Forse fuori era una bella giornata. Ma nel secondo ambulatorio del reparto di Neurologia era tutto così cupo. Tutto così grigio. Sembrava la giornata più uggiosa dell’anno.
Il dottor Andreolli non si sentiva all’altezza della situazione, e questo non gli era mai successo durante la carriera. Era stato sempre un professionista sicuro di sé, consapevole di avere le conoscenze giuste per affrontare il suo difficile compito ogni santo giorno.
Ma questa volta era diverso. Era una storia ai limiti dell’immaginabile.
Il ragazzo che aveva di fronte aveva bisogno di aiuto, e ciò che legava quel ragazzo ad Andreolli implicava il massimo impegno da parte sua.
Ogni parola sarebbe potuta risultare giusta o sbagliata, o per tradurla meglio: utile o devastante!
Mandò giù un po’ di saliva per sciogliere un nodo in gola e sospirò.
«Hai detto che credi di essere impazzito?»
Vincenzo lo guardò attonito. «È brutto utilizzare questo termine. Mi rende più vulnerabile. Preferisco credere che siano solo degli effetti temporanei causati dal trauma.»
«Esatto. Perché? Cosa credevi che fosse quella che noi chiamiamo pazzia?»
Vincenzo fece spallucce. «Una roba del genere ma che si ripete nel tempo. Non temporanea.»
«Bene» gli disse Andreolli. «E tu hai capito subito che c’è qualcosa che non va e hai deciso di fermarla, giusto?»
“Sì. Esatto.» Vincenzo si sentì impotente. Sapeva di doversi aspettare qualsiasi cosa. Il dolore alla testa si era alleviato ma adesso era continuo. Non cessava nemmeno per un secondo.
«Dunque, sei motivato?»
«Cosa intende, dottore?»
«Vuoi davvero fermare tutto questo? È importante essere motivati, lo sai? Solo tu puoi decidere di bloccare tutto. E ce la puoi fare, lo sai?» Vincenzo annuì e le sue braccia ripresero a tremare. Lo sfogo di pochi minuti prima lo aveva calmato ma ora la tensione si stava facendo risentire.
«Ti fiderai di me? È importante anche questo. Ti avrei mandato già in un altro reparto se fossi stata un’altra persona. Ma a te ci tengo. Perché volevo bene a tuo padre e ti proteggerò a ogni costo.»
Mello rabbrividì. «Lei… conosceva mio padre?»
“Sì.»
Forse a causa della SLA? In fondo si trovava nel reparto di neurologia, caspita.
«Mi fido, dottore» gli rispose.
«Va bene.» Andreolli si alzò e mise un cartello fuori la porta: “NON DISTURBARE, VISITA IN CORSO”. Poi chiuse l’ambulatorio a chiave dall’interno e chiese al suo paziente se volesse bere. Lui rispose di no. Tornò a sedersi e disse qualcosa dentro di sé, qualcosa rivolto a Dio.
«Cominciamo. Fidati di me, ti prego!»
Vincenzo annuì, ma tutto aveva già preso sembianze oniriche.
«Hai detto di aver visto Carmine Serti. Lui ti ha confessato tutto. Ti ha detto che quei due ragazzi hanno fatto qualcosa di brutto e che sono responsabili, in qualche modo, dell’incidente.»
“Sì.»
«Io ricordo bene quell’incidente. È accaduto due settimane fa, e come sai, Lecce è una piccola città. Fortunatamente ne accadano poche di disgrazie. Ma gli eventi di questo genere rimangono impressi nella mente per un po’.» I due si fissarono per una dozzina di secondi. «In quella macchina non c’era una sola persona. Sul sedile del passeggero c’era Carmine.»
Vincenzo avvertì tutti i vasi sanguigni del suo corpo dilatarsi. Come per sopportare la spinta che il cuore stava dando al sangue. Avvertì le pulsazioni addirittura fino alle dita.
«E bene…» riprese Andreolli. «Carmine Serti ha perso la vita lo scorso due maggio.»
«No» disse Vincenzo. Non poteva essere vero. Carmine si era presentato alla sua porta, avevano mangiato e bevuto insieme. Avevano parlato. Gli aveva confessato tutto lui. Non era possibile ciò. Carmine lo aveva… lo aveva chiamato al telefono!
«No, non è possibile» disse.
«Invece sì» rispose Andreolli.
