I sofisti e Socrate

Socrate è per noi il primo uomo che ha saputo vivere senza mai tradire le proprie convinzioni per viltà o convenienza, ma sottoponendole costantemente all’esame critico della ragione.

Il V secolo a.C. è segnato, per la storia del pensiero greco, da uno spostamento sensibile della riflessione filosofica dall’ambito della phýsis a quello della natura umana e dei valori etico-politici che la domanda sull’uomo porta con sé. In questo quadro, due figure di filosofo dominano la scena: il sofista e Socrate.

Chi è il sofista? Questa è la domanda che si poneva Socrate, nel dialogo platonico dal titolo, appunto, Sofista. La concezione socratica del filosofo escludeva che pensatori come Gorgia, Trasimaco o Prodico potessero rientrarvi. Che “cosa” erano, allora, i sofisti? Dei sophistái, appunto: degli esperti del sapere, individui in possesso di capacità tecniche non comuni nelle arti della parola e del ragionamento. Dei professionisti della cultura, diremmo oggi. Ad Atene troveranno un pubblico ideale, che da loro non si aspettava certo lezioni di filosofia come potremmo intenderle oggi o come le avrebbe concepite Platone nella sua scuola. Un pubblico che pagava bene per mettere alla prova il sapere enciclopedico di Ippia o per assistere ai virtuosismi argomentativi di Protagora, capace nei suoi discorsi di passare con disinvoltura dalla dimostrazione di una tesi alla difesa della tesi opposta.

Il sapere dei sofisti era di tipo pratico e legato all’utilità; il sofista praticava la filosofia come una professione dedita alla formazione di cittadini che fossero in grado di agire e argomentare a partire dalle esigenze pratiche poste dal contesto. Agli Ateniesi che avrebbero deliberato sullo sterminio degli abitanti di Melo, infatti, interessavano di più le spregiudicate riflessioni politiche di Trasimaco, che definiva la giustizia come il diritto del più forte, che non le questioni dell’ontologia parmenidea o la domanda sull’arché dei naturalisti ionici.

Chi era, invece, Socrate? L’immagine di Socrate che possiamo scorgere all’orizzonte di tutte le testimonianze – articolate o frammentarie – dei suoi contemporanei è in effetti quella di una figura ambigua e paradossale, che a seconda di come se ne interpretino i tratti superficiali può trasformarsi, come un essere proteiforme, in un mostruoso condensato di vizi e bramosie, in una buffa caricatura a metà tra filosofo e sofista, nel paradigma di uomo saggio e irreprensibile. “È significativo”, scrive Nietzsche, “che Socrate fosse il primo grande greco a essere brutto” – come l’omerico Tersite – di quella bruttezza che secondo Aristotele avrebbe potuto pregiudicare la felicità di un uomo: gli occhi bovini, il naso camuso, le labbra sporgenti, il ventre rigonfio, i piedi scalzi e il mantello logoro e sempre lo stesso lo rendevano, agli occhi dei fisiognomici, l’espressione vivente della lussuria e dell’intemperanza – la sua assidua frequentazione dei giovani ateniesi doveva sembrarne una conferma. Non solo: scrive ancora Nietzsche che in lui tutto è al tempo stesso occulto, pieno di secondi fini, sotterraneo perché, per ottenere i favori di quei giovani, Socrate si finge ignorante dissimulando la propria sapienza, come le statuine dei Sileni di cui parla Platone nel Simposio, costruite dagli artigiani con una cavità che nasconde dietro le sembianze corpulente e animalesche delle mitiche creature boschive – che tanto somigliano a Socrate! – la preziosa immagine di un dio.

Socrate fu il primo grande greco a essere brutto, cioè fu il primo a rompere quell’ideale apparentemente infrangibile rappresentato dalla kalokagathía: l’unione di bellezza e bontà come qualità inscindibili che garantiva il valore intellettuale e morale di un uomo, oltre a sancirne le origini aristocratiche; tanto che Senofonte potrà fare di lui un modello di liberalità, giustizia e saggezza, qualcuno capace di calcolare serenamente, di fronte alla propria condanna a morte, che non vale la pena di investire le ultime risorse nel tentativo di sopravvivere quando l’età raggiunta è ormai avanzata e vivere ancora significherebbe doverne sopportare gli inevitabili tormenti.

Ma non è questa saggezza misurata e dimessa a fare di Socrate il primo grande greco, almeno non per noi: la sua grandezza non può essere separata dalla sua atopía, dalla stranezza e unicità del filosofo che Platone ha reso immortale trasformandolo in un eroe del pensiero, e nell’eroe dei suoi dialoghi filosofici; qualcuno che nasconde davvero un cuore prezioso dietro le sembianze sileniche. Socrate è per noi il primo uomo che ha saputo vivere senza mai tradire le proprie convinzioni per viltà o convenienza, ma sottoponendole costantemente all’esame critico della ragione per verificarne la bontà ed esser certo così di affidare ogni sua scelta e azione al miglior ragionamento di cui fosse capace. È stato il primo che ha saputo condurre questa coerenza tra pensiero e azione fino alle sue estreme conseguenze, senza indietreggiare nemmeno di fronte alla morte, e che su di essa ha fondato la propria felicità rendendola incorruttibile; come scrive il filosofo contemporaneo Robert Nozick, la scelta di Socrate di andare incontro alla morte anziché salvarsi rinnegando ciò in cui credeva più profondamente ha reso la sua morte una parte essenziale della sua vita, l’ha trasformata, cioè, in quell’ultimo singolo episodio capace di proiettare un cono di luce sull’intera vita rendendola imperitura.

In altre parole, se il suo “allievo” Platone è per noi un grande stimolo filosofico – forse il più grande invito a fare filosofia – e l’allievo dell’allievo Aristotele è la mente universale che ha inaugurato l’enciclopedia delle scienze –, a Socrate dobbiamo il primo, e forse unico, esempio di vita consacrata alla filosofia.