Testi

T2PlatoneL’anima e la sua immortalità II

Nel brano, tratto dalla Repubblica, Socrate (la voce narrante) delinea la celebre tripartizione dell’anima: la prima è quella razionale, la seconda quella aggressiva e collerica, la terza quella desiderativa (o desiderante).

La Repubblica, Libro IV, 439d-441b

da Platone, La Repubblica, trad. it a cura di Mario Vegetti, BUR, Milano - 2006

“Non senza ragione allora” dissi io “riconosceremo che si tratta di due cose diverse fra loro, chiamando quella con cui l’anima ragiona la sua parte razionale, quella con cui ama, prova fame e sete e si eccita per gli altri desideri, irrazionale e desiderante, compagna di gonfiezza e piaceri.”

“No, anzi” disse, “sarebbe plausibile pensare così.”

“Assumiamo dunque” dissi io “la distinzione fra queste due forme presenti nell’anima. Ma quella propria della collera, con la quale ci adiriamo, è da considerarsi come una terza forma, o invece sarà di natura affine a una di queste, e a quale?”

“Forse” disse “alla seconda, a quella desiderante.”

“Però” dissi io “c’è una storia che ho sentito una volta e in cui credo. Leonzio, il figlio di Aglaion, mentre saliva dal Pireo costeggiando dall’esterno il muro settentrionale, si accorse che c’erano dei cadaveri che giacevano vicino al boia, e allo stesso tempo desiderava di guardarli ma provava ripugnanza e si volgeva dall’altra parte. Per qualche istante lottò con se stesso e si coprì il viso, ma poi, vinto dal desiderio, spalancò gli occhi e corse verso i cadaveri dicendo: ‘Ecco, voi disgraziati, saziatevi di questo bello spettacolo’.”

“L’ho sentito anch’io” disse.

“Questo racconto però significa” dissi “che l’ira talvolta combatte contro i desideri come se si tratti di due cose diverse.”

“Significa questo, in effetti” disse. […] ?

“Ma [lo spirito collerico] è però diverso anche da essa, oppure è una forma della ragione, sicché vi sarebbero non tre ma due forme nell’anima, quella razionale e quella desiderante? O invece, come nel caso della città che risultava composta dall’esistenza di tre gruppi, addetti rispettivamente agli affari, alla guardia, alle decisioni, così anche nell’anima questo spirito collerico sarà una terza forma, per sua natura guardia della ragione, a meno che non venga corrotta da un cattivo allevamento?”

“Necessariamente” disse “una terza forma”

“Sì” dissi io, “ammesso che risulti esser diverso da quella razionale così come è apparso diverso da quella desiderante.”

“Ma non è difficile chiarirlo” disse: “perché anche nei bambini si può vedere bene che appena nati essi sono pieni di collera, mentre alcuni non mi sembra che raggiungano mai la capacità di ragionare, e per la maggior parte solo più tardi.”

“Sì, per Zeus” risposi, “dici bene. E anche nelle belve si può vedere che le cose stanno come hai detto.”

T3PlatoneL’allegoria della caverna

L’immagine della caverna che Platone descrive nel VII libro della Repubblica non è propriamente un mito – come spesso erroneamente si dice – bensì appunto un’immagine o un’allegoria. Il mito è una narrazione o – tradizionalmente – delle vicende degli dèi e degli eroi o – da un punto di vista religioso e filosofico – delle vicende dell’anima umana prima della sua incarnazione e dopo la morte. Nell’allegoria della caverna si ha invece a che fare con la condizione umana quanto a educazione e mancanza di educazione e non con dèi ed eroi né col destino escatologico dell’anima. Inoltre si tratta di un’immagine descrittiva e non propriamente di una narrazione.

La Repubblica, Libro VII, 514a-517c

da Platone, La Repubblica, trad. it a cura di Mario Vegetti, BUR, Milano - 2006

“Dopo tutto questo” dissi “paragona la nostra natura, in rapporto all’educazione e alla mancanza di educazione, a una condizione di questo tipo. Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna, con un’entrata spalancata alla luce e larga quanto l’intera caverna; qui stanno fin da bambini, con le gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti, giacché la catena impedisce loro di girare la testa; fa loro luce un fuoco acceso alle loro spalle, in alto e lontano; tra il fuoco e i prigionieri passa in alto una strada, e immagina che lungo di essa sia stato costruito un muretto, simile ai parapetti che i burattinai pongono davanti agli uomini che manovrano le marionette mostrandole, sopra di essi, al pubblico.”

