Pitagora di Samo parte intorno ai quarant’anni dall’isola in cui è nato e si stabilisce, verso il 520 a.C., a Crotone. Impossibile dire se prima di approdare in Magna Grecia, cioè nell’Italia meridionale, abbia effettivamente viaggiato in Egitto, Mesopotamia e Fenicia, come le fonti antiche raccontano, ma non è da escludersi che in tali eventuali viaggi possa essere venuto a contatto vuoi con credenze religiose, vuoi con elementi di sapere astronomico-matematico che hanno poi influenzato la sua attività filosofica. In ogni caso, le coordinate principali della sua biografia sono segnate con nettezza dai due poli del mondo ionico, nel quale può già essere venuto a conoscenza dei progressi compiuti dal sapere scientifico dei filosofi di Mileto, e del mondo italico, caratterizzato da fermenti di religiosità che si manifestano anche, per esempio, nella diffusione di credenze e pratiche orfiche, cioè legate alla figura mitica del poeta Orfeo.
A Crotone, Pitagora raccoglie intorno a sé una comunità di discepoli che prefigura i caratteri di una scuola filosofica, quale sarà l’Accademia di Platone, dedita a un’attività squisitamente conoscitiva. La stessa comunità appare del resto organizzata come una scuola strutturata gerarchicamente secondo diversi gradi di accesso alla rivelazione della conoscenza dispensata dal maestro (definita di solito come conoscenza “esoterica”), nonché come una “setta” religiosa, con obbligo del silenzio sui più importanti insegnamenti, regolari incontri collettivi, nonché osservanza di determinati riti.
Come probabilmente le altre comunità che germinano presto in altri centri della Magna Grecia (come Metaponto e Taranto), la comunità pitagorica giunge anche a influenzare la politica della città in direzione presumibilmente aristocratica. È possibile che Pitagora giochi un ruolo personale nella guerra contro Sibari (conclusasi con la sconfitta e distruzione della città rivale nel 510 a.C. ca.): Sibari sarebbe stata percepita, infatti, come un luogo di empietà e lussuria.
In questa occasione i pitagorici appaiono piuttosto fare gli interessi di un regime oligarchico contro una Sibari democratica, e deve avere carattere popolare la sommossa suscitata contro di loro fra il VI e il V secolo a.C., dovuta alla scontentezza generale per la spartizione del territorio della città rivale.
Dopo la fuga e morte di Pitagora a Metaponto, intorno al 450 a.C., una nuova e più violenta sommossa causa l’incendio delle sedi delle comunità pitagoriche in tutta la Magna Grecia. L’attività dei pitagorici non si conclude del tutto, ma molti fuggono in Grecia, come Filolao di Crotone (che a Tebe sarà maestro di Simmia e Cebete, interlocutori di Socrate nel Fedone platonico), e l’esodo si può dire definitivo agli inizi del secolo successivo. Solo al matematico e musicologo Archita di Taranto, amico di Platone, riuscirà un esperimento isolato di governo “pitagorico”, opportunamente corretto, con ogni probabilità, in senso “democratico”.
Attorno a Pitagora, che presenta molti tratti in comune con altre figure di sapienti (sophói) visionari e maghi dell’età arcaica, si forma ben presto una ricca tradizione di aneddoti, volti a sottolinearne la statura divina.
Alcuni frammenti rimasti degli scritti, oggi perduti, dedicati da Aristotele al pitagorismo testimoniano che già nel IV secolo a.C. si raccontava che Pitagora, morso una volta da un serpente, l’aveva egli stesso morso e ucciso; sapeva prevedere il futuro; era capace di rendersi invisibile; era apparso in due luoghi nello stesso tempo; un giorno infine, levatosi in piedi in un teatro, aveva esibito ai presenti una coscia d’oro – sicuro segno di origine divina. La letteratura successiva non ha fatto che sviluppare questa tendenza, da cui sono germogliate fra l’altro un buon numero di Vite di Pitagora (ci sono rimaste quelle di Diogene Laerzio e dei filosofi neoplatonici Porfirio e Giamblico). Ma non c’è forse nella letteratura greca terreno più spinoso di questo. Infatti, la tendenza costante della scuola pitagorica ad attribuire ogni scoperta al suo fondatore ha condizionato pesantemente i resoconti antichi, rendendo arduo e talora impossibile distinguere il nucleo di idee originario dall’elaborazione dei successori, nonché l’apporto di ciascuno di questi. Qualche dato significativo si può tuttavia ricavare da alcuni incisivi riferimenti di autori dell’età presocratica (VI-V sec. a.C.), dettati da interesse ora polemico, ora ammirativo verso un rappresentante esemplare della sophía, il sapere arcaico.
