Stare dietro l’angolo e osservare i movimenti di qualcuno gli faceva sembrare di essere in un film d’azione. Vincenzo, a pochi metri da Federico Manzoni, si preparava a dare il via a quella che sarebbe stata la sua vendetta personale.
Paura poca. Tensione consistente ma tollerabile. In fondo, cosa aveva più da perdere?
Federico era impegnato ad aspirare gli interni della sua macchina. Abitava nei pressi nell’Istituto Tecnico Industriale e il via vai di gente era la cosa che più preoccupava Vincenzo.
Per fortuna Federico dimorava in un appartamento e aveva deciso di lavare la sua macchina nel garage comune. Vincenzo si trovava sulla strada principale e, stando ben acquattato dietro l’angolo, studiava le sue mosse.
A separarli c’erano circa venti metri. Il cancello era aperto, una grande discesa di dieci metri portava giù nel garage comune, dopo altrettanti metri c’era Federico chinato all’interno della sua auto con l’aspiratrice accesa. La macchina di Vincenzo si trovava a due passi da lui e all’interno vi erano un coltello da cucina, quattro corde, tre bende nere, e un nastro adesivo nero spesso. In mano aveva una mazza da baseball. Il piano era stato programmato.
Federico si alzò improvvisamente e Vincenzo sussultò.
«Ciao» disse Federico, e a fianco gli passò un uomo sulla quarantina con un completo beige e camicia bianca, i capelli erano neri e stirati indietro con gel. Sembrava un uomo d’affari.
Vincenzo si ritirò di scatto. Ritornò verso la sua auto e mise la mazza da baseball sotto la scocca. Si posizionò a braccia conserte e si mostrò indifferente.
L’uomo uscì dal cancello e girò verso sinistra senza guardare Vincenzo. Proseguì dritto per trenta metri e poi svoltò di nuovo l’angolo, dissipandosi dalla visuale. Vincenzo prese la mazza e ritornò alla postazione. Federico era di nuovo chinato in macchina ma era passato ai sedili posteriori.
«Ora o mai più» si disse Mello.
Si guardò l’ultima volta intorno e partì a passo spedito. Gli sembrava che il rumore dei suoi passi fosse più forte di quello dell’aspiratrice e sperò che Federico non si girasse a guardare negli istanti che sarebbero venuti. Un metro dopo l’altro, la tensione si fece meno sopportabile.
Quando arrivò al termine della discesa ebbe la vista completa del garage. Era lungo almeno cinquanta metri ma era completamente deserto. Vi erano solo una decina di macchine.
Alzò il passo ulteriormente a si approssimò alla Fiat Stilo di Manzoni.
Ei fu. Pensò Vincenzo a tre passi da Fede.
Siccome immobile, -due passi-.
Dato il mortal sospiro, -un passo-.
I termini “mortal sospiro” varcarono la soglia del pensiero e divennero parole pronunciate con tono crescente e con rabbia.
Federico fece solo in tempo a notare un’ombra alle sue spalle. Provò a tirarsi indietro di scatto ma non riuscì nemmeno a mettersi in stazione eretta. Gli sembrò che un palo della luce gli fosse caduto sulla parte posteriore del cranio.
Poi solo buio.
Valentina aveva otto anni, e quando non andava a scuola passava tutto il tempo a giocare in quelli che lei definiva “gli scantinati della morte”.
Si chiamavano così perché tutti i mostri dei film che guardava prima di andare a dormire abitavano lì.
Sua mamma le diceva che doveva smettere di guardare quella robaccia, ma lei non poteva: doveva capire bene le caratteristiche di ognuno dei mostri che abitavano nel suo scantinato. Altrimenti non avrebbe mai potuto sconfiggerli.
Suo papà lo sapeva bene. Non ne avevano mai parlato, ma lei aveva capito che lui lo sapeva eccome! Questo perché tutti gli abitanti del condominio parcheggiavano la macchina lì ma suo papà no. Perché? Provate a indovinare? Chiaro, no? Suo papà sapeva che era pericoloso. Perché c’erano i mostri.
