Vincenzo si risvegliò dopo qualche minuto o forse un’ora. Aprì gli occhi e si issò. Era sul pavimento della sua cameretta e gli sembrava di aver dormito per decenni. Appena ricordò quanto accaduto poco prima si alzò di scatto da terra e guardò dalla finestra.
“Sono stati loro, Vanessa e Federico. Sono stati loro sul ponte. Carmine lo sa!” gli aveva detto quell’uomo. La nebbia era più fitta e le luci della casa attigua erano tutte spente. Prese il cellulare e andò all’ultima chiamata, la guardò e rimase sbalordito:
Ultima chiamata ricevuta:
ore 23:17:
“Numero sconosciuto”.
«Impossibile» sibilò. «Eppure mi era sembrato di aver letto…» scosse la testa e increspò il viso. «Sto impazzendo!» si disse sforzandosi come se dovesse piangere, ma nessuna lacrima evase dai suoi occhi. Forse era stata la stanchezza e l’impatto dell’episodio avvenuto. Forse quando stava per perdere coscienza, la ragione lo aveva accompagnato meno e dunque aveva avuto quell’allucinazione. Anche perché suo padre era morto da tanti anni e inoltre non aveva mai avuto un cellulare, per quanto ne potesse sapere.
“Sono stati loro, Carmine lo sa!”
Quanto c’era di vero in quella frase? Vincenzo sentiva una voglia impellente di far balenare queste piccole verità. Solo così avrebbe potuto capire.
Prese il cellulare e chiamò Carmine. Nel frattempo, prese a camminare ossessivamente avanti e indietro nella sua stanza. Quella storia stava raggiungendo davvero il limite. Gli serviva chiarezza!
«Pronto?» rispose Carmine.
«Ehi. Sono io.»
«Ciao Vincenzo. Come stai?»
«Sono stati loro?» chiese ignorando la domanda di Carmine.
«A cosa ti riferisci? E a chi?»
«Lo sai benissimo, cazzo!» urlò con la mano tremolante tra i capelli. Il suo viso era aggrottato come quando si è vittima di un dolore insopportabile.
«Calmati, Vincenzo. Sono al lavoro e non vorrei che i miei mi sentissero urlare al telefono con qualcuno.»
«Non me ne frega un cazzo. Dimmelo: sono stati loro?»
«Intendi Vanessa De Maio e Federico Manzoni?»
«Sì. Sì. Sì. Sì. Rispondimi», disse aumentando il tono della voce dopo ogni parola.
Carmine fece una pausa. Rimase in silenzio e sospirò. «Ho fatto molte ricerche in questi giorni. Ho chiesto un po’ in giro» sospirò ancora. “Sì, Vanessa e Federico c’entrano qualcosa con il tuo incidente. Ne ho avuto la certezza.»
Ecco la prima verità, ecco la prima certezza. Finalmente era arrivata. Finalmente uno dei suoi sospetti si era solidificato e aveva preso forma. Fu talmente preso da quella notizia che non si mise a chiedere nemmeno come mai quell’uomo sapesse già delle scoperte di Carmine.
I suoi zigomi si inondarono di lacrime e smise di tremare. La mano che aveva tra i capelli si rilasciò insieme al braccio e gli scivolarono sul fianco. «Ma… led… detti» biascicò avvertendo un peso nella testa che sembrava essere fatto solo di rabbia.
«Ehi, ascolta… calmati» provò a tranquillizzarlo Carmine.
Il pianto passò a una fase più intensa. Le lacrime arrivarono alle commessure labiali e poi al mento. Il muco gli imperlò lo spazio tra naso e labbra. «Bas… bastardi.»
«La pagheranno. Te lo prometto» gli disse Carmine.
Vincenzo strinse il pugno della mano libera. Qualche muscolo del tronco e del braccio si contrasse quasi spontaneamente.
«Io…» disse con un’espressione feroce. «Io li prenderò. Tutti e due» soggiunse parlando a denti stretti, e mentre lo fece, qualche goccia che sembrava un mix di saliva e muco gli schizzò dalle labbra.
«Cosa vuoi dire?» chiese Carmine sorpreso.
«Li prenderò» ripeté Vincenzo. «Domani. Con o senza il tuo aiuto.»
«Vincenzo. Ti ho detto di calmarti.»
Lui scosse la testa e non rispose. Portò in su la mano libera e si tirò dei tenui pugni sulla testa. Le lacrime continuarono a sgorgargli senza sosta.
«Li prenderò.» Chiuse la chiamata e gettò il cellulare sul letto. Si affacciò dalla finestra e contemplò la nebbia con uno sguardo che sarebbe stato perfetto per un antagonista delle storie della Walt Disney.
«Vi prenderò, brutti bastardi» mormorò tra sé e sé. «Soffrirete molto.» Si girò e andò verso il letto. Era ora di riposare. L’indomani mattina avrebbe avuto molto da fare e gli sarebbe servita freschezza. Il momento della vendetta stava arrivando. Quei due animali l’avrebbero pagata per tutto, per tutti gli anni passati a torturarlo, per essersi presi gioco di lui, e infine, ma non da ultimo, per l’incidente. Era il momento di fare giustizia. Sentiva come se il suo cervello avesse perso qualche rotella, ma gli andava bene. Gli serviva quel carattere. Perché ora era davvero troppo. Il limite era stato raggiunto.