Senofane di Colofone, un altro filosofo “emigrato” in Magna Grecia, gustosamente ritrae Pitagora mentre interviene in difesa di un animale battuto, mosso dall’idea che l’anima umana trasmigri attraverso diverse forme di vita. Probabilmente questa è l’attestazione più antica della presenza in Magna Grecia di una credenza nella “metempsicosi” (trasmigrazione dell’anima).
Le fonti per la conoscenza della filosofia dei cosiddetti presocratici sono molto scarse: i testi giunti sino a noi si riducono a frammenti di qualche riga, o a poche decine di versi nel caso di poemi come quelli di Parmenide o Empedocle. Per quei filosofi che, come Talete, non hanno lasciato testi scritti, la nostra unica fonte sono i resoconti delle loro dottrine a opera di commentatori o di pensatori anche molto posteriori e di diversa attendibilità.
La conoscenza dei presocratici è ancora oggi affidata, in buona parte, a ciò che ne scrisse Aristotele nel IV sec. a.C.: il primo libro (Alfa) della Metafisica, dedicato alla definizione di cosa sia da intendere per filosofia, contiene infatti quella che è stata definita la prima storia del pensiero occidentale. Aristotele vi passa in rassegna le opinioni dei predecessori, al fine di dimostrare come esse si presentino insufficienti a spiegare i principi e l’origine dei fenomeni. Aristotele rilegge dunque le teorie dei presocratici alla luce della propria dottrina delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale): ne risulta una lettura orientata da interessi teoretici e difficilmente paragonabile al concetto moderno di una storia critica della filosofia. Ciò non toglie che ad Aristotele e alla sua scuola (in particolare al suo successore Teofrasto, autore delle Opinioni dei Fisici) si debba la nascita della dossografia (da dóxa, cioè “opinioni”) come raccolta sistematica delle teorie dei primi filosofi. Ad Aristotele risale inoltre la tradizione secondo la quale la filosofia avrebbe avuto inizio con le riflessioni dei naturalisti ionici.
Le concezioni che si possono attribuire con maggiore sicurezza al fondatore del pitagorismo sono precisamente quelle che ruotano attorno all’idea dell’immortalità dell’anima e della sua trasmigrazione in diversi corpi mortali; a queste teorie sono connesse regole di astinenza alimentare e teorizzazione di uno stile di vita volto ad assicurare la purificazione morale del sapiente e il suo ritorno, oltre la morte, alla propria origine divina.
Una testimonianza molto vicina ai tempi di Pitagora invita a considerare la possibilità che il suo insegnamento si estendesse al di là di una problematica religiosa e morale. Eraclito di Efeso, infatti, si scaglia contro la vana “conoscenza di molte cose” e l’“indagine” empirica travestita da sapienza, che egli trova esibita tanto da Pitagora quanto da altri autori greci come Esiodo e Senofane.
ESERCIZIO
E2: Pitagora
Vediamo, quindi, quali sono, oltre la conoscenza della propria immortalità, le “molte cose” che compongono il sapere di Pitagora.
Fra le tante scoperte matematiche attribuite a Pitagora, a lui può risalire quella che gli intervalli musicali di quarta, quinta e ottava si possono esprimere nei termini di semplici rapporti fra i primi quattro numeri interi: 2:1 (ottava), 3:2 (quinta), 4:3 (quarta). Pitagora può esservi giunto attraverso una misurazione molto semplice dei suoni di un monocordo, cioè uno strumento formato da una lunga cassa armonica sovrastata da una corda, al di sotto della quale veniva fatto scorrere un archetto mobile per dividere la corda stessa e produrre così il suono desiderato.
LETTURE
Pitagora e l’aritmo-geometria
Lo spunto è fondamentale perché consente l’avvio di ricerche matematiche sulle proporzioni (aritmetica, geometria, armonica). Ma non solo: la varietà dei suoni musicali può essere ordinata in serie esprimibili numericamente e questa intuizione viene adibita a modello interpretativo di tutta la realtà.