«No, lei si sbaglia» insistette Vincenzo. Prese il cellulare dalla tasca e andò al registro chiamate. Le dita gli tramavano e ci mise un po’, ma poi le trovò. Eccole lì. Tutte le chiamate di Carmine Serti. Erano tutte salvate con gli orari e la durata.
«Ecco» riprese. «Queste sono le chiamate che ci siamo scambiati io e Carmine. Come può vedere, sono tutte dopo la data che lei ha appena detto.»
Gli puntò lo schermo in faccia e il dottor Andreolli scosse la testa incredulo.
Hai visto? Cavolo si sta sbagliando, pensò Mello.
«Ehi» disse il medico. Lo guardò amareggiato. «Questo cellulare è rotto. Guarda lo schermo. È frantumato!»
«Ma cosa sta dicendo?» Vincenzo guardò lo schermo e lo vide intatto, ancora illuminato con lo sfondo che mostrava le chiamate ricevute ed effettuate. Scosse la testa e riguardò il dottore meravigliato.
«Guarda bene» disse Andreolli alzando il tono della voce. «Sono pezzi di vetro frantumati.» Si issò dalla sedia e prese l’indice destro di Vincenzo. Lo mise sullo schermo e lo fece andare su e giù. «Tocca, guarda!» Vincenzo avvertì qualcosa di ruvido. Raggelò.
L’illuminazione si spense di colpo. Dello schermo di un attimo prima ne era rimasto solo qualche pezzo, sullo sfondo si vedevano grandi chiazze nere.
«No» mormorò.
Poi gli venne un flashback:
È in casa. Il suo cellulare è posato sul comodino e squilla.
Si alza per prenderlo.
“Pronto” dice. Attende un attimo.
“Hai sbagliato numero” ribatte.
L’uomo dall’altra parte continua a parlare.
“Ho detto che hai sbagliato numero” ripete Vincenzo. Poi lancia il telefono contro il muro. Per terra appare qualche pezzo di vetro.
Vincenzo rimase a bocca aperta.
«Carmine Serti non c’è più» soggiunse Andreolli.
“Sei impazzito? Carmine non c’è. Non ci può essere. Non c’è nessuno sulle scale” gli aveva detto Vanessa qualche ora prima.
«Tutto questo è incredibile.» Gli occhi di Vincenzo si erano arrossati ulteriormente.
«Lo so, ma devi bloccare tutto. Sei ancora motivato?»
«È morto per causa mia?» gli chiese ignorando la sua domanda. «No» disse Andreolli. «Assolutamente non c’entri nulla.»
«E l’uomo e il bambino? Anche loro sono morti nell’incidente?»
«No.» Il tono fu distaccato ma lasciava intendere che ci fosse dell’altro. «Che impressione ti danno loro? Come li vedi? Ti mettono paura?»
«Io» Vincenzo si agitò e increspò il viso. «Io non capisco, mi rendono triste. Mi viene voglia di aiutare quel bambino ma so di non poterlo fare. Mi sento in trappola. Quell’uomo si sente sempre in colpa. Loro… sono così tristi! Dannatamente tristi! E mi mettono angoscia.»
«Guardami» gli disse perentoriamente Andreolli. Lui obbedì. «Loro li conosci bene. Okay? Non puoi rimuoverli dalla tua mente. Non te lo concedo!» ora il dottore sembrava molto severo.
«Chi sono?» chiese Vincenzo. La stanza aveva preso a girare. «Quell’uomo si chiamava Francesco Serìo. Suo figlio aveva sedici anni e si chiamava Marco. Ricordati di loro!»
Un piccolo martello aveva cominciato a battere nella testa di Mello. La stanza prendeva sempre più velocità. Vide davanti ai suoi occhi il viso di quel bambino. Gridava e chiedeva aiuto. Poi vide l’uomo.
Era tutto così sfocato. Tutto così confuso.
«Guardami» disse Andreolli. «Quell’uomo era tuo padre. Lo ricordi? Era tuo padre. E Marco era tuo fratello. Lo so che fa male, ma non puoi dimenticarli! Non puoi!»
«No. Cosa dice?» gli rispose prontamente. «Ma cosa sta dicendo? Mio padre è morto di SLA. Io non avevo fratelli. Mio padre non può chiamarsi Francesco Serìo. Era Mello il cognome.»
«Chi sei?» gli chiese il dottore.
