Non prendeva una settimana di ferie da ormai troppo tempo. Voleva staccare un po’ dai periodi di stress. Aveva prenotato un viaggio oltreoceano con partenza da Roma insieme a una sua ex compagna di studi con la quale era rientrato in contatto grazie ai Social Network. Si sarebbero incontrati l’indomani nella capitale e avrebbero preso l’aereo in serata, ma Andreolli aveva deciso di partire il giorno prima: voleva passare da un posto. Ci aveva sempre pensato nei mesi precedenti ma le sei ore di strada che lo dividevano da quella meta non gli avevano mai permesso di farlo. Prima di farsi un viaggio a vuoto aveva cercato un contatto telefonico di quella struttura e si era presentato alla chiamata come un collega. Aveva detto alla signora al telefono che aveva bisogno di vedere un loro paziente. Lei era stata molto gentile e gli aveva chiesto di passare dal suo ufficio e insieme sarebbero andati dalla persona che cercava.
Andreolli parcheggiò davanti alla struttura a quattro piani con prospetto color giallo. Scese dall’auto e contemplò l’edificio. Era talmente nuovo che gli sembrava di sentire ancora l’odore di vernice fresca provenire dalle pareti. Vicino all’entrata principale vi erano due paletti in ferro a sostenere un cartello bianco con una scritta in stampatello color nero:
“Dipartimento Salute Mentale
R.E.M.S.
Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza sanitaria”.
Si avvicinò e disse all’uomo sulla porta il nome della dottoressa che cercava. Lui lo accompagnò davanti a un ufficio e bussò alla porta. «Dottoressa chiedono di lei!» disse.
Una signora sui quarant’anni con capelli biondi e occhi castani aprì la porta mostrando uno splendido sorriso. «Il dottor Andreolli?» gli chiese.
Lui aveva già il tesserino dell’ospedale nella mano sinistra in bella vista. «In carne e ossa» le rispose porgendole la mano.
«Sono la dottoressa Sara Melchiorri. Molto piacere» disse lei.
«Piacere mio. E la ringrazio per il favore.»
«Quale favore? Ma si figuri.» Lei sorrise ancora e Andreolli si fece rapire dalla sua bellezza.
«Vuole qualcosa? Un caffè?» gli chiese.
«No, la ringrazio. Faccia come se avessi accettato. Ho un po’ di cose da sbrigare. Ho una collega da incontrare e un aereo da prendere. Diciamo che sono qui giusto di sfuggita.»
«Bene. Viaggio di lavoro?»
«No. Per una volta no» rispose Andreolli con un’espressione di sollievo. «Questa volta è un viaggio di piacere.»
«Ci vuole ogni tanto» rispose la dottoressa. «Allora mi segua. Non le ruberò altro tempo.»
I due proseguirono attraversando un lungo corridoio. Lei gli chiese se aveva fatto un buon viaggio. Poi cacciò un grosso mazzo di chiavi e aprì una robusta porta. Fece entrare Andreolli e se la richiuse alle spalle.
«Come mai questa visita?» chiese Sara Melchiorri curiosa.
«Era un mio vecchio amico» le rispose. «O meglio, suo padre era un mio vecchio amico.»
«Che storia tremenda» disse lei. «Sono venuta a conoscenza di tutto. Mi ha fatto molta impressione. Cioè, chiunque nelle sue condizioni avrebbe ceduto.»
«Già» rispose Andreolli. «Come sta adesso?»
«A volte bene e a volte male. La maggior parte dei giorni sa chi è e ricorda tutto ciò che gli è successo. Sembra lucido, ci puoi parlare, ci puoi fare discorsi concreti e ti risponde a ogni domanda. Altri giorni invece si sveglia e pensa di essere ancora quell’altro ragazzo. Quel Vincenzo.»
«Sul serio?» chiese sorpreso Andreolli.
“Sì. Va incontro a dei cambi di identità una volta ogni sette o otto giorni circa e la cosa ci sorprende molto. Durano solo poche ore, dopodiché va incontro a una piccola crisi e ritorna lucido subito dopo.»
«Caspita!»
«Già» confermò lei. «Siamo arrivati» gli disse.
Aprì la porta e fece segno ad Andreolli di entrare. Lui tentennò.
«Vi lascio soli per qualche minuto. Stia tranquillo. È abbastanza lucido oggi» lo rassicurò aggiungendoci uno dei suoi splendidi sorrisi. Andreolli entrò e Sara richiuse la porta.
Davanti a lui vide un ragazzo voltato di spalle, seduto e con i gomiti posati sul tavolo. Guardava una finestra bianca oltre la quale si intravedevano delle sbarre. L’arredamento della stanza era di colore verde chiaro. Allo sbattere della porta, Christian si voltò curioso e vide la figura di Andreolli. «Ma… dottore?»
“Sì» rispose lui sorridendo. «Come va, Christian?»