Potrebbe risalire a Pitagora nel proprio nucleo sostanziale anche una dottrina di lunga e memorabile fortuna come quella dell’armonia delle sfere, ovvero dei suoni armonici prodotti dalla rotazione degli astri, che non udremmo solo perché sin dalla nascita vi abbiamo fatto l’abitudine.
Come del resto a Pitagora può essere fatta risalire la valorizzazione della decade come quintessenza del numero in quanto, risultando dalla somma dei primi quattro numeri interi (1 + 2 + 3 + 4 = 10), essa riunisce in sé le proprietà della scala musicale e, ancora, della realtà tutta.
TESTO
T4: Aristotele, Pitagora: i numeri e il cosmo
I pitagorici, come dimostra la rappresentazione della decade in forma triangolare (la tetraktýs), seguono l’uso arcaico di rappresentare i numeri concretamente, con sistemi di punti simili a quelli che ancora vediamo sui dadi o sulle tessere del domino: il che è segno che la qualità matematica non è concepita con un livello di astrazione maggiore di altre qualità, e in tal senso può essere identificata con le cose stesse. Su questa base, tuttavia, si sviluppa un complesso di ricerche importanti per la storia della matematica antica. Fu probabilmente Ippaso di Metaponto, uno dei pitagorici più antichi, ad esempio, a scoprire l’incommensurabilità fra lato e diagonale del quadrato (ovvero il fatto che il rapporto fra lato e diagonale non è esprimibile sotto forma di frazione, ovvero mediante un numero razionale) che presuppone la conoscenza del cosiddetto teorema di Pitagora (in realtà già noto, benché non dimostrato teoricamente, ai Babilonesi), e ciò determinerà una crisi nell’ambito della matematica greca, centrata fino ad allora su rapporti numerici razionali.
Tale dottrina secondo cui “tutte le cose sono numeri” trova d’altronde importanti sviluppi in una direzione che si può definire a buon diritto ontologica, in un lavoro che si svolge nella scuola lungo tutto il V secolo a.C. In particolare emergono diversi modelli teorici, nessuno dei quali è ascrivibile con sicurezza a questo o quel pitagorico. Interprete e storico d’eccezione, Aristotele parla già genericamente di “italici” o “pitagorici” o “cosiddetti pitagorici”, e riporta alcune varianti della dottrina dell’equivalenza posta dai pitagorici tra cose e numeri. Secondo Aristotele, le cose imitano i numeri (punto sul quale i pitagorici anticiperebbero addirittura Platone, per cui c’è rapporto di imitazione fra i sensibili e le idee); gli elementi dei numeri, pari e dispari, in quanto corrispondenti a limite e illimitato sono elementi delle cose; la realtà è strutturata in coppie di contrari, riuniti in una lista che comprende sia concetti matematici simbolicamente connotati (limite e illimitato, pari e dispari), sia coppie oppositive di più evidente matrice simbolica (luce e tenebre, buono e cattivo).
Aristotele non ignora le “derive” della concezione pitagorica, che punta su associazioni fortemente simboliche di determinati numeri con concetti di vario tipo (per esempio del 4 con la giustizia, del 7 con il kairós o “momento opportuno”); né gli sfuggono i limiti impliciti in questa impostazione, come emerge nel lungo esame che egli dedica al sistema astronomico di Filolao, chiaramente costruito secondo un principio di armonia. Filolao fa ruotare i corpi celesti attorno a un fuoco centrale chiamato “focolare” dell’universo: procedendo dal centro verso l’esterno si dispongono l’Antiterra, la Terra, la Luna, il Sole, i cinque pianeti (quelli allora noti erano Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno) e il cielo delle stelle fisse (considerate immobili in quanto, a causa della distanza dalla Terra, sembravano mantenere la stessa posizione in cielo l’una rispetto all’altra). Né l’Antiterra né il fuoco centrale sono a noi visibili, perché abitiamo sulla faccia della Terra sempre rivolta verso l’esterno; ed è il movimento di rivoluzione quotidiana della Terra attorno al fuoco centrale che produce, col variare della sua posizione rispetto al Sole, l’alternanza di giorno e notte. Questo sistema ha colpito antichi e moderni per la sua eccentricità rispetto al paradigma geocentrico prevalente nell’antichità. Ma lo spostamento della terra dal centro non è dovuto, probabilmente, a una portentosa intuizione, né d’altro canto produce una spiegazione più soddisfacente del moto dei pianeti e del cielo delle stelle fisse. Secondo quanto emerge proprio da Aristotele, la scelta di Filolao sembra essere stata condizionata, piuttosto, da esigenze di coerenza sistematica: l’introduzione dell’Antiterra di fatto eleva i corpi celesti al numero di dieci, “poiché il dieci sembra che sia numero perfetto, e che comprenda in sé tutta la natura dei numeri”, dunque della realtà tutta. La costruzione del cosmo appare pertanto orientata dal presupposto di un’armonia cosmica, che permette di inquadrare l’osservazione dei fenomeni. È carica di significato simbolico, in tal senso, anche la posizione di un “focolare” divino al centro del cosmo, favorita probabilmente dall’analogia col ruolo primario del calore nella generazione degli esseri viventi.