Quella mattina stava spiando un uomo che lottava contro qualcuno nella propria auto. Sicuramente era sceso per prendere la sua macchina e aveva trovato un fantasma nell’abitacolo. Così aveva preso l’aspiratrice per risucchiarlo dentro e imprigionarlo per sempre. Lei era rimasta dietro una macchina rossa a spiare. Se per caso quell’uomo avesse avuto bisogno di aiuto sarebbe intervenuta.
Si era distratta un attimo ma poi aveva sentito un rumore. Appena si era rigirata aveva visto un uomo scappare verso il cancello, ma l’altro uomo era ancora piegato e l’aspiratrice era ancora accesa. Solo che ora era immobile.
Una macchina di colore scuro entrò nello scantinato della morte a velocità elevata. Un uomo scese con una corda e prese quella persona che un attimo prima stava lottando contro il fantasma. La legò per bene, le mise una benda nera in bocca e poi ci passò sopra con del nastro adesivo spesso.
Valentina sentì il suo cuoricino batterle molto forte. L’uomo nero trascinò l’altro nella sua auto scura e si mise di nuovo al volante. Poi sfrecciò e si allontanò dagli scantinati.
Valentina scoppiò in lacrime e si mise a correre. Doveva andare a rinchiudersi nella sua cameretta altrimenti l’uomo nero avrebbe preso anche lei. Non poteva dire niente a mamma, altrimenti le avrebbe detto che era tutta colpa della robaccia che guarda prima di andare a dormire.
Ora aveva la certezza che in quegli scantinati abitavano davvero i mostri. Non li aveva mai visti prima, ma quella mattina le era bastata eccome. Non avrebbe più guardato i film dei mostri. Mai più!
Vincenzo portò Federico in una masseria abbandonata a pochi chilometri da Lecce. Si poteva accedere ad essa tramite una stradina non asfaltata molto stretta circondata da muri di pietra oltre i quali giacevano degli alberi di oliva ordinati a distanza regolare tra loro. Dopo un centinaio di metri la stradina si apriva a un grande prato per metà arato e per metà abbandonato alla spontanea crescita di erbacce di vario tipo. Una dimora antica e semidistrutta era al centro della scena. Vincenzo prese il cellulare di Manzoni e controllò le chat con Vanessa.
Niente di interessante: i messaggi più vecchi erano già stati cancellati e gli ultimi erano delle normali conversazioni.
Solo un messaggio catturò la sua attenzione. Era di Vanessa:
“A volte il senso di colpa mi annienta” aveva scritto lei.
“Ti ho detto di pensare ad altro quando è così” le aveva risposto lui.
Mandò un messaggio a Vanessa con il telefono di Fede e le chiese di venire in quel posto in cui si trovava. Lei gli rispose che finiva di lavorare alle tredici, e gli chiese come mai la stesse invitando proprio lì.
“Devo dirti una cosa sull’incidente di Vincenzo” le aveva risposto lui sogghignando.
Nell’attesa di Vanessa, Federico si era risvegliato e aveva cercato di liberarsi. I tentativi erano stati inutili. Era ben legato sia ai piedi che alle mani e aveva anche un nastro sulla bocca. Inoltre, si sentiva molto debole a causa della botta alla testa che gli faceva un male cane.
Vanessa arrivò alle tredici e cinque minuti. Prese la stradina di campagna che porta all’interno della masseria abbandonata a quaranta chilometri orari. L’ultimo messaggio di Federico le aveva causato uno stato di trepidazione e voleva sapere subito cosa era successo. Quella storia le stava rovinando le giornate e non sapeva quanto altro sarebbe riuscita a resistere.
Appena entrò nella masseria accostò e scese dalla sua auto. Si guardò per bene intorno ma non c’era nessuno. Con la mano tremolante prese il suo cellulare e provò a chiamare Federico. Quando se lo mise all’orecchio qualcuno la prese da dietro. Il sobbalzo le fece scivolare il telefono dalla mano ma non provò nemmeno una volta a liberarsi dalla presa, l’oggetto freddo e metallico che avvertiva alla gola non poteva che essere un coltello.
Restò immobile e si accorse che la lucidità la stava abbandonando. Il sangue le pulsava vigorosamente fino alle tempie. «Federico, sei tu?» disse singhiozzando.
