Perché Platone?

La filosofia, a differenza di ogni altra forma di credenza rivelata, la si fa dialogando e confrontando le idee.

Un grande filosofo del ventesimo secolo, Alfred North Whitehead, aveva affermato nel suo Il processo e la realtà che “la caratterizzazione più sicura della tradizione filosofica europea è che essa consiste in una serie di note a margine su Platone”. Non era l’esagerazione dovuta a un filosofo molto legato al platonismo, perché in fin dei conti tutta la filosofia dopo Platone, e sino ai giorni nostri, anche quando è contraria alle posizioni di Platone, vi fa, sia pure indirettamente, riferimento. Come a dire che Platone ha posto una serie di problemi che ancora, volenti o nolenti, ci obbligano a confrontarci con quanto ha detto.

Ecco perchè è importante capire Platone, e proprio quando si inizia a studiare filosofia: non si tratta solo di capire le sue teorie – e si veda nel testo di Vegetti quanto sia difficile trarre dalla sua opera un sistema definito, poiché occorre tener conto anche di molte sue contraddizioni e ripensamenti, a seconda del periodo in cui scriveva – ma di rendersi conto delle domande che ha suscitato e a cui nel corso dei secoli i vari filosofi hanno tentato le loro risposte. E ritroveremo quindi la lezione di Platone nel neoplatonismo tardo-antico, in sant’Agostino, nelle dispute medievali sul modo in cui conosciamo le cose, e poi nel platonismo rinascimentale, nei filosofi dell’idealismo tedesco, e in molti logici e scienziati contemporanei.

La prima lezione di Platone è che la filosofia, a differenza di ogni altra forma di credenza rivelata, la si fa dialogando e confrontando le idee: Platone non è un sofista, nel senso che ritenga che la verità sia relativa alla situazione e ai problemi di chi cerca di convincere gli altri, e il suo dialogo mira a trarre dall’animo dell’interlocutore quello che forse non aveva capito ma che doveva sapere sin dall’inizio. Al tempo stesso Platone ci insegna che non si fa filosofia solo attraverso ragionamenti teorici (e ne fa, e di superbi, in dialoghi molto ardui come il Parmenide), ma che alcuni dei massimi problemi filosofici possono essere resi chiari attraverso un mito, una narrazione. Sono alcune delle allegorie platoniche (come quella della caverna o del cavallo bianco e del cavallo nero) che sono rimaste più impresse nella mente di chi ha sentito parlare di Platone, e talora la sua comprensione si è limitata al ricordo e alla citazione di queste allegorie; ma leggendo i suoi racconti nel contesto del suo pensiero generale, quello che voleva dire risulta più chiaro e memorabile.

La dottrina platonica che ha provocato innumerevoli commenti nel corso dei secoli è quella delle idee. Anche qui gli studenti ricordano la vulgata per cui Platone avrebbe pensato alla “cavallinità”, ovvero a idee delle cose particolari, mentre al proposito egli appare molto reticente. Egli pensava piuttosto alle idee matematiche e alle nozioni universali del bello e del bene, della giustizia, dell’uno e dei molti. E su queste idee egli non aveva dubbi: esse non sono le immagini oscure e imprecise che gli uomini vedono sul fondo della caverna in cui sono prigionieri (ovvero le cose che conosciamo nel mondo sensibile), ma entità eterne, “iperuranie”, alla visione delle quali il ragionamento filosofico ci deve condurre, e che sono non solo il modello, ma la causa stessa delle cose che conosciamo attraverso l’esperienza, che delle idee sono solo pallide imitazioni. Se nel Critone Socrate sa con assoluta certezza che deve accettare la morte, ingiusta, perché il cittadino non deve sottrarsi alle leggi della città, non è per pura opinione o esperienza, ma perché possiede un’idea della giustizia. Queste sono le idee che ciascuno ha come nascoste nel fondo dell’anima e che la maieutica socratica, arte della levatrice, deve portare alla luce.

Eppure ancora oggi i filosofi si affannano a stabilire non solo se esista un’idea eterna della giustizia, ma se si possa parlare di un’idea (o di una essenza) di entità sensibili come il cavallo, una definizione per essenza che funga da modello per tutti i cavalli di cui ci parla l’esperienza. Su questo tema si è svolta la disputa sugli “universali” nel medioevo, così come su ispirazione platonica sant’Agostino riteneva che esistessero verità innate nel nostro animo (e persino la teorie contemporanee della conoscenza si affannano o pro o contro il problema dell’innatismo).

Ma altre ancora sono le eredità che Platone ci ha lasciato, e per esempio il modello della diáiresis che appare nel Sofista ci pare lontano parente di certi procedimenti di “selezione binaria” che dominano ancora nelle scienze informatiche.

Naturalmente Platone era figlio del suo tempo e difficilmente potremmo oggi accettare le sue proposte politiche, o la svalutazione dell’arte come imitazione di una imitazione. Ma la scommessa è questa: o si capisce Platone o non si capisce quasi nulla di quello che è avvenuto dopo, a cominciare da Aristotele che pure a Platone ha condotto una critica radicale.