3. Parmenide e Zenone

di Maddalena Bonelli

3.1 Parmenide di Elea

Contemporanei e concittadini

Nel dialogo ParmenidePlatone racconta di un viaggio di Parmenide e Zenone (entrambi originari di Elea) ad Atene, durante le feste Panatenee, in cui Zenone avrebbe letto davanti a un pubblico che comprendeva anche Socrate il suo libro sulle argomentazioni contro la molteplicità. Parmenide aveva circa 65 anni, Zenone 40. All’epoca, aggiunge Platone, Socrate era ancora molto giovane. Se le informazioni contenute nel dialogo sono vere, possiamo collocare la nascita di Parmenide intorno al 515 a.C., e quella di Zenone intorno al 490 a.C.

Le “novità” del pensiero di Parmenide di Elea

L’interpretazione tradizionale vuole che Parmenide di Elea sia il primo tra i pensatori greci ad aver svalutato il contributo delle sensazioni come veicolo di conoscenza, giudicandole totalmente inaffidabili, a vantaggio della ragione. Egli sarebbe anche il primo ad affermare l’esistenza di una dimensione del mondo reale oltre quella percepibile con i sensi; una realtà eterna, immutabile e incorruttibile, raggiungibile solo con il lógos.

Il poema Sulla natura

Parmenide ha scritto un poema in esametri Sulla natura, di cui ci restano diversi frammenti. Il poema si divide in tre parti: (1) un proemio, che presenta il viaggio di Parmenide in termini allegorici (con le immagini di cavalle che lo portano o di fanciulle che indicano la via), eroici (il viaggio di Parmenide è stato paragonato a quello di Odisseo) e iniziatici, poichè alla fine del viaggio Parmenide arriva al cospetto della dea, che gli rivela tutto ciò che deve sapere; (2) una parte “metafisica”, altrimenti detta “la via dell’essere”, che corrisponde alla dottrina filosofica di Parmenide; (3) una parte “fisica”, in cui Parmenide presenta quella che chiama la via “dell’opinione dei mortali” a causa del suo fondarsi sulla conoscenza sensibile, che è inaffidabile in relazione al fine ultimo della conoscenza, cioè la verità dell’essere, ma ha una sua plausibilità se perseguita con rigore.

TESTO

T6: Parmenide, Il proemio del poema sulla natura

3.2 La via del non essere

ESERCIZIO

E3: Parmenide

Nel primo libro del poema, quindi, la dea rivela a Parmenide quali sono le sole vie della ricerca: “la prima via [che enuncia] che è, e che non può non essere / è il cammino della persuasione, infatti segue la verità; / l’altra [che enuncia] che non è, e che è necessario che non sia / e io ti dico che questo sentiero è del tutto inconoscibile / infatti non potresti conoscere ciò che non è (perché ciò non è fattibile) / né esprimerlo”.

I problemi di comprensione sono molti: (1) innanzitutto, quali sono i soggetti di “è” e di “non è”? (2) Qual è il senso di “è” e conseguentemente di “non è”, visto che, come è noto, “essere” è un termine ambiguo che ha più significati? (3) Che via è mai quella che Parmenide dice “non è”? Perché essa si affianca a quella dell’essere, secondo la dea, anche se è di fatto impercorribile, data l’impensabilità e l’indicibilità del non essere?

Problemi interpretativi

Il soggetto inespresso della via dell’essere sarebbe quindi “l’ente”, e il soggetto inespresso della via del non essere sarebbe “il non ente”. In questo modo, Parmenide affermerebbe: 1) l’ente è, e non può non essere; 2) il non ente non è, ed è necessario che non sia. Ma qual è il senso da dare a queste due vie? Secondo la spiegazione più plausibile, che darebbe al verbo “essere” valore esistenziale, la prima via afferma che ciò che esiste, esiste e non può non esistere (il suo non essere è impossibile), mentre ciò che non esiste, non esiste necessariamente (il suo non essere è necessario).

