La stanza era piccola e confortevole, le pareti erano grigie e il soffitto bianco, un tappeto rosso posava sul pavimento nero, i mobili erano scarlatti e moderni, il letto matrimoniale era posizionato al centro della stanza e le lenzuola erano grigie con risvolto rosso. Tutto meticolosamente curato nei dettagli. La finestra era una vetrata due metri per due che si affacciava sul Castello Carlo V e sulla Fontana dell’Armonia. A garantire la privacy vi erano una tendina bianca a strisce verticali in cotone e l’altezza della stanza, che si trovava a primo piano.
Vanessa si tuffò sul letto sorridendo e Vincenzo la contemplò attonito. Lei gli aveva anche proposto di cenare insieme ma lui non aveva abbastanza soldi per B&B e cena, e non aveva nemmeno fame.
Stava per perdere la verginità, e nelle ultime dieci ore aveva pensato solo ed esclusivamente a quello. Sarebbe stato uno dei passi più grandi della sua vita e l’avrebbe portato allo stesso livello dei suoi coetanei. Da quella sera in poi, forse, sarebbe potuto essere orgoglioso di se stesso e della sua vita nonostante tutti gli errori. Avrebbe, in un certo senso, conquistato quelle parti che non era stato mai capace di raggiungere e che fanno parte del normale sviluppo di un normale ragazzo.
Vanessa si mise seduta e lo fissò negli occhi. «Io direi di cominciare» gli disse. Erano distanti due metri ma il corpo di Vanessa sembrava emanare calore come il sole d’agosto. Vincenzo lo avvertiva sulla propria pelle e a tratti si sentì soffocare.
«V… vado un att… vado un attimo in bagno» le rispose incamminandosi verso la porta rossa. Vanessa sorrise.
Aprì il rubinetto e si gettò due manate d’acqua in faccia. Si guardò allo specchio e sospirò.
Forza Vincenzo, fatti forza! Si disse.
Avvertì un tremito alle mani e alle gambe, la paura di non essere all’altezza di quel momento era tantissima. Mise i polsi sotto l’acqua gelida e inspirò a fondo. Cercò di concentrarsi sulla freschezza dell’acqua che gli scorreva sulla cute e provò a racimolarne sollievo.
Forza forza forza forza!
Tutti i ragazzi prima o poi vanno incontro a quegli attimi di terrore, ne era sicuro. Soprattutto quando sei ancora vergine e lei ha già esperienza. Perché lei non commetterà gli errori della prima volta e tu sì. Non poteva sembrare impacciato. Doveva mascherare ogni paura. Doveva far sparire ogni traccia di inesperienza.
Forza Vincenzo, che tra poco sarà tutto finito!
L’acqua continuò a scorrergli sui polsi sempre più fredda.
Vanessa cacciò il cellulare dalla tasca. Si alzò dal letto e cercò di udire attentamente Vincenzo al di là della porta del bagno. Il lavandino era aperto e lo scorrere dell’acqua rappresentava una sicurezza per Vanessa. Sapeva che avrebbe avuto tempo fino a che quello scorrere dell’acqua non si sarebbe interrotto. Andò verso il mobile e prese due statuine, una rappresentava un albero secco stilizzato in marmo, l’altra era una miniatura di Amore e Psiche di Canova.
Attivò la videocamera del suo cellulare e lo mise sul mobile, posandolo di schermo al muro. Fece prima qualche tentativo per cercare di perfezionare la visuale e poi collocò le due statuine davanti ad esso, una da un lato e una dall’altro. Tornò sul letto e si sedette nella posizione che aveva lasciato. Guardò per controllare se il suo cellulare fosse troppo visibile e sorrise.
Vincenzo chiuse l’acqua e si asciugò il viso. È ora di andare! Si disse in modo abbastanza sicuro. Aprì la porta e vide Vanessa seduta dove l’aveva lasciata. Lei si girò e gli sorrise.
«Scusa ma avevo bisogno di sciacquarmi le mani. Prima ho toccato qualcosa di appiccicoso» le mentì.
Lei sbatté le palpebre e sorrise ancora. «Fa niente. Avanti, vieni qui di fronte a me.»
Lui si avvicinò ed eseguì gli ordini. Si bloccò a un metro di distanza da lei e la guardò. Non aveva mai provato un’ansia più gradevole di quella, era un misto tra tensione ed eccitazione.
«Un po’ più indietro» disse lei per garantirsi un’inquadratura centrale nel video.
Lui fece un passo indietro un po’ perplesso.
«Ora facciamo un gioco. Ci stai?»
Vincenzo corrugò le sopracciglia e annuì. Accennò un risolino.
«Cominci tu. E io seguirò le tue mosse. Se tu metterai a nudo il tuo petto io dovrò fare lo stesso col mio. Così con le gambe e via via proseguendo.» Vincenzo deglutì.
«Comincia. Avanti!» lo incitò sorridendo.
Passarono una decina di secondi. Lei annuì per convincerlo.