«No» le rispose una voce malefica alle sue spalle. La strattonò e la posizionò frontale rispetto allo sportello della sua auto. Fu allora che vide il volto del suo aggressore riflesso nel vetro.
Le sue sclere si inondarono di lacrime e le iridi furono entrambi visibili nella loro integrità.
«Tu?» disse con l’espressione di ha visto un fantasma.
Vincenzo prese qualcosa dalla tasca e cominciò le manovre per legarla. «Ti prego no» strillò, e lui le fece sentire la pressione della lama sul collo. «Se urli un’altra volta ti ammazzo.»
Vanessa rimase paralizzata. Vincenzo le mise una benda di cotone arrotolata nella cavità orale e ci passò del nastro adesivo sopra, poi le mise una corda resistente ai polsi e alle gambe, talmente stretta da lacerarle la cute. Vanessa prese le sembianze di una bambola di pezza e si lasciò fare di tutto senza contrastare. Era vero? Stava succedendo? Non erano cose che potevano accadere. Succedono solo nei film. Ma in fondo se lo sarebbe dovuto aspettare. Sapeva che prima o poi la giustizia avrebbe prevalso.
L’auto nera lasciò la masseria ad alta velocità e si diresse verso la SP241.
Alle tredici e trenta, il soggiorno di Vincenzo smise di essere l’entrata di una semplice casa e divenne un luogo di torture. Federico e Vanessa si trovavano legati su due sedie al centro della stanza. A tenerli stretti allo schienale si erano aggiunte due robuste corde per ognuno.
Federico mise tutta la sua forza per cercare di liberarsi. Niente. Tentativi vani. Vincenzo aveva fatto un ottimo lavoro.
Vanessa era posseduta da un tremito inverosimile e si guardava intorno continuamente.
Mello scese le scale pian piano. Guardò le sue prede e sorrise. Si sentì bene nel vederle soffrire. Non si era chiesto nemmeno per un attimo se il suo comportamento fosse la scelta giusta. Lo era e basta. Era l’ora di pagare.
Guardò Federico e notò il suo solito sguardo arrogante. Ancora non se la stava facendo sotto dalla paura. Era evidente che pensava che Vincenzo non avrebbe avuto il coraggio di fare nulla, ma non aveva capito che la persona che si trovava davanti a lui non era il Vincenzo di prima. Questa persona era più feroce. Era un animale… proprio come loro!
Gli tolse il nastro dalla bocca e poi la benda impregnata di saliva dalla scialorrea.
«Cosa hai da dire, bastardo?» gli chiese.
Federico alzò lo sguardo e gli lanciò un’occhiata ribelle. «Se solo mi togliessi queste corde te lo direi eccome! Coglione!» «Hahahahahahahahaha» rise Vincenzo mettendosi le mani sull’addome.
«Prega Dio che non ci faccia mai trovare là fuori» aggiunse Fede. Vincenzo tornò serio. Lo guardò assorto. Poi sorrise. «Forse non hai capito» scrollò la testa più volte a intensificò il sorriso. «Non uscirai vivo da qui.» Prese la benda e la riposizionò di forza tra la dentatura. Federico provò a contrastarlo ma nulla poteva in quelle condizioni. Gli passò un giro di nastro intorno al viso e poi lo prese per capelli e gli tirò il capo indietro. «Il tuo giro nel mercato dell’inciviltà è terminato. Benvenuto alla cassa, è l’ora di pagare il conto!»
La puzza di sudore e di qualcosa di molto simile a un escremento sfiorò la mucosa nasale di Federico, che notò gli occhi arrossati e le labbra secche del suo aggressore provando ribrezzo.
Tutto ciò lo distrasse solo per un attimo, perché poi, per la prima volta nella sua vita, ebbe la sensazione di essere indifeso e debole. Per la prima volta avvertì la paura che lui aveva fatto provare agli altri ragazzi negli anni passati. Percepì un sudore freddo traspirargli dalla fronte. Qui finisce male, pensò.