Sottolineando poi che sta parlando di vie di ricerca, cioè di percorsi che non riguardano l’esperienza quotidiana, potremmo dire che per Parmenide la ricerca è possibile solo per oggetti che esistono e che esistono necessariamente (si pensi ad esempio agli oggetti matematici oppure ai concetti logici), mentre è impossibile per le cose che non esistono, a causa della loro impensabilità e indicibilità (si pensi alle chimere, o ai cavalli alati, o al quadrato rotondo).

Il non essere e la via dei mortali

In questa condanna verrebbe coinvolta anche la via dell’opinione dei mortali, che sostengono che le cose ora esistono (per esempio, oggi) e ora non esistono (per esempio, ieri): si pensi ad alcuni insetti, presenti in primavera e estate, ma non in autunno e in inverno. Verrebbero così relegati nel non essere, e quindi nell’impossibilità di un’indagine scientifica, sia gli oggetti inesistenti sia gli oggetti sottoposti ai mutamenti propri del mondo sensibile.

3.3 La via dell’essere

Posto che Parmenide propone una ricerca scientifica su ciò che esiste in modo necessario ed eterno, si pone la questione di come identificare questo o questi esistenti. Nel frammento VIII del suo poema, Parmenide, con metodo deduttivo, dimostra che l’esistente, per il fatto di esistere, possiede alcune proprietà. Nei primi quattro versi, si legge che “solo ancora resta il racconto della via: / che è. Su questa [via] vi sono segni / assai numerosi, che l’ente è ingenerato e imperituro, / intero di un solo genere e immobile e non privo di fine”. Qui Parmenide dichiara l’appartenenza di determinate proprietà all’esistente in quanto esistente. Tale appartenenza verrà dimostrata attraverso una serie di deduzioni che delineano i caratteri dell’essere: ingenerato, imperituro, intero, cioè un tutto unificato e continuo, di un solo genere e immobile, finito.

Poeta e filosofo: Senofane di Colofone

Senofane è una figura originale di poeta-filosofo. Nasce a Colofone, nella Ionia, attorno al 570 a.C. Viaggia a lungo, soprattutto in Magna Grecia, e muore, secondo le testimonianze, oltre i 90 anni. Secondo le fonti sarebbe autore di molte composizioni poetiche e satiriche, che recitava come rapsodo (cantore itinerante) e che sono andate perdute. Gli si attribuisce anche un trattato Sulla natura, del quale sono giunti a noi solo alcuni frammenti e che presenta riflessioni di argomento teologico e fisico.

La rottura con la tradizione e con l’antropomorfismo degli dèi

TESTO

T5: Senofane, La ragione e il divino

Il tema centrale del pensiero di Senofane è la critica a quelle che egli chiama “invenzioni degli antichi”, cioè le rappresentazioni della divinità presenti nella tradizione greca, in particolare nei poemi di Omero ed Esiodo. La verità, che questi attribuiscono alle Muse ispiratrici, è rivendicata da Senofane per le proprie parole, che sono un atto d’accusa contro l’immagine antropomorfica degli dèi, cioè l’attribuzione ad essi di caratteristiche fisiche e morali che sono proprie dell’uomo. Gli dèi di Omero rubano, commettono adulterio, mentono e ingannano. La natura delle divinità, come sono intese nella religione tradizionale, rivela come esse non siano altro che la proiezione di caratteristiche umane; tanto che, sostiene Senofane, se gli animali potessero rappresentare gli dèi li farebbero a loro immagine e somiglianza. Nello stesso senso può essere interpretato il frammento 16: “gli Etiopi dicono che i loro dèi sono camusi e neri e i Traci dicono che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi”.

La critica alla morale aristocratica

Altro tema di Senofane è la critica alla morale agonistica e guerriera, anch’essa retaggio della tradizione come nel caso dell’antropomorfismo degli dèi. Alla forza di un atleta o di un guerriero è preferibile la sapienza di un uomo saggio che sappia fare il bene della propria comunità, garantendole la prosperità politica ed economica fondata su leggi giuste (eunomía).