LETTURE
I culti misterici
I culti misterici sono tra i più importanti riti di iniziazione della Grecia antica. In senso stretto, i Mystéria indicano la festività che ha luogo a Eleusi in onore della dea Demetra e della figlia Kore. Già a partire dal V secolo a.C., tuttavia, i Greci utilizzano il termine “misteri” per riferirsi anche ad altri culti che considerano appartenenti alla stessa tipologia, per esempio quelli della Madre degli dèi e di Dioniso. Chi partecipa a tali riti si propone di entrare a far parte del gruppo chiuso degli iniziati a una certa divinità per godere di un profondo beneficio in vita e/o nell’aldilà.
Il termine greco mystéria indica l’assoluta segretezza di tali pratiche rituali: esso alluderebbe al fatto che chi partecipa a tali riti deve appunto chiudere la bocca (myéin), cioè non rivelare ciò che ha visto e che ha fatto. Le cerimonie di iniziazione pertanto vengono spesso officiate di notte, in spazi chiusi, o fuori città, in ogni caso nascoste alla vista dei più. I Greci si riferiscono spesso al contenuto di tali cerimonie con i termini apórrheta o árrheta, che significano rispettivamente “ciò di cui è proibito parlare” e “ciò di cui non si può parlare”.
In senso stretto dunque il termine mystéria designa la festa che si tiene tra settembre e ottobre nella città di Eleusi, presso Atene, in onore di Demetra e di sua figlia Persefone, qui chiamata Kore (la “fanciulla”). Si ritiene che i riti di Eleusi siano stati fondati dalla stessa Demetra per donare agli uomini una speranza di vita nell’aldilà. Ricchezza agricola e prospettiva di una vita felice nell’aldilà sono le aspettative con cui ci si inizia ai riti delle due dee.
Secondo le testimonianze antiche, l’iniziazione a Eleusi consiste in un’intensa esperienza emotiva. Durante il lungo e complesso percorso dei misteri, l’iniziando è infatti chiamato a ripercorrere in più punti le orme delle due dee, dapprima il lutto e la tristezza di Demetra per il rapimento della figlia da parte di Ade, e poi la gioia per il suo ritrovamento. Nella prima fase dei riti gli aspiranti iniziati sono riuniti nell’agorà e invitati a purificarsi con un bagno nel mare insieme a un maialino che poi sacrificano e mangiano. Da questo momento l’iniziando è tenuto a digiunare, per poi intraprendere insieme agli altri una lunga marcia in direzione di Eleusi. Arrivati al santuario, il digiuno è rotto dall’ingestione del kykéon, una bevanda a base d’orzo e menta, la stessa con cui Demetra avrebbe posto fine al suo lutto. La sera stessa si svolge il rito centrale dei misteri, l’epoptéia (“visione”, “contemplazione”). Un fitto silenzio avvolge ciò che accade a questo punto. Le fonti antiche sono comunque concordi su tre punti: innanzitutto, l’iniziando affrontava un passaggio dall’oscurità alla luce, che probabilmente riproduceva la ricerca di Kore da parte della madre e il suo ritrovamento, per concludersi con la
visione degli oggetti sacri contenuti in una cesta, probabilmente una spiga, annuncio di una nascita dopo l’esperienza della morte e del lutto.