Vincenzo si mise dritto e guardò Vanessa. La bionda più desiderata di Lecce sembrava non essere tanto connessa col mondo esterno. Un urlo soffocato partì dalla sue labbra nastrate e cercò di suggerire qualcosa al suo aguzzino. Strinse gli occhi e lasciò scivolare le lacrime. Imitò uno sguardo di supplica e provò a parlare di nuovo. Vincenzo si avvicinò divertito. Prese un angolino spiegazzato del nastro adesivo sulla guancia e lo staccò brutalmente. Lei urlò di nuovo, questa volta per il dolore. «Sentiamo cosa vuole dirci questa puttana» disse Vincenzo mentre le toglieva anche la benda.
«Ti prego ti prego ti prego» cominciò Vanessa freneticamente, «ti chiedo scusa, scusa per tutto. È stato solo uno stupido errore. Ma ci sono altri modi per pagare» sapeva di avere a disposizione solo pochi secondi per parlare e cercò di cacciare le parole migliori. «Per favore lasciaci in pace e chiama la polizia. Saranno loro a giustiziarci come si deve. Ti scongiuro. Ti supplico.»
Vincenzo sorrideva come un bambino che guarda i cartoni animati. Nel frattempo, aveva preso a portare il nastro di nuovo verso la bocca di lei.
«No, per favore, non lo fare» disse Vanessa singhiozzando. «Per favore, non meritiamo questo. Siamo stat…»
Il nastro nero teso tra i gli indici e i pollici di Vincenzo era a pochi centimetri dalle sue labbra. «Noo…» riuscì a dire. Dopodiché le sue lamentele sembrarono solo delle grida sul fondo dell’oceano.
Qualche ora dopo, Vincenzo aveva sistemato nel frigo un po’ di roba che aveva acquistato quella mattina prima di catturare i suoi coetanei. Si mise seduto a tavola e mangiò con tutta calma guardando la TV mentre le sue prede, soprattutto Vanessa, avevano provato a muoversi e a urlare. Vincenzo aveva mandato un messaggio a Carmine per dirgli di raggiungerlo, anche lui sembrò contento delle novità.
Lasciò metà della pizza surgelata e la gettò nell’immondizia. L’ansia e il mal di testa non avevano voglia di lasciarlo in pace.
Si diresse verso il mobile e osservò gli oggetti all’interno. Sembrò concentrato, come se stesse scegliendo il modello di auto da acquistare. Ne cacciò fuori una pinza e un cacciavite a stella. Afferrò gli utensili uno in una mano e uno nell’altra e si diresse soddisfatto verso i prigionieri. Vanessa intravide cosa aveva Vincenzo nella mano e cominciò a muoversi e a scuotere la testa provando a far evadere attraverso il nastro qualche urla. I goccioloni le inondarono gli occhi e pregò Dio per la prima volta dopo tantissimi anni.
Per favore Dio mio. Lo so che non sono stata buona ma portami fuori da quest’inferno. Nonostante il suo desiderio di fuggire, ancora non si era capacitata del fatto che potesse essere tutto vero. Erano scene che aveva visto in “Hostel” o in “Saw”, non potevano far parte della vita reale.
Vincenzo si avvicinò e li fronteggiò. Vanessa era sulla sua destra e Federico sulla sinistra.
Li guardò entrambi e sorrise.
Vanessa non finiva di scuotere la testa velocemente. Urlava e tossiva cacciando aria solo dal naso e a tratti sembrò soffocarsi.
Federico era immobile e contemplava la scena quasi assorto: davvero si sarebbe permesso a usare quegli aggeggi su di loro? La cosa che lo aveva attirato di più, però, era lo sguardo crudele e disumano di quell’essere che aveva davanti. Sembrava posseduto.
Stringeva gli attrezzi tra le mani e guardava loro con aria divertita. Qualche rotella aveva lasciato il suo posto e aveva fatto saltare i meccanismi nel suo cervello, perché nonostante Federico avesse avuto a che fare con gente folle, non aveva mai visto nulla di simile.
Le grida della sua amica erano continue e costanti anche nell’intensità. Avrebbe perso la voce entro qualche minuto, ne era certo. Ma nonostante ciò, nessuna onda sonora oltrepassò la porta d’ingresso della casa avvolta nella nebbia.