Facciamo un gioco. È solo un gioco Vincenzo, si disse lui. Afferrò la parte inferiore della sua maglietta, la sfilò via, e la lasciò cadere per terra.
Passarono altri secondi. Lei sfilò la sua e fece lo stesso. Dopodiché mise le mani dietro la schiena per slacciare il reggiseno rosso in sintonia con la stanza. Il suo sguardo era fisso sugli occhi di Vincenzo, che a loro volta erano fissi sul seno di lei.
Il reggiseno cascò in basso e i due seni seguirono la sua traiettoria soltanto per pochi millimetri, poi si bloccarono e oscillarono lievemente. Vincenzo avvertì un aumento del flusso di sangue al suo interno, soprattutto nel cranio e nelle parti intime. Non se lo aspettava così bello e perfetto.
«Continua» gli disse lei.
Obbedì e si tolse le scarpe e poi i pantaloni.
Lei si alzò in piedi e scalò i suoi.
La guardò da sopra a sotto. Il viso non si faceva tralasciare, e nonostante il bel fisico in mostra, si prendeva la sua parte di spettacolo. I due seni formosi erano in contrasto con il torace smilzo e asciutto. I fianchi si allargavano leggermente e le gambe erano lisce e toniche. La mutandina era rossa con un piccolo fiocchetto nero in alto e sull’ombelico le brillava un piercing.
Lei si sedette di nuovo sul materasso e gli fece l’occhiolino. «Continua» gli disse.
Vincenzo sospirò. Ogni secondo che passava lo faceva ragionare meno. Allora fece l’ultimo passo. Si fermò qualche secondo. Socchiuse gli occhi e pensò al Vincenzo Mello che ne era stato.
A mai più rivederci, si disse. Afferrò le sue mutande e le mandò giù.
Per fortuna, lo spettacolo precedente gli aveva garantito la massima tenuta del suo pene. Ma nonostante ciò era rosso in volto e avvertiva magma scorrergli al posto del sangue.
Lei sorrise.
Missione compiuta! Fine dei giochi! Pensò, e le venne voglia di esultare. Si sentì libera. Finalmente era tutto finito. Bastava solo recitare alla perfezione l’ultima parte del copione e poi non avrebbe mai più avuto a che fare con Vincenzo Mello.
«Bene. Tocca a me», gli disse. Prese i bordi delle mutandine e restandosene seduta le abbassò di qualche centimetro. Si guardò e le ritirò su di scatto. «Oh no!» disse imitando uno sguardo sorpreso e preoccupato.
Vincenzo si sentì come se quelle parole lo avessero svegliato da un bel sogno. «C… cosa è successo?» le chiese.
«Questa non ci voleva. Ma guarda che sfortuna» continuò lei con lo sguardo dispiaciuto.
«È successo qualcosa?» le chiese dubbioso.
Lei lo guardò con aria sconcertata. «Mi sono venute. Dannazione!»
Vincenzo aggrottò le sopracciglia. Esitò un attimo. «Cos’è successo?» le chiese ancora.
Che imbecille, pensò lei. «Mi è venuto il ciclo, Vincenzo.»
Fu allora che lui comprese. Non capì precisamente se in quel momento si sentiva sollevato o deluso. Un po’ uno e un po’ l’altro, forse. Come se avesse rimandato un compito difficile di qualche giorno: il sollievo è perché lo si può preparare meglio, la delusione è perché lo si poteva togliere davanti una volta per tutte.
La prima cosa che gli venne in mente di fare fu rimettersi le mutande. La vista del suo pene lo rendeva molto più timido del normale.
«V… vuoi che r… rimandiamo?» le chiese.
“Sì. Ma c’è un altro problema.»
Lui restò impassibile attendendo che lei continuasse il discorso. «Quando mi viene il ciclo ho solo pochi minuti per poter prendere delle pillole. Altrimenti i dolori mi ammazzano.»
Vincenzo non era mai stato un buon intenditore di donne, figuriamoci del loro ciclo. Per non sembrare un imbranato fece finta di comprendere e le disse di non preoccuparsi.
«Scusa, ma devo andare urgente a casa. Sono mortificata. Avrai speso un botto per affittare questo posto stasera. Mi perdonerai?»
Vincenzo provò a non fargliela pesare. «M… ma non ti preoccupare assolutamente. Vai pure. La sal… la salute prima di tutto.»
«Mi dispiace» disse lei. Si alzò e gli diede un bacio sulle labbra.
Grazie di tutto idiota!
Si rivestirono e Vanessa prese la sua borsa e la posizionò sul mobile, davanti al cellulare. Si mise di spalle a Vincenzo e fece finta di frugarci all’interno. Prese il cellulare dal mobile e lo gettò velocemente nell’Armani blu.
«Ma ritorni più tardi?» le chiese Vincenzo quando cominciò a metabolizzare ciò che stava succedendo.
Lei scrollò le spalle dispiaciuta. «Prendo le pillole e mi metto a letto. Sarà una nottataccia»
«Capisco» disse lui assorto.