Il ragazzo si alzò e gli andò incontro. Lo abbracciò e lo strinse forte. «Mi dispiace» gli disse. Ma Andreolli non capì a cosa si riferisse. Forse alla morte di Vanessa e Federico? Forse aveva ricordato la morte di suo fratello?
Christian prese per mano Andreolli e lo portò vicino al tavolo. Lo fece accomodare e si sedette di fronte.
«Allora?» gli chiese. «Come stai?»
«Va benino, forse. C’è solo un dolore di testa che accompagna sistematicamente tutte le mie giornate. A volte mi sento ancora confuso. A volte mi risveglio dopo una crisi» Christian sbuffò. «Solita vita» soggiunse con sarcasmo.
«Ti riprenderai. Datti tempo.»
«Me lo sto dando» rispose. «Lei come sta?»
«Se ti può consolare sto bene, ma anche io lotto ogni santo giorno con un leggero mal di testa.»
«Intende, da quando è successo tutto ciò?»
“Sì» rispose Andreolli. Ma sapeva benissimo che l’ansia e il mal di testa che aveva derivavano dal suo passato e si erano solo aggravati dopo la scelta di lasciar morire quei due ragazzi. Ogni notte, Vanessa e Federico gli chiedevano aiuto nei sogni. Per questo si svegliava più volte tremolante durante la notte.
«Bene. Benvenuto nel club delle cefalee» gli disse Christian.
«Bel club. Dannazione. Mi piace» rispose Andreolli sorridendo.
«Mi sento molto solo qui» disse il ragazzo rattristando l’espressione.
«Non sei solo. Fidati delle persone che si prendono cura di te. Cerca di star bene. Pensa solo a te stesso. Vedrai che tutto passerà.»
«Non proprio tutto, dottore.»
«Ho visto aggiustare cose dal tempo che nessun altro avrebbe aggiustato. È il migliore per queste cose.»
“Sì. Così dicono. Guardi invece come sono ridotto.»
«Io ti vedo molto meglio rispetto alla tua visita in ospedale di otto mesi fa. Decisamente meglio.»
«Il tempo aggiusta solo le cose semplici dottore. Le cose più complicate fa solo finta di aggiustarle. Le lucida da fuori. E poi si mette d’accordo con la persona interessata e le dice “facciamo finta che ho sistemato tutto anche questa volta, fatti vedere da tutti felice e fai pensar loro di essere ritornato splendente”. E la persona ci sta al patto. Fa comodo anche a lei. Così tutti la guarderanno e penseranno che è stata molto forte. Ma pochi capiranno cosa porta dentro. Dentro resterà per sempre rotta.»
Andreolli deglutì ma non parlò.
«Il tempo non è un aggiusta-tutto dottore» riprese Christian. «In alcuni casi è solo un ciarlatano.»
«Beh» disse Andreolli, «bella teoria.» Poi sorrise. «Ma ti assicuro che tornerai a viverti la tua vita, nonostante qualche crepa irreversibile.»
«Già va meglio» rispose Christian. «Delle brutte crepe irreversibili e un marchio sulla fronte.»
«No» rispose Andreolli leggermente infastidito. «Non dire questo. Chiunque avrebbe reagito in questo modo al posto tuo. Siamo umani, cavolo.»
«Dottore, sono abbastanza realista. Ho un marchio difficile da portar fuori. Difficile da sopportare. Chiunque avrebbe reagito così, ma quel chiunque avrebbe preso il mio marchio.»
Andreolli sospirò.
«Crede che andrò lo stesso in paradiso?» gli chiese Christian.
«Certo che sì. Non hai colpe per ciò che hai fatto. Non eri tu a farlo.»
Il ragazzo sembrò assorto. «Adoro il suono del pianoforte, lo sa?»
Andreolli corrugò le sopracciglia e cercò di capire il collegamento del discorso. «Perché me lo dici?» gli chiese.
Christian scosse la testa. «Lei come se lo immagina il paradiso?»
«Beh» rispose Andreolli impreparato, «la mia immagine è molto stereotipata. Una distesa di nuvole bianche e tanti angeli. Non ho una grande immaginazioni, forse» soggiunse sorridendo. «Tu invece?».
«Non si tratta di immaginazione. È difficile immaginarsi il paradiso, ma credo che ci sia almeno un pianoforte. Me lo immagino bianco come le nuvole. I tasti si muovono da soli e la musica raggiunge il cuore di tutti. Con la musica del pianoforte è più facile essere buoni.»
«Dovrebbe essere così» gli rispose convinto il medico. «Sarebbe fantastico.»
«Le tombe di mio padre e di mio fratello? Ci va mai? Sono in buone condizioni? Le cura qualcuno?» gli chiese Christian.
«Ci vado io ogni tanto. Sono in buone condizioni, sì. Le visiterai un giorno.»
«Ci andrò ogni santo giorno, dottore. Appena potrò.»