Spense le luci, si distese tra le lenzuola senza togliere i vestiti e socchiuse gli occhi.
Un rumore lo destò all'istante. Spalancò gli occhi. Guardò il soffitto della sua cameretta e riuscì a vederlo grazie alla luce della luna che filtrava dalla finestra.
Si guardò intorno. Tutto fin troppo buio ma visibile.
Non c’era nessuno.
Aveva sentito quel rumore a pochi centimetri da lui.
Era venuto da fuori o era stato un sogno? Rimase immobile e tremolante e il suo senso dell’udito sembrò intensificarsi. Qualcosa… si muoveva.
Si girò verso la porta della cameretta. Era chiusa. Si mise seduto sul bordo del letto e guardò verso di essa. Drizzò le orecchie e si concentrò.
Si… c’era qualcosa nel corridoio.
Ingoiò un cumulo di saliva che gli sembrò della stessa consistenza del fango. Si mise in piedi e andò verso la porta. Dopo ogni passo il suo cuore batteva più forte.
In corridoio c’era qualcosa che camminava strisciando avanti e indietro. Era come se quel qualcosa partisse da un angolo del corridoio e lo attraversasse tutto per poi ritornare indietro. Il rumore si faceva più forte quando sembrava passare davanti alla porta e poi si affievoliva e dava l’impressione di allontanarsi. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
La sedia a rotelle.
No… non era possibile.
Non poteva essere vero.
Era un’altra allucinazione uditiva, ne era sicuro. Erano i residui del trauma cranico.
Camminò ancora e si approssimò sulla soglia.
Mise la mano sulla maniglia che gli sembrò gelida come non mai. La abbassò lentamente e poi aprì la porta di scatto come per anticipare qualcuno che si trovasse dall’altra parte.
Buio totale.
Nessun rumore. Come se fosse cessato di colpo.
Fece due passi avanti e si inoltrò nel corridoio. Poi si fermò. Attese permettendo alla sua vista di abituarsi al buio pesto. Guardò verso sinistra ma non riuscì a distinguere nulla, era impossibile percepire anche la porta della camera di sua madre o del bagno.
Guardò verso destra. Qualche fascio tenue di luce filtrava dalle scale lasciando intravedere l’inizio del corridoio.
Si sentì raggelare e spalancò gli occhi. C’era qualcosa, fermo davanti alle scale.
Una sagoma.
Era un uomo o forse un bambino. Seduto su di una sedia.
Una sedia a rotelle.
Sentì come se l’interno del suo organismo stesse per sciogliersi.
«No» disse terrorizzato. «Non puoi essere tu».
La sagoma era immobile e nonostante Vincenzo non riuscisse a vedere il viso del bambino fu sicuro di una cosa: entrambi si stavano guardando negli occhi.
Vincenzo cominciò a tremare come un cellulare che vibra.
La sagoma si mosse leggermente. Fu un movimento quasi impercettibile della testa, ma Vincenzo riuscì a notarlo.
Poi il bambino urlò.
Fu un urlo forte. Troppo forte da poter sopportare. Si espanse tra le mura della casa e rese tutto più cupo e triste. Tutto terribilmente malinconico.
Vincenzo si mise le mani sulle orecchie e se le strinse fino a farsi male. «Cosa vuoi?» gridò.
Lo stridore della voce del bambino durò circa cinque secondi. Dopodiché tornò in silenzio e immobile. Vincenzo lo guardò ansimando.
Poi successe ciò che temeva… ciò che si sarebbe aspettato. Vincenzo sapeva che sarebbe andata a finire così, ma non gli andava di rivivere quella scena.
La sedia a rotelle cominciò a muoversi in avanti, verso le scale. Non c’era nessuno a spingerla ma si muoveva lo stesso, a rilento.
«No, ti prego» lo implorò Vincenzo sentendosi paralizzato. Non riusciva a muovere un solo muscolo. «Ti prego!» ripeté. Il pensiero di rivivere quella scena lo angosciava più di qualsiasi altra cosa.
La sedia proseguì nella stessa direzione. Le ruote anteriori arrivarono sul bordo del primo gradino. Poi la velocità aumentò e precipitò giù dalle scale. Proprio come l’ultima volta.
Un rumore sferragliante di tubi metallici che sbattono l’uno contro l’altro invase la casa e la scatola cranica di Vincenzo. In entrambe rimbombò energicamente.
Si mise a correre e andò verso le scale. Cercò sulla parete del corridoio l’interruttore della luce e premette due o tre pulsanti. Le onde luminose invasero ogni angolo del corridoio e delle scale. Vincenzo guardò giù.
Non c’era nessuno. Vuoto totale. Anche il rumore era ormai cessato.
Vi era solo un vaso rotto ai piedi del primo gradino più in basso.