Vincenzo puntò lo sguardo su Vanessa e mostrò nervosismo. Quelle urla, nonostante fossero soffocate, gli stavano aggravando il mal di testa. Avvertì una specie di visione. Percepì nella sua mente le urla di un bambino.
«Stai zitta» disse. Chiuse gli occhi e, oltre a udire la dolorante voce del bambino, intravide una scena raccapricciante: prima un volto sofferente, poi delle bare, poi sentì un forte rumore.
«Stai zitta» urlò. Mosse velocemente la testa e riaprì gli occhi. Vanessa era ancora di fronte a lui e non ne voleva sapere di smettere.
«Devi stare zitta, cazzo!»
Poi fece tutto così in fretta. Lei non ebbe nemmeno il tempo di comprendere i movimenti di lui. Vincenzo posò il ginocchio destro per terra e tirò un colpo con la punta della pinza sulla rotula di Vanessa. Lei avvertì un dolore insopportabile, ma non sapeva che si trovava solo all’inizio, non sapeva che più in là avrebbe pagato per ricevere soltanto delle botte sulle rotule.
Vincenzo aprì la pinza e afferrò l’alluce di Vanessa, lasciato scoperto dal sandalo marrone. Strinse forte. Afferrò il manico della pinza con due mani. Gridò e sfogò qualcosa che aveva dentro da ormai troppi giorni.
«Devi stare zitta» continuò, e aggrottò l’espressione quasi stesse per piangere. Il suo atteggiamento sembrava solo uno sfogo di rabbia repressa.
Vanessa stavolta pregò Dio di ucciderla. Se non voleva salvarla allora doveva ucciderla in quell’istante. Tremava tutta e avvertiva il dolore salirle fino alla natica, come se quella pressione al dito le avesse attivato una corda che trasporta stimoli nocivi dalle dita fino alle parti superiori.
La presa si fece più forte. Vincenzo continuò ad aumentare l’intensità delle urla e anche la forza impressa sull’impugnatura della pinza. Qualcosa schioccò, un’oscillazione percosse la pinza e fece vibrare i suoi polpastrelli. Si fermò e guardò il viso di Vanessa: gli occhi erano spalancati e il volto bagnato fradicio di un misto tra sudore e lacrime. Abbassò lo sguardo verso la pinza e la ritirò.
L’unghia era rientrata nella pelle e si era frantumata in tre o quattro pezzi. Il sangue aveva preso a colare sul pavimento.
Lui sorrise. Si sentì come se avesse scacciato dal proprio corpo un ammasso di rabbia.
Vanessa avvertì dei battiti nel piede. Come se il suo cuore si fosse calato fin lì per pulsare litri di sangue. Aveva smesso di respirare da qualche secondo, il dolore le era arrivato fino ai polmoni. Le sue palpebre calarono ma poi si riaprirono. Sentì una sensazione di svenimento ma quasi le sembrò un bisogno impellente. Doveva perdere la coscienza, ma purtroppo qualcosa la teneva ancora sveglia. Si chiese solo se davvero meritasse ciò. Le passò nella mente l’immagine del viso di suo padre, poi quello della madre e infine del fratello minore. Aiutatemi, pensò.
Vincenzo si mise in stazione eretta e lasciò cadere gli utensili per terra.
Andò verso la finestra, prese il cellulare dalla tasca e chiamò Carmine.
“Sto arrivando” gli rispose lui.
Nella breve durata della chiamata provò a sbirciare nella casa a fianco. Non si vedeva anima viva da un po’. Si voltò e colse Federico nell’intento di afferrare il cacciavite con il piede. Sforzi vani: i piedi erano legati stretti e le gambe erano congiunte ai gambi della sedia. Riuscì a farli avanzare solo di cinque centimetri ma il cacciavite ne era distante dieci.
«Cosa c’è, bastardo?» disse Vincenzo. «Vuoi il cacciavite?»
Federico sussultò e si bloccò.
«Lo vuoi?» ripeté.
Qualcosa nel suo sguardo si aggravò, la ferocia divenne più evidente. Federico fece un segno di diniego con la testa e quei movimenti gli intensificarono il mal di testa. Sentiva qualcosa di gonfio e caldo proprio sopra la nuca.