“Vedo” disse.

“Vedi allora che dietro questo muretto degli uomini portano, facendoli sporgere dal muro stesso, oggetti d’ogni genere e statuette di uomini e di altri animali di pietra, di legno, foggiate nei modi più vari; com’è naturale alcuni dei portatori parlano, altri tacciono.”

“Strana immagine descrivi” disse “e strani prigionieri.”

“Simili a noi” dissi io. “Pensi innanzitutto che essi abbiano visto, di se stessi e dei loro compagni, qualcos’altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?”

“E come potrebbero” disse, “se sono costretti per tutta la vita a tenere la testa immobile?”

“E lo stesso non accadrà per gli oggetti che vengono fatti sfilare?”

“Sì.”

“Se dunque fossero in grado di discutere fra loro, non pensi che essi chiamerebbero oggetti reali le ombre che vedono?”

“Necessariamente.”

“E se la prigione avesse un’eco dalla parete verso cui sono rivolti, ogni volta che uno dei portatori parlasse, credi penserebbero che a parlare sia qualcos’altro se non l’ombra che passa?”

“Per Zeus, io no di certo” disse.

“Insomma questi prigionieri” dissi io “considererebbero la verità come nient’altro che le ombre degli oggetti artificiali.”

“È del tutto necessario” disse.

“Osserva ora” dissi io “che cosa rappresenterebbero per costoro lo scioglimento dai loro legami e la guarigione dalla loro follia, se per natura accadesse loro qualcosa di questo genere. Quando uno fosse sciolto e improvvisamente costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare, ad alzare lo sguardo verso la luce, tutto questo facendo soffrirebbe e a causa del riverbero non potrebbe fissare gli occhi sugli oggetti di cui prima vedeva le ombre; che cosa credi risponderebbe, se qualcuno gli dicesse che prima vedeva semplici illusioni, e che ora, più vicino all’essere e rivolto verso oggetti dotati di maggiore esistenza, vede in modo più corretto, e se inoltre, mostrandogli ognuno degli oggetti che sfilano, gli chiedesse che cosa è, e lo costringesse a rispondere? Non credi che sarebbe in difficoltà e riterrebbe che ciò che vedeva prima era più vero di quel che adesso gli si mostra?”

“Molto di più” disse.

“E se ancora lo si obbligasse a rivolgere lo sguardo verso la luce stessa, non proverebbe dolore agli occhi, non si volgerebbe per fuggire verso ciò che può guardare, non penserebbe che questo è in realtà più chiaro di quanto gli viene mostrato?”

“Proprio così” disse.

“E se poi” dissi “lo si portasse via con la forza, su per la salita aspra e ripida, e non lo si lasciasse prima di averlo trascinato alla luce del sole, non soffrirebbe forse, non protesterebbe per essere così trascinato? Ed una volta giunto alla luce, gli occhi abbagliati dal suo splendore, potrebbe vedere una sola delle cose che ora chiamiamo vere?”

“No di certo” disse, “almeno di primo acchito.”

“Avrebbe dunque bisogno, penso, di assuefazione, per poter vedere le cose di quassù. Prima potrebbe osservare, più agevolmente, le ombre, poi le immagini riflesse nell’acqua degli uomini e delle altre cose, infine le cose stesse; di qui potrebbe passare all’osservazione dei corpi celesti e del cielo stesso durante la notte, volgendo lo sguardo alla luce degli astri e della luna con maggior facilità che, di giorno, al sole e alla sua luce.”

“E come no?”

“E finalmente, penso, potrebbe fissare non già le parvenze del sole riflesse nell’acqua o in luoghi estranei, bensì il sole stesso nella sua propria sede, e contemplarlo qual è.”

“Necessariamente” disse.

“E allora giungerebbe ormai, intorno al sole, alla conclusione che esso, oltre a provvedere le stagioni e il corso degli anni, e a regolare ogni cosa nel mondo visibile, è anche in qualche modo la causa di tutto ciò che essi vedevano nella caverna.”

“È chiaro” disse “che a quel punto giungerebbe a queste conclusioni.”

“Ma allora, ricordando la sua precedente dimora e il sapere di laggiù e i suoi compagni di prigionia, non credi che sarebbe felice del proprio mutamento di condizione e compiangerebbe gli altri?”