Il dio di Senofane

Accanto alle critiche verso le concezioni tradizionali del divino, Senofane propone una propria “teologia”: egli parla di un dio “unico, sommo nel mondo divino e umano, dissimile dall’uomo in forma e in pensiero”, che “tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ascolta”. Esso, più che con una divinità personale, coincide con la totalità dell’universo, e in questo ricorda l’essere di Parmenide; non a caso, una tradizione oggi contestata considerava il filosofo di Elea come allievo di Senofane.

Il trattato di Senofane si occupava anche di cosmologia e di filosofia della natura. L’acqua e la terra erano considerati gli elementi costitutivi di ogni realtà vivente. Il frammento 33 sull’arcobaleno, divinizzato nel pántheon greco come Iride, è un’altra testimonianza dell’attitudine di Senofane a sottoporre le rappresentazioni del divino all’analisi del lógos e dell’osservazione empirica: Iride, infatti, non è altro che un fenomeno fisico, una “nube cupa, rossa e verde a vedersi”.

Una nuova interpretazione

TESTO

T7: Parmenide, Gli attributi dell’essere

La quasi unanimità degli studiosi, a partire dall’interpretazione di Aristotele e fino a oggi, ha ritenuto Parmenide un “monista”; egli cioè penserebbe all’esistenza di “una” cosa che esiste, e che quindi l’essere sia unico e non molteplice come appare ai sensi. Inoltre, alcuni passi del frammento VIII sembrano dare a questo ente unico una connotazione spaziale, e quindi prospettare un ente fisico, da identificare con il tutto, con la realtà o con la natura. Si pensi per esempio ai versi 22-25, in cui non si capisce se Parmenide pensi a un tutto spaziale o temporale; alla nozione di “limite” nei versi 26-31, che ancora farebbe pensare a un confine spaziale; e al celebre verso “simile a massa di ben rotonda sfera” (vv 42-43).

Contro questa interpretazione tradizionale, letture più recenti gettano una nuova luce sulla filosofia parmenidea: l’essere andrebbe inteso come una forma che aspetta di essere “riempita” dai predicati indicati nel frammento VIII, a cominciare da quello dell’esistenza. Nel caso si accolga questa indicazione, si può proficuamente ampliare l’orizzonte della ricerca di Parmenide agli enti oggetto di ricerca scientifica, e non limitarsi a un singolo ente che contraddice clamorosamente l’esperienza sensibile (in quanto ingenerabile, incorruttibile ed eterno). In questo modo, anche il monismo attribuito da più parti (e soprattutto da Aristotele) a Parmenide risulterebbe quantomeno discutibile.

In conclusione, si possono individuare in Parmenide sia la proposta di una ricerca su di un ente che si sottrae alle caratteristiche di cambiamento, nascita e morte (ma che potrebbe avere delle caratteristiche fisiche), sia una ricerca su più enti, come quelli matematici ad esempio, anch’essi caratterizzati da attributi non sensibili (e in cui le caratteristiche apparentemente fisiche descritte nel frammento VIII possono di fatto essere lette come semplici metafore poetiche).

3.4 Zenone di Elea

Allievo di Parmenide, Zenone avrebbe partecipato a una congiura per rovesciare il tiranno della città. Catturato e portato al cospetto del tiranno, forse messo sotto tortura per rivelare il nome degli altri congiurati, egli si sarebbe troncato la lingua e l’avrebbe sputata in faccia al tiranno.

Esercizio del metodo dicotomico

Proprio il resoconto del Parmenide induce a pensare che gli argomenti presentati da Zenone nel libro fossero contro il molteplice e presentassero un andamento dicotomico, ovvero per coppie di concetti opposti. Secondo la spiegazione data da Socrate, dopo aver ascoltato questi argomenti, Zenone si presenterebbe come difensore della tesi parmenidea che afferma che il tutto è Uno, ma difenderebbe questa tesi provando, con una serie di brillanti argomenti, la negazione della tesi opposta, ossia che il molteplice non esiste.