Ad Andreolli interessava sapere qualcos’altro.
«In città mi odiano? Mi vedono come un mostro?» chiese Christian.
«No. Stai tranquillo. Sono rimasti solo tutti sconvolti. Ma la verità sull’incidente di Vincenzo è uscita fuori. È stato anche ritrovato quel famoso video.»
Christian annuì e socchiuse gli occhi.
«Ehi» gli disse Andreolli. «Voglio chiederti una cosa.»
«Mi dica, dottore.»
«Il giorno in cui tuo padre e tuo fratello» fece una smorfia, «beh…»
“Sì. Continui, ho capito.»
«Bene. Quel giorno avevi accompagnato tuo padre all’ospedale? Eri lì anche tu?»
Christian cambiò espressione. Il suo viso si incupì. «Io» disse confuso, «quello è l’unico giorno che non ricordo, dottore. Non accompagnai mio padre, ma a volte mi vengono in mente delle scene e non so se siano frutto della mia immaginazione.»
«Del tipo?» chiese Andreolli.
«Del tipo che… ricordo di essermi svegliato, mio padre non c’era, era andato in ospedale. Per questo son sicuro di non averlo accompagnato. Ma ci sono altre scene sfocate, ricordo che… correvo. Correvo e tremavo. Ero in ospedale anch’io, forse. Poi un forte rumore interrompe le immagini. Per quanto mi sforzi non riesco a ricordare altro.» Christian portò la mano destra sulla fronte e si lamentò.
«Va bene. Non ha importanza.»
«Perché me lo chiede? Lei sa qualcosa?»
Andreolli lo fissò negli occhi per una cinquina di secondi. Scrollò le spalle. «No, assolutamente. Era giusto per chiedere.»
«Non le credo, dottore. Lei sa qualcosa.»
«No» rispose sorridendo. «Fidati di me. Devi fidarti, ricordi?»
«Mi fido» gli rispose Christian. Poi delle immagini gli attraversarono la mente e gli provocarono dolore: una corsa sulle scale, dei rumori. Poi gente che corre.
«Aaaaaa» gridò mettendosi le mani sulle orecchie, come se qualcosa gli stesse sfondando i timpani.
La dottoressa Melchiorri aprì la porta e andò verso Christian. «Calmati» gli disse.
Andreolli si alzò dalla sedia e si avvicinò nell’intento di dare una mano. Sara lo guardò e gli fece una smorfia tipica di chi vuole indicare a qualcun altro che sta sbagliando qualcosa. «Può bastare per oggi» gli disse abbozzando un sorriso.
«Se vuole ripassare qualche altra volta chiami pure» disse Sara mentre Andreolli risaliva nella propria auto. «E faccia buon viaggio.»
«La ringrazio ancora» le rispose.
Accese il motore e inserì il cellulare nel supporto attaccato al parabrezza. Poi si fermò e pensò. Decise di non affidarsi al navigatore e prese la strada che più gli ispirava fiducia. Si sarebbe fermato a mangiare nel primo ristorante che avrebbe trovato.
Girovagò nel paesino per una cinquina di minuti e ne approfittò per ammirare di passaggio qualche monumento. Poi adocchiò un’insegna: McDonald’s a 3 minuti. Sorrise e pensò a quante gliene avrebbero dette i suoi colleghi se avessero saputo della sua scelta. Ma non poteva farci niente.
Amava quei mega panini e quelle salse. Si sarebbe fatto un Mc Menù col 1955 e avrebbe preso quegli stuzzichini di pollo con la salsa barbecue.
Già avvertiva il sapore in bocca.
Il suo cellulare squillò. Accostò e lo sfilò dalla tasca destra. Vide che si trattava di un numero sconosciuto.
«Pronto?» disse.
«Pronto» rispose una voce soffocata e agghiacciante.
«Chi parla?» chiese Andreolli avvertendo i peli delle braccia alzarsi.
«Caro dottore, dovresti salvarle le persone… e non farle morire!»
«Ma chi diavolo sei?» ribatté lui.
«Sei entrato in quella casa lo scorso diciassette maggio. I due ragazzi erano ancora vivi. Perché non li hai salvati?»
«Chi sei?» urlò Andreolli sconvolto.
Uno strano bip indicò che la chiamata era terminata.
Andreolli avvertì una vampata di calore in tutto il corpo.
Si mise lo schermo del cellulare davanti agli occhi e lo fissò terrorizzato. Poi guardò in avanti e vide una signora che attraversava le strisce pedonali, ma la sua attenzione fu attratta da qualcos’altro. Scostò leggermente gli occhi e notò il suo cellulare agganciato al supporto sul parabrezza. Fece un’espressione smarrita e guardò nuovamente la sua mano destra. La teneva semiaperta come se trattenesse un oggetto, ma era vuota.
“Il mondo là fuori non è crudele.
Le storie più spaventose accadono
nelle nostre menti.”