“Certo.” […]

“Rifletti ancora su questo” dissi io. “Se costui, ridisceso, si sedesse di nuovo al suo posto, non avrebbe forse gli occhi colmi di oscurità, venendo di colpo dal sole?”

“Certo” disse.

“Ma se dovesse di nuovo discernere quelle ombre e disputarne con quelli che sono sempre rimasti in catene, mentre vede male perché i suoi occhi non si sono ancora assuefatti, ciò che richiederebbe un tempo non breve, non si renderebbe forse ridicolo, non si direbbe di lui che, salito quassù, ne è tornato con gli occhi rovinati, e dunque non val la pena neppure di tentare l’ascesa? E chi provasse a scioglierli e a guidarli verso l’alto, appena potessero afferrarlo e ucciderlo, non lo ucciderebbero?”

“Sicuramente” disse.

“Quest’immagine pertanto, caro Glaucone” io dissi, “va applicata tutta intera a quel che dicevamo prima: la regione che ci appare tramite la vista è da paragonare alla dimora dei prigionieri, la luce del fuoco che sta in essa alla potenza del sole; ponendo poi la salita quassù e la contemplazione di quel che vi è quassù come l’ascesa dell’anima verso il luogo del noetico non t’ingannerai sulla mia aspettativa, dal momento che vuoi conoscerla. Dio solo sa se essa può esser vera. Questo è comunque quel che a me appare: all’estremo confine del conoscibile v’è l’idea del buono e la si vede a stento, ma una volta vistala occorre concludere che essa è davvero sempre la causa di tutto ciò che vi è di retto e di bello, avendo generato nel luogo del visibile la luce e il suo signore, in quello del noetico essendo essa stessa signora e dispensatrice di verità e di pensiero; e che deve averla vista chi intenda agire saggiamente sia nella vita privata sia in quella pubblica.”

“Sono d’accordo anch’io” disse, “almeno come mi è possibile.”

“Su, allora” dissi io: “convieni anche su questo fatto, che non c’è da sorprendersi se chi è giunto fino a tal punto non voglia poi occuparsi delle faccende degli uomini, e la sua anima aspiri sempre a restare lassù: è in effetti del tutto verosimile che sia così, se anche questo sta nel modo descritto dalla nostra immagine.”

“Verosimile, certo” disse.

[…]“Ma chi fosse dotato di ragione” dissi io “ricorderebbe che i disturbi agli occhi sono di due tipi e dipendono da due cause: il passaggio dalla luce all’oscurità e dall’oscurità alla luce. Pensando allora che lo stesso può accadere all’anima, quando si scorga un’anima turbata e incapace di distinguere qualcosa, non se ne riderebbe stupidamente, ma si indagherebbe se essa, provenendo da una vita più luminosa, è offuscata per mancanza di abitudine alle tenebre, oppure se, giungendo a una luce maggiore da una grande ignoranza, è abbagliata da un riverbero troppo splendente; e così si riterrebbe la prima felice per la sua sorte, mentre si compiangerebbe la seconda […] Se questo è vero” dissi, “su tutto ciò dobbiamo formarci una simile convinzione: l’educazione non è affatto tale, quale alcuni, che se ne professano maestri, dicono sia. Asseriscono di essere in grado di infondere la scienza nell’anima da cui essa sia assente, quasi infondessero la vista in occhi ciechi.”

“Lo asseriscono infatti” disse.

“Ora, tutto il nostro discorso” dissi “significa che questa facoltà inerente all’anima di ognuno e l’organo con il quale ciascuno apprende – alla maniera di un occhio incapace di volgersi dall’oscurità verso la luce se non insieme con l’intero corpo – devono venir fatti ruotare, distogliendoli da ciò che diviene, insieme con l’anima intiera, finché essa divenga capace di sostenere la contemplazione di ciò che è e di quanto in esso v’è di più luminoso: e questo diciamo essere il buono. Non è così?”

“Sì.”

[…] “Dovete dunque, quando è venuto il vostro turno, ridiscendere là dove vivono gli altri e abituarvi a osservare le immagini oscure; una volta assuefattivi, le vedrete mille volte meglio di quelli di laggiù, e di ognuna delle immagini saprete che cos’è e che cosa rappresenta, grazie all’aver visto il vero intorno a ciò che è bello e giusto e buono. E così per noi e per voi la città sarà retta nell’ordine della realtà e non del sogno, come invece accade per la maggior parte di quelle di oggi, i cui cittadini si battono fra loro per delle ombre e si contendono il potere, quasi fosse un gran bene.”