L’aspetto ancor più interessante del dialogo platonico è, però, che Zenone corregge Socrate, sostenendo che i suoi argomenti contro il molteplice non dimostrano la tesi parmenidea dell’Uno, piuttosto: “questo scritto […] vuole dimostrare questo: che la tesi della molteplicità delle cose porta a conseguenze ancora più ridicole di quelle a cui porta la tesi dell’Uno” (Platone, Parmenide, 128C-D). Zenone, quindi, non sarebbe sostenitore di una tesi filosofica, piuttosto utilizzerebbe il metodo dicotomico per mostrare le conseguenze assurde di una tesi e anche della tesi opposta. Per questo, forse, nella sua opera perduta Sofista, Aristotele sostenne che Zenone fu l’inventore della dialettica, ovvero di una vera e propria tecnica del dialogo.

Il “ragionamento per assurdo”

Aristotele riporta quattro argomenti di Zenone sul movimento, che si presentano nella forma della reductio ad impossibile, cioè del “ragionamento per assurdo” o per “paradossi” (da parà, “contro”, e dóxa, “opinione comune”). Il filosofo tardoantico Proclo dichiara nel suo commento al Parmenide che le argomentazioni di Zenone sarebbero state 40. Noi, a partire dalle fonti, possiamo individuarne sei, due riportate dal filosofo neoplatonico Simplicio, citate nelle parole stesse di Zenone, e quattro riportate appunto da Aristotele in forma molto condensata.

3.5 L’argomento della “dicotomia”

TESTO

T12: Platone, Zenone: ragionare per paradossi

Nel suo commento alla Fisica, Simplicio riporta due paradossi, citando direttamente Zenone. Nel più articolato e interessante, chiamato “della dicotomia”, Zenone vuole dimostrare che se esistono molte cose, allora ognuna di esse è piccola e grande al tempo stesso: tanto piccola da non avere grandezza alcuna, tanto grande da essere infinita. Nel primo caso, nulla esisterebbe (e quindi neppure la molteplicità), poiché, secondo Zenone, ciò che non ha grandezza né spessore né massa non esiste. Poniamo allora che, se esiste una pluralità di cose, ciascuna debba avere grandezza e spessore. In questo caso, ci dice Zenone, ogni cosa sarà infinitamente grande.

Tale considerazione è la conclusione di un ragionamento che Zenone esprime in modo molto succinto e che va inteso nella maniera seguente: (1) qualunque corpo (cioè tutto ciò che ha grandezza) comporta un numero illimitato di parti, a loro volta corpi, cioè dotati di grandezza e spessore; (2) la somma di un numero illimitato di parti di un corpo è essa stessa infinita; (3) la grandezza di un corpo è infinita. Siccome anche questa conseguenza, come quella della prima parte della dicotomia, è assurda, ne consegue che la molteplicità non esiste. Gli studiosi che hanno cercato di falsificare quest’ultimo argomento attaccano la premessa (2), affermando che la grandezza che Zenone sta qui descrivendo rientra nelle cosiddette serie convergenti (si pensi al frazionamento dell’unità: 1, 1/2, 1/4, 1/8 ecc.), cioè quelle serie infinite che hanno come risultato sempre una quantità finita. Di fatto, nulla nel testo di Zenone ci autorizza ad attribuirgli questo errore, ed è possibile pensare a un corpo costituito da una serie di parti non progressivamente frazionate.

Achille e la tartaruga: i paradossi dell'infinito

Tra i più di quaranta paradossi attribuiti a Zenone di Elea, quello contro il movimento e che vede protagonisti Achille e la tartaruga è senza dubbio il più famoso. Così lo riporta Aristotele: “L’argomento detto d’Achille […] sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto nella corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi insegue giunga prima al punto da cui è partito chi fugge, cosicché il più lento si troverà necessariamente un po’ più avanti del più veloce. La conseguenza di quest’argomento è che il più lento non viene raggiunto” (Fisica, VI, 9).