Mentre i misteri di Eleusi hanno sempre mantenuto i caratteri di un prestigioso culto locale, quelli in onore di Dioniso appaiono geograficamente diffusi e estremamente variegati. Una delle forme di celebrazione più caratteristiche del dio è il culto estatico che gli viene tributato in particolare (ma non esclusivamente) dalle donne. Coloro che vi prendono parte si abbandonano alla mania, una forma di profonda alterazione psichica, ritenuta il risultato della possessione da parte del dio: per questo motivo le partecipanti ai riti dionisiaci sono chiamate menadi (mainádes).
Un altro termine usuale per designare le donne in preda al potere del dio è quello di bákchai (“baccanti”), una denominazione strettamente legata a uno degli epiteti di Dioniso, quello di Bákchos il cui significato resta oscuro. La mania dionisiaca spinge le donne a lasciare la città per recarsi al di fuori dello spazio urbano, specialmente sulle montagne, dove praticano frenetiche danze rituali fino a raggiungere uno stato di trance allucinatoria (rapimento), descritta come un momento di gioia estrema. Tale stato di estasi culminerebbe nel rito dello sparagmós, cioè nell’uccisione per “smembramento” di un giovane animale, e nella consumazione delle sue carni crude. Il menadismo è praticato da gruppi femminili chiamati “tiasi” nel corso di specifiche feste in onore di Dioniso.
Tra la molteplicità di culti dionisiaci dell’antichità sicuramente occupa un posto di rilievo l’orfismo, dal nome del suo mitico fondatore, Orfeo, figlio del dio Apollo. Orfeo per gli antichi è innanzitutto un poeta e musicista, ma anche colui che ha organizzato sistematicamente il culto di Dioniso. I poemi attribuiti a Orfeo si fondano su una versione particolare del mito di Dioniso: il dio, figlio di Persefone e Zeus, sarebbe stato ucciso ancora bambino dai Titani, smembrato e mangiato. Zeus avrebbe allora fulminato i Titani e dalle loro ceneri, mescolate tuttavia ai resti divini, sarebbe nata l’umanità, macchiata sin dalle sue origini da questo omicidio. In questo quadro, praticare i riti in onore di Dioniso significa in qualche modo “riscattare” la colpa degli uomini nei confronti della dea Persefone. Nelle pratiche cultuali orfiche il tema della purificazione riveste dunque un’importanza centrale insieme alla dottrina della metempsicosi, cioè la credenza che l’anima si reincarni in nuovi corpi dopo la morte: proprio fondandosi su tale dottrina, gli orfici si astenevano dal consumo di carne e di uova, ma anche di fave e di vino, in modo analogo ai seguaci di Pitagora. Fine primario degli iniziati è appunto quello di uscire dal ciclo delle reincarnazioni per godere di una sorte gioiosa nell’aldilà, presso gli dèi.
L’impostazione della cosmologia di Filolao rientra in una tendenza costante del pensiero pitagorico, che è ancora Aristotele a rilevare nel primo libro della Metafisica: in generale i pitagorici si servono di principi e di elementi assai lontani da quelli dei naturalisti, in quanto non li ricercano nelle cose sensibili, come la maggior parte dei predecessori di Aristotele, ma nei numeri. Tale concezione ha il pregio per Aristotele di identificare una causa “formale” del divenire, segnando un passo avanti nella ricerca delle cause rispetto a quanti, dagli ionici ad Anassagora, a Empedocle, sono andati alla ricerca di principi materiali. Per Aristotele addirittura si tratta di un passo per certi versi più significativo di quello che sarà compiuto da Platone con le idee, perché i numeri non sono separati, come saranno le idee platoniche, dalla realtà naturale.
La “teoria del numero” non manca, è vero, di rispondere all’interesse per i principi della realtà naturale che domina il pensiero dei presocratici fin dai suoi inizi, ma se ne distacca nettamente nel momento in cui, in tutte le sue versioni, i numeri sono investiti di un ruolo ideale e simbolico: un punto sul quale i pitagorici, nelle diverse fasi della propria storia, hanno tenuto viva la lezione dell’antico maestro Pitagora.
LETTURE
Anassagora e Democrito
LETTURE
Eraclito ed Empedocle