. «Lasciaci in pace, capito?»
Un bip segnò il termine della chiamata. L’uomo gli voltò le spalle e fece sparire la sua sagoma dalla vista di Vincenzo. Le luci della casa di fronte si spensero tutte simultaneamente.
Vincenzo restò immobile sull’orlo di uno svenimento. Centinaia di domande gli sfasciarono la mente logorandola. Aveva il suo numero? Sapeva dell’incidente? Conosceva Vanessa e Federico? Sapeva qualcosa su Carmine? Carmine sapeva dell’incidente? Di chi si poteva fidare? Di chi si può fidare una persona che non può nemmeno contare su se stessa?
Lui ha il mio numero. Ma io ce l’ho il suo? Si chiese rendendosi conto di non aver guardato il nome che era comparso sullo schermo. Si concentrò sul cellulare e andò all’ultima chiamata ricevuta.
La goccia che fece traboccare il vaso fu quella. Il suo sangue sembrò rallentare, il sudore gli sgorgò da ogni parte del corpo. Faceva caldo. Come in una sauna. La mente lo stava abbandonando, le arterie sembravano essersi impietrite. Vincenzo si inginocchiò e poi cadde in avanti. Il cellulare scappò dalla presa astenica della sua mano e si posizionò accanto al suo viso con lo schermo ancora illuminato. Si sforzò per dare un’ultima occhiata nonostante tutto sembrasse offuscato, come se la nebbia avesse invaso anche la sua mente e la sua vista.
Ultima chiamata ricevuta:
ore 23:17
“Papà”.