In altri termini, si immagini che, in una gara di velocità tra un animale tradizionalmente lento (la tradizione successiva sceglierà la tartaruga) e il “piè veloce” Achille, al primo sia dato un vantaggio anche minimo. La conclusione del ragionamento di Zenone è che il secondo non potrà mai colmare la distanza che li separa. Infatti, quando Achille sarà riuscito a raggiungere la posizione iniziale T0 della tartaruga, questa sarà avanzata in T1; nel tempo in cui il piè veloce raggiungerà la posizione T1, la tartaruga sarà passata nella posizione T2, e poi in T3, T4, T5 etc. in una progressione infinita. Per quanto la distanza tra i due sia minima e si riduca progressivamente, la tartaruga avrà sempre un piccolo vantaggio su Achille. In tal modo Zenone avrebbe inteso dimostrare i problemi conseguenti alla divisibilità infinita dello spazio e in particolare l’impossibilità del movimento, a difesa delle teorie del suo maestro Parmenide.

Celebre l’obiezione a Zenone che sarà avanzata da Aristotele, che distingue tra infinito potenziale e infinito in atto. Achille dovrebbe certamente percorrere prima una metà dello spazio, e prima dovrebbe percorrerne un quarto, e prima ancora un ottavo, e così in infinitum; ma per quanto questo processo di divisione continui all’infinito, il suo risultato non sarà mai maggiore di uno, come del resto accade coi numeri irrazionali, per cui 3,14, per quanto si arrivi ad analizzarlo, non sarà mai 4. Se questo ragionamento lo si applica alla distanza tra Achille e la tartaruga, il processo potenziale di divisione potrebbe essere infinito almeno nella misura in cui si possano sempre postulare segmenti spaziali sempre più piccoli; ma ciò non toglie che Achille possa in atto percorrere questo spazio in un solo passo. Achille percorrerà una sua unità di lunghezza in una sua unità di tempo.

3.6 Gli argomenti contro il movimento

Dei quattro argomenti contro il movimento menzionati da Aristotele (Fisica Z 9) riportiamo i due più famosi: quello detto “dello stadio” (di cui il famoso “Achille e la tartaruga” costituisce una versione più spettacolare) e quello “della freccia” (che pone gli stessi problemi concettuali del quarto, che potremmo descrivere come “l’argomento dei corpi allineati in movimento”).

I paradossi sul movimento

Secondo il resoconto aristotelico del primo argomento, il movimento non esiste perché ciò che si muove deve giungere a metà del percorso prima di arrivare alla fine, secondo un ragionamento così schematizzabile:

(1) per giungere alla fine del suo percorso, un corridore dovrà compiere, una dopo l’altra, un’infinità di compiti distinti (dovrà cioè percorrere una serie infinita di punti secondo la sequenza 1/2, 1/4, 1/8 ecc.);

(2) è impossibile compiere, uno dopo l’altro, un’infinità di compiti distinti;

(3) il corridore non può arrivare alla fine del percorso, e quindi nulla si muove. Nella versione resa celebre dall’immagine di Achille “piè veloce” e della tartaruga, il primo non potrà mai raggiungere la seconda.

Per quel che riguarda l’argomento della freccia, il resoconto di Aristotele, sempre molto succinto, afferma che la freccia in movimento è in riposo, e che questa conclusione deriva dall’ipotesi secondo cui il tempo è composto di “ora”, cioè di istanti presenti. Anche qui risulta necessario articolare l’argomento per renderlo comprensibile e valido:

(1) una cosa che occupa una porzione di spazio corrispondente alla sua misura è in riposo;

(2) nell’istante presente, ciò che è in movimento occupa una porzione di spazio esattamente della sua misura;

(3) quindi: ciò che è in movimento è in riposo;

(4) ora, ciò che è in movimento si muove sempre nell’istante presente;

(5) quindi, ciò che è in movimento è sempre in riposo. Il valore di questi argomenti è quello di mostrare le difficoltà logiche di concetti di cui facciamo un uso a-problematico e di evidenziare il carattere dimostrativo di strumenti come i paradossi, capaci di condurre il ragionamento ai propri limiti e quindi utili per indagarne i meccanismi e le risorse.