«Cosa? Come chi sono? Sono Vincenzo Mello. Ma sta impazzendo?»
«Chi sei tu?» Ripeté Andreolli. Forse erano le sue parole ad azionare il martelletto nella testa di Mello. Ogni volta che il medico parlava il martello picchiava più forte. «Vincenzo Mello è morto! Se n’è andato il due maggio scorso insieme a Carmine. Tu chi sei?»
Vincenzo rimase a bocca aperta. «Ma che dice? Sta impazzendo davvero? Io voglio andare via. Lei non sta bene. Io sono Vincenzo, forse ha sbagliato persona, dottore. Lei si sta confondendo. Sono stato ricoverato per un trauma cranico due settimane fa. Può controllare, ci deve essere la mia cartella clinica da qualche parte» disse facendo segno verso la porta.
«Un trauma cranico non guarisce in due settimane! Non saresti uscito dall’ospedale dopo pochi giorni. Hai detto che addirittura ti ha tolto un mese di memoria. Bene. Trauma cranico con amnesia e dopo qualche giorno ti ritrovi a casa bello e splendente? Oh, non ti sembra strano?»
Tum.
Tum.
Tum.
Forse non era un martello. Forse era il sangue che stava pulsando talmente forte da fargli sentire le vibrazioni nel cranio.
«Dottore, io sono Vincenzo Mello» disse senza quasi accorgersene. Non riusciva a pensare a ciò che avrebbe dovuto dire per difendersi. Perché ciò che stava dicendo il medico era ineccepibile. Purtroppo… lo sapeva!
«Tu sei Christian Serìo. Te lo ricordi il tuo nome? Christian Serìo!»
La stanza ora girava troppo forte. Si tenne ai braccioli della sedia. Chiuse gli occhi. Si sentiva debole.
“Pronto” aveva detto quella mattina al telefono.
“Christian, come stai?”
“Hai sbagliato numero” aveva risposto.
“Christian, riconosco la tua voce. Voglio sapere come va!”
“Ho detto che hai sbagliato numero, cazzo!” Poi aveva gettato il cellulare sul muro. Qualche pezzo di vetro era caduto sul pavimento.
Un altro flashback: è in casa. Scende dalle scale e prende uno zaino posato sul mobile. La porta del salotto è socchiusa. Lui entra. Dentro c’è il ragazzino sulla sedia a rotelle. Il padre è seduto vicino e gli da qualcosa da mangiare.
“Io vado papà, ci vediamo sabato” dice.
“Va bene Christian. ti chiamo stasera” risponde l’uomo.
“Ciao Marco” dice lui. Il ragazzino lo guarda ma non risponde. Fa sempre così ma va bene.
Provò ad aprire gli occhi ma li dovette richiudere. La luce del neon bianco sembrava troppo forte. Ci riprovò altre volte ma l’ambiente intorno si muoveva troppo veloce. Un uomo col camice bianco si alzò dalla sedia, si mise di fronte a lui e gli passò qualcosa sulla fronte. Qualcosa di freddo.
«Bevi questo» gli disse.
Tum.
Tum.
Un altro flashback: sta correndo. Non è una novità. Lo fa sempre. Sempre lo stesso sentiero.
Lo sterrato vicino casa è il suo percorso preferito.
Il sole gli sta tramontando alle spalle. È ora di tornare a casa.
Qualcuno lo chiama. Si gira. È una macchina nera.
Si avvicina. Guarda il ragazzo all’interno. Lo conosce bene. È il suo vicino di casa. È Vincenzo.
Ora è in casa. Suo fratello ha gridato. Si avvicina. Lo accarezza. Avverte una sofferenza perpetua nel vederlo così.
“Stai calmo” gli dice. Il ragazzino lo guarda ma non risponde.
“Ti voglio bene, lo sai?”
Ma lui resta ancora in silenzio. Sa però, che se potesse rispondere gli direbbe “anch’io”.
Poi si ritrova in salotto. Suo padre lo ha chiamato e gli ha detto di scendere. Lui obbedisce.
Suo padre è molto preoccupato.
“Devo confessarti una cosa” gli dice.
“Dimmi papà” gli risponde.
“Riguarda l’incidente di Vincenzo Mello”.
Qualcuno urla.
Tutto diventa buio.