«Okay, te lo do» disse Vincenzo. Partì spedito, Manzoni trasalì, lui prese il cacciavite e caricò il colpo alzando il braccio e portandolo dietro la testa. Quel gesto, troppo veloce per essere esaminato, intensificò la barriera che nella mente di Federico divide i sogni dalla realtà. Gli fece perdere un po’ di coscienza e lo mandò in un mondo surreale. La punta del cacciavite penetrò per cinque centimetri nella coscia. A Federico, quella punta, gli sembrò incandescente. Macinò la pelle lateralmente al femore sinistro e sfiorò una piccola arteria. Vincenzo ritirò l’attrezzo velocemente e lo gettò per terra. Federico si guardò la coscia e vide una macchia rossa espandersi sul suo jeans. Guardò Vincenzo e i loro occhi si affrontarono per una dozzina di secondi: quelli di Federico erano spalancati e increduli, quelli di Vincenzo persi nel vuoto e accompagnati da un sorriso asettico che gli colorava il viso di follia.
L’uomo in piedi divenne una sagoma nera, sempre più sfocata. Le pareti della casa si mossero come una giostra.
Poi calarono le tenebre.
Qualcuno bussò alla porta. Vincenzo andò ad aprire e ci trovò dietro il suo amico. Si salutarono e lo fece entrare. Carmine porse inevitabilmente lo sguardo sui due topini in gabbia. Uno era privo di coscienza con una macchia sulla coscia, l’altro era sudato e tremante, aveva il piede destro che poggiava su una piccola pozza di sangue e fissava terrorizzato Vincenzo.
«Che te ne pare?» gli chiese.
Carmine sembrò preoccupato. Si morse il labbro inferiore e guardò Vincenzo. «Forse è rischioso?»
«E chi se ne frega» gli rispose lui sorridendo.
Carmine volse di nuovo lo sguardo verso le prede e poi riguardò Vincenzo. «Va bene. È la tua vendetta» gli disse.
Andarono a sedersi a tavola e accesero la TV. Indifferenti allo scenario raccapricciante che dominava in quelle mura.
«Novità sui vicini?»
«Non si sono fatti proprio vedere» rispose Vin.
«Beh, io ho qualche novità», disse Carmine.
«Spara» lo incitò curioso Vincenzo.
«Ho saputo cosa ti hanno fatto quei due bastardi» disse additando Vanessa e Federico.
Vincenzo cambiò l’espressione e per un attimo, in lui, ritornò la paura. L’ansia crebbe e una fitta di dolore gli attraversò il cranio rapidamente. «C… cosa hanno f… fatto?»
Carmine lo guardò negli occhi. Fece una smorfia di nervoso avvicinando il labbro superiore al naso. «Un video.»
Vincenzo aggrottò le sopracciglia. «In che s… senso? Un video?» «Un video umiliante. Uno di quei video che puntano a diventare virali. Purtroppo non l’ho trovato. Non so precisamente cosa mostrava. Ovviamente qualcuno ha pensato bene di farlo sparire dopo il tuo incidente.»
Mello abbassò lo sguardo sui pugni chiusi. «Sai se è stato mandato a tanta gente?»
«No. Non so per quanto sia stato in circolo. Ma dopo il disastro tutti i possessori hanno pensato bene di eliminarlo.»
«Chiaro» rispose Vincenzo facendo seguire un sospiro. «Ti va di restare qui stasera?»
«Intendi per dormire?»
“Sì» rispose Vincenzo annuendo.
«Ci faremo arrestare, lo sai?»
«Ma per un motivo valido.»
Carmine sorrise. «Va bene. Mi fermo qui da te.»
Vincenzo alzò lo sguardo e incrociò quello di Vanessa. Strinse i denti e fece sfolgorare odio dai suoi occhi.
Vanessa aveva assistito al suo discorso, non si era persa nemmeno una parola. Nemmeno uno sguardo o un gesto. Capì che i film dell’orrore non erano un’invenzione umana ma bensì dei fatti verosimili.
La stessa frase le rimbombò nella mente per un centinaio di volte: è completamente impazzito! Eppure era un bravo ragazzo.