Guardò sulle scale ed erano completamente vuote.
Sospirò e si mise le mani sulla faccia.
«Sto impazzendo» disse.
Rimase immobile con le mani sul viso cercando di rilassarsi con dei forti respiri.
Spense le luci e ritornò verso la sua cameretta.
Quando oltrepassò la soglia della porta e guardò in avanti, il cuore gli salì quasi in gola.
«Ma che cazzo…» sibilò mettendosi le mani in testa. Il suo viso ostentava stress, depressione e spavento.
Sul suo letto c’era qualcuno. Le lenzuola coprivano una sagoma stesa diritta in posizione supina. Sembrava il lettino di un obitorio.
Si avvicinò e, un passo dopo l’altro, avvertì l’ansia che gli annientava la lucidità. Mise le mani in avanti come fanno i bambini che giocano a mosca cieca e si rese conto di quanto gli stessero tremando.
La sagoma sotto le lenzuola era immobile. Sembrava senza vita.
Arrivò a due passi dal letto e si fermò. Disse qualcosa di incomprensibile a denti stretti. Allungò un braccio e lo portò verso la testa dell’uomo steso nel suo letto.
Sollevò il lenzuolo.
Un urlo invase la stanza, la casa, e poi l’intero vicinato. Veniva dalla bocca del bambino sulla sedia a rotelle che giaceva sul letto di Vincenzo con lo sguardo impassibile. Vincenzo si chiuse le orecchie e pianse. Indietreggiò di qualche passo. Le urla di quel bambino gli logorarono l’anima. Poi sentì un rumore alle sue spalle.
Si voltò.
Il bambino continuava ad urlare senza mai fermarsi a rifiatare.
Sulla porta della sua cameretta era apparso invece l’uomo col baffo. Era immobile e con lo sguardo preoccupato. Guardava suo figlio sul letto e sembrava ignorasse completamente la presenza di Vincenzo.
«Che cavolo volete da me?» urlò il proprietario di casa.
L’uomo si girò lentamente e lo guardò negli occhi.
«Devo confessarti una cosa» disse. E nonostante il bambino stesse ancora urlando, la voce dell’uomo era chiara e perfettamente comprensibile. «Riguarda l’incidente di Vincenzo Mello» continuò l’uomo guardando fisso Vincenzo. Lui rimase stupito e incredulo. L’urlo del bambino si intensificò ancora.
Vincenzo si svegliò di scatto e si guardò intorno. La stanza era completamente vuota e buia ma la luce della luna ne faceva trasparire i particolari.
Non c’era nessuno.
Restò per un minuto con gli occhi spalancati. Quando realizzò che si era trattato solo di un brutto sogno il suo cuore decelerò pian piano. Si passò una mano sulla fronte madida di sudore e poi si posò i palmi delle mani sulle guance come l’urlo di Munch. Nonostante fosse stato un sogno era sempre più convinto di una cosa: stava impazzendo!
Si alzò dal letto e andò ad accendere la luce della stanza. Non sarebbe più riuscito a restare al buio per quella notte. Né tanto meno a dormire.
Si rimise sul letto e prese il cellulare cercando conforto in qualcosa. Aveva voglia di chiamare qualcuno, aveva bisogno di aiuto. Andò sul contatto telefonico di Carmine ma poi scosse la testa. Non era la persona giusta in quel momento. Guardò l’orario: mezzanotte e quarantatre.
Sua madre doveva essere ancora sveglia se stava al lavoro. Sentì l’improrogabile bisogno di chiamarla e non ci pensò due volte. La linea risultò libera.
Dopo cinque o sei squilli sentì la voce di sua madre.
«Pronto?»
«Mamma» disse quasi piangendo. «Sono io.»
«Vincenzo sono al lavoro» rispose lei con aria seccata.
«Aspetta mamma, ti prego.»
«Non puoi richiamarmi d…»
«No, mamma. Per favore.»
Lei sbuffò. «Spero sia qualcosa di importante.»
Vincenzo si rese conto di non avere nulla da dire. In realtà l’aveva chiamata solo per ascoltare la voce di qualcuno. E nonostante sua madre fosse così infastidita a Vincenzo stava bene. Gli bastava solo parlare con qualcuno di qualsiasi cosa. Gli serviva una persona reale che lo trascinasse fuori dalla dimensione del sogno appena fatto.
«Allora?» chiese Ornella alzando il tono della voce.
«Mamma volevo chiederti» riprese lui. «Chi sono quelli della casa a fianco alla nostra?»
Fu l’unica domanda che gli venne in mente, ma non si pentì di averla fatta.
«Quale casa?» domandò lei sorpresa.
«Questa, mamma. La nostra casa di Lecce. Voglio sapere chi sono quell’uomo e quel bambino che abitano qui vicino. Si sono trasferiti qui prima del mio incidente. Li conosci?»
«Vincenzo, stai impazzendo?» chiese lei molto annoiata.
«Perché, mamma?»
Ci fu una pausa.
«Non abita nessuno in quella casa. È disabitata. Non si è trasferito nessuno né prima né dopo il tuo incidente.»