“Io c’ero a pomeriggio vicino al ponte. Ho visto tutto” dice una voce. Sembra quella di suo padre ma non può esserne certo, perché a tratti cambia timbro e si confonde con quella di Carmine Serti. Poi una fievole luce illumina la stanza.
Nel suo salotto vi sono delle bare. Una bianca e una marrone. C’è tanta gente che piange. Lui prova un dolore troppo forte. Insopportabile. Desidera di morire. Vorrebbe trovarsi lui in una di quelle bare.
Tum.
Tum.
Il martelletto rallentò pian piano ma non si fermò.
Christian aprì gli occhi e vide il dottor Andreolli.
«Riprenditi. Solo tu puoi bloccare tutto!» gli disse. Ma la sua voce sembrava provenire da un'altra dimensione.
Fece un sorso di qualcosa. Forse era acqua ma aveva un sapore abbastanza strano.
«Non è possibile» mugugnò Christian.
«Come ti senti?» gli chiese il medico.
Lui si guardò intorno. «Gira tutto così velocemente. Lo fermi!»
«Si fermerà da solo» lo rassicurò Andreolli. Si posò con le natiche sul tavolo e mise le braccia conserte. «Chi sei?» gli chiese.
Ma lui non rispose. Il medico si ritrovò costretto a riformulare la domanda.
«Chi sei? Me lo sai dire?»
«Non lo so» rispose poi.
Andreolli scosse la testa. «Chi sono l’uomo e il ragazzino che dici di vedere?»
Christian ci pensò. «Mio padre» disse. «E Marco.»
«Bravissimo» rispose soddisfatto l’uomo in camice bianco.
«Cosa è successo a loro?» gli chiese il ragazzo.
Andreolli tornò serio e fece svanire il piccolo sollievo precedente. «Tuo padre lavorava qui. Era un infermiere. Ed era anche un mio carissimo amico.» Gli occhi di Andreolli divennero lucidi. «Tua madre, purtroppo, vi ha lasciati nel febbraio del novantanove. Il giorno della nascita di tuo fratello minore. Una… rottura dell’utero. L’emorragia è stata devastante.» Si passò indice e pollice sul mento e poi sul naso. «Le complicanze ci sono state anche per tuo fratello, purtroppo. Una paralisi cerebrale infantile gli ha tolto gran parte dell’attività motoria e sensitiva. Oltre ai danni cognitivi ovviamente. Le ricordi queste cose?»
Christian scrollò la testa. «Forse, dottore. A tratti mi sembrano ancora degli estranei.»
«Ricordi cosa è successo a loro? Perché non ci sono più?»
Christian alzò lo sguardo e fissò Andreolli negli occhi. «Sono morti nell’incidente?»
«No» rispose.
«Io…» disse Christian agitandosi di scatto. «Ho fatto l’incidente sul ponte.»
«Vincenzo Mello ha fatto l’incidente sul ponte. Ed è morto» rispose Andreolli.
«No, no. Io ho ancora la macchina. Ho la panda nera. Mia madre l’ha sistemata dopo l’incidente. Come potrei averla io se lei mi dice che non sono Vincenzo?»
«Tu non hai una panda nera» gli disse.
«Invece sì. Guardi.» Prese le chiavi dalla tasca e le guardò.
Incredulo, se le mise a pochi centimetri dagli occhi. «No» disse.
«Sì» controbatté Andreolli. «Hai un’Alfa Romeo… nera! Non una panda!»
Le chiavi che aveva in mano sembravano tutt’altro che quelle appartenenti a una macchina vecchio modello. Avevano un serpente e una croce disegnati e dei pulsanti per l’apertura elettronica dell’auto.
«Hai una Giulietta nera» riprese il medico, «tuo padre te l’ha comprata mesi fa per permetterti di muoverti in libertà quando sei a Brindisi. Perché tu, Christian, frequenti la facoltà di Infermieristica a Brindisi, lo ricordi questo?»
C’è un atrio molto grande. Delle sedie rivestite con cuscini verdi.
Tantissime sedie. Più di cento.
Intorno a lui ci sono tanti ragazzi della sua età. Alcuni più piccoli e due o tre sono più grandi. Tutti guardano un uomo che sta spiegando qualcosa facendo segno su un grande schermo.
«Sì» rispose Christian. «Lo ricordo!»
«Bene» disse soddisfatto Andreolli.