«Ciao Vincenzo. A presto.» Si incamminò verso l’uscita e si chiuse la porta alle spalle. Di lei restò soltanto il profumo.
Vincenzo si sedette sul letto, deluso e scoraggiato. Aveva speso sessanta euro per affittare quella stanza e sapeva di non potersela permettere un’altra volta. La sua dolce ragazza se n’era dovuta andare e lui era rimasto da solo. Pensò di chiederle di raggiungerla a casa ma non voleva sembrare pesante. Inoltre quella stanza sarebbe stata sua per tutta la notte e l’aveva già pagata. Sarebbe rimasto lì. Si sarebbe rilassato e avrebbe passato una bella nottata lontano da tutti i problemi esterni e da quelli interni di casa sua.
In quel momento, quella stanza assunse un valore particolare, era come se quelle quattro mura lo mettessero al di fuori del mondo. Lì non ci sarebbe stata sua madre a gridare e nemmeno il disordine e la sporcizia di casa sua a infastidirlo. Il mondo là fuori, con tutta la sua crudeltà, ignorava la sua esistenza, perché lui era rinchiuso in una stanza confortevole e accogliente all’insaputa di tutti.
Si gettò all’indietro e sospirò, guardò il soffitto e provò una sensazione rasserenante. Dalla finestra semiaperta filtravano i rumori del traffico e del caos leccese dei giorni festivi, ma lui era lì, sereno e custodito, lontano da tutto e tutti.
Lo spiazzo del Convitto Palmieri era dominato da un nugolo di ragazzi sorridenti. Qualcuno beveva, qualcuno fumava, ma tutti sembravano avere discorsi interessanti da fare.
Un gruppo di neo laureati sostava all’angolo. I ragazzi erano sorridenti e il più lucido aveva bevuto soltanto 5 bicchieri di prosecco. Ogni tanto partiva qualche coro dedicato a uno dei componenti che faceva ridere anche i ragazzi al di fuori di quella comitiva. C’erano stati due centodieci e Lode e a questi era toccato pagare le prime otto bottiglie.
Tre ragazze diciannovenni sedevano a qualche metro di distanza. Una di loro aveva avuto una relazione con uno dei neo laureati. Aveva i capelli lisci e neri che le arrivavano fino ai glutei, gli occhi neri e due zigomi scolpiti alla perfezione. Una sua amica sapeva già tutto della sua storia col ragazzo neo laureato ma l’altra no, quindi aveva preso a raccontarle tutto: dal modo in cui si erano conosciuti fino al primo appuntamento e alla prima volta. Lui l’aveva mollata ma a lei interessava ancora. Ne avrebbe approfittato immediatamente appena avrebbe avuto un attimo per fargli gli auguri.
Sulla parte opposta, a una quindicina di metri di distanza, vi era una giovane coppia. Lei aveva diciannove anni e lui ventitré. Stavano insieme da poche settimane e lei gli stava raccontando di come aveva troncato i rapporti con le tre tipe che sedevano di fronte a loro. Avevano litigato perché una di loro le aveva fregato il ragazzo. Era stata lei la prima a frequentarsi col neo laureato che stava festeggiando con gli amici all’angolo del Convitto. Poi gli aveva fatto conoscere le sue amiche e lui si era preso una cotta per una di esse, quella con i capelli lunghi fino “a sotto il culo”. Mentre raccontava questa disavventura al suo nuovo ragazzo lui sembrava disinteressato e attratto da qualcos’altro. Fissava un tipo che era in piedi al centro del piazzale che qualche mese prima gli aveva fatto un occhio nero. Stava discutendo con un altro ragazzo ed erano le uniche due espressioni arrabbiate presenti quella sera. I due ragazzi si fronteggiavano a pugni chiusi.
«Dimmi cosa sta succedendo» chiese uno di loro.
L’altro fece un sorriso arrogante. «Ma dai Christian, rilassati. Davvero ti importa così tanto di quel Vincenzo?»
«Ti ho detto di lasciarlo in pace, Fede. Te lo chiedo per favore.»
«Ehi ehi. A me non mi minaccia nessuno, sai?»
«La mia non è una minaccia. Ti ho chiesto per favore» lo supplicò Christian con tono serio.
«Ti chiedo un favore io ora. Togliti dalle palle e vatti a cercare una figa per stasera.»
«Federico» riprese Christian. «Cosa gli state facendo?»
Manzoni sorrise ancora. «Vedrai» disse.
«No, ti prego. Qualsiasi cosa sia, fermatevi! Lo distruggerete, lo capisci?»
Federico alzò lo sguardo al cielo e fece finta di pensarci. «Sai… forse hai ragione.»
«Appunto, Fede. Sei abbastanza maturo per capirlo.»
“Sì» rispose lui. «Ma ormai è troppo tardi.» Si mise una mano sull’addome e rise di gusto.
«Che significa?» chiese Christian.
«Significa che è troppo tardi» ripeté, intensificando la sua irritante sghignazzata.