Poi un’altra scena irruppe nella mente di Christian:
Di fronte sono comparse delle scale. Ha paura delle scale. Gli mettono
insicurezza. Sembrano qualcosa di cattivo. Un oggetto che può far male
più di qualsiasi altra cosa.
Qualcuno urla.
Ci sono delle bare. Sono disposte in una stanza dell’ospedale.
Si avvicina e vede Marco, suo fratello. È steso e ha gli occhi semiaperti. Sembra un corpo vuoto. Non ha la minima idea di com’è fatta l’anima, ma può giurare su quella di sua madre che in quel corpo che ha di fronte, l’anima non c’è!
Christian comincia a urlare. Qualcuno lo prende alle spalle.
«M… mio padre» disse Christian. «Mio padre si è… suicidato.»
Andreolli annuì con un’espressione molto triste.
Christian cominciò a sbraitare. «No» mormorò. «Mio fratello. È caduto dalle scale.» Delle immagini gli passarono nella mente, sfocate e rapide. «Non è stata colpa di mio padre, vero?»
Andreolli si avvicinò e gli prese le braccia. «Calmati. Devi accettarlo!» Christian si agitò. Provò ad alzarsi dalla sedia. Un’ondata di dolore penetrò nelle sue ossa e appesantì il suo corpo di cento chili. Muoversi gli risultava molto difficile. Una valanga di sassi lo aveva travolto.
Si liberò dalla presa del dottore e diede una manata sulla scrivania. Gettò qualcosa per terra.
«Mi lasci stare!»
Qualcosa era tornato. Era qualcosa tenuto lontano troppo tempo -o almeno così sembrava, ma che in realtà era stato rimandato solo di pochi giorni-, era una sensazione che aveva avuto in passato, in un passato che reputava molto remoto. Come se quel dolore venisse da un’altra vita, lo aveva mandato via ma lui si era ripresentato. Più forte di prima!
Non puoi cancellarmi! Gli disse una vocina nella mente.
In effetti era così, e Christian lo sapeva. Certe cose non si cancellano. Aveva provato a eliminare tutto, ma quel tutto faceva parte di lui. Erano dei pezzi di vita troppo importanti per essere rimossi. Il dottor Andreolli lo strinse forte e lo mise a sedere.
Il martelletto aveva ricominciato a battere, la stanza si era rimessa a girare.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare. Voleva morire.
«Ehi. Christian. Riprenditi!» gli disse una voce sottile.
Aprì gli occhi e si sentì come quando sogni qualcosa di bello ma poi ti risvegli e comprendi che quel qualcosa non c’è. Si sentì subito triste.
Depresso.
«Vuoi che chiami qualcuno? Come ti senti?»
«Di…» biascicò Christian. «Distrutto.»
«Aspetta. Chiamo le infermiere» disse Andreolli. Fece un passo verso la porta ma Christian gli sfiorò il camice con la mano come per afferrarlo. «No dottore. Voglio stare con lei. Mi aiuti!»
Andreolli lo guardò e provò sconforto. Annuì e tornò a sedersi alla sua scrivania.
«Vuoi bere?»
«No» rispose il ragazzo. «Voglio parlare con lei. Ne ho bisogno!» «Certo» rispose il medico. «Come stai? Ti sembra tutto più chiaro e reale ora?» si grattò con l’indice un punto sulla fronte e fece una smorfia di insicurezza con le labbra.
Christian ci pensò. “Sì. Ma mi sento ancora in mezzo.»
«Cosa intendi? Cosa significa “in mezzo”?»
«In mezzo tra due vite. Quella mia e quella di Vincenzo. Provo ancora sensazioni che non sembrano appartenermi.»
Andreolli rimase sbalordito. La psichiatria non era di certo il suo campo ma lo appassionava molto. La neurologia era qualcosa di visibile agli occhi e di diagnosticabile tramite tecniche strumentali e test… ma la psichiatria no. Un cervello poteva essere sano nella struttura ma malato nella mente. Non vi sono esami del sangue che dimostrino la presenza di una patologia mentale. È la mente che si ammala. È il nostro essere, il nostro relazionarci. Tutto questo rende la psichiatria difficile ma gli da anche un tocco di fascino sublime.
«Come fai a sapere tutte queste cose su Vincenzo Mello? Era un tuo vicino di casa, okay, ma come facevi a sapere della vicenda con quei due ragazzi? Come facevi a conoscere il suo passato e il suo presente nei dettagli? Ti sei immedesimato in Vincenzo per giorni e giorni. Immagino che tu ne sappia molto sul suo conto.»
«Lui» disse Christian mentre una pellicola di scene veniva proiettata nella sua mente, «si confidava con me. Mi diceva tutto. Sapevo tutto di lui, tutte le sue paure, le sue voglie, i suoi conflitti interni. Io…» una lacrima gli scese sullo zigomo, «gli volevo molto bene!»
«Sono vere le cose che mi hai detto? Dell’incidente intendo.»
“Sì» rispose annuendo di continuo. «Io avevo saputo che gli altri gli stavano preparando un brutto scherzo. Gli avevo anche detto di fare attenzione ma lui non mi aveva voluto credere. Lui era… debole.»
«Mi dispiace. Hai subito tre perdite importanti in soli due giorni. Ecco perché ti è capitato tutto questo» gli disse Andreolli.
«Com’è possibile?» chiese Christian perplesso. «Come ho potuto credere che fossi Vincenzo? Perché mai una cosa del genere?»
«Sai» cominciò il medico. «Il tuo è un caso molto molto particolare. Io non sono uno psichiatra ma credo che si tratti di una specie di “fuga psicogena”. I traumi psicologici sono i più difficili da sopportare, così il cervello si difende, mette una barriera vigorosa contro ogni evento lesivo. Addirittura riesce a trasformare la realtà a suo piacimento.»
«Una fuga che?» chiese il ragazzo.
«Non ne sono sicuro, sono un neurologo, ma credo sia qualcosa di molto simile a una fuga psicogena. Si tratta di un allontanamento temporaneo dal proprio ambiente, caratterizzato da confusione, incapacità di ricordare il proprio passato e cambio di personalità. Si manifesta dopo un evento che va oltre il sopportabile, la mente si ritira dal trauma e prova a liberarsene. Ma ha una durata limitata, può andare avanti per ore o per mesi, ma poi cessa. È un disturbo molto raro e direi che il tuo è un caso ancora più raro. Perché tu non ti sei costruito una nuova identità, ma ti sei intrufolato in quella di un tuo amico. E qui sono io a chiederti: perché? Perché immedesimarti in un’altra vicenda terribile quando potevi invece costruirti un’identità e una vita più tranquille?»
Christian era molto confuso. «E che ne so? Come potrei saperlo?»
«Forse perché non sopportavi il fatto che la tua disgrazia non poteva essere vendicata?» chiese Andreolli. «Forse non ti andava di attribuire le colpe della morte di tuo fratello a tuo padre e non digerivi la scelta del suicidio di quest’ultimo? Forse te ne sei andato nella vita di Vincenzo perché nella sua storia era possibile una vendetta? Perché c’erano dei colpevoli sui quali scaricare rabbia e colpe?»
Christian avvertì un dolore atroce alla testa. Socchiuse gli occhi e increspò il viso. Cosa ho fatto? Si chiese.
«Christian» disse Andreolli. «Dove sono Vanessa e Federico? Cosa è successo?»
Il ragazzo spalancò gli occhi. «Come ho potuto fare questo, dottore?» Andreolli avvertì la paura come qualcosa di tangibile. «Stai tranquillo, si sistema tutto» disse mentre si alzava con cautela dalla sedia.
«Ho fatto un casino!» gridò Christian. «Mio padre mi aveva confessato tutto!» Cominciò a sbraitare. Si mise le mani sulla testa e urlò come un forsennato. Sembrava che una pinza gigante gli avesse afferrato il cranio e cercasse di schiacciarglielo. Si alzò di scatto e camminò di lato cercando un equilibrio simile ad un’utopia. Andò a sbattere contro un mobiletto e sentì un rumore di oggetti che si rompono.
Il dottor Andreolli aprì la porta e chiamò aiuto agli infermieri e ai colleghi.
Poi andò da Christian e provò a bloccarlo.
Christian si agitava e sembrava aver assunto una forza sovrumana. Spinse il medico e continuò a pressare con i polpastrelli sul cuoio capelluto. Doveva rompersi il cranio prima che lo avrebbe fatto quella grande pinza. Urtò contro qualcosa e poi cadde per terra. Agitò le gambe e le braccia come un uomo che cerca di salvarsi durante un annegamento. Un’ondata di tenebre lo avvolse in un circolo vorticoso e sembrava intenta a farlo fuori. Ma a lui andava bene.