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T1AristoteleForma e materia di un’emozione

Nel De anima Aristotele presenta lo studio dell’anima come parte della filosofia della natura, cioè della fisica. I brani proposti, tratti dal I e dal II libro, presentano in particolare la sua definizione dell’anima e le due definizioni che dà delle emozioni, a partire dal caso dell’ira.

Anima

1, 402a-403b;

■ ■1, 412a-b

da Aristotele, Anima, trad. it. a cura di Giancarlo Movia, Bompiani, Milano - 2001

1. In primo luogo è forse necessario stabilire in quale genere l’anima si trovi e che cosa sia, intendo dire se sia qualcosa di determinato e una sostanza, oppure una qualità o una quantità o un’altra delle categorie che abbiamo distinto. Si deve inoltre determinare se sia tra gli enti in potenza o piuttosto in atto, che non è una differenza di poco conto. Bisogna anche ricercare se sia costituita di parti o sia priva di parti. Inoltre se ogni anima sia della stessa specie o no, e qualora non lo sia, se le anime differiscano per la specie o per il genere. Infatti quelli che oggi discutono e fanno ricerche sull’anima sembrano prendere in considerazione la sola anima umana. Si deve invece fare attenzione a che non sfugga se ci sia un’unica definizione di anima, com’è unica la definizione di animale, o se sia diversa per ciascuna anima, com’è diversa la definizione di cavallo, cane, uomo e dio […]. Di più, qualora non ci siano molte anime, ma molte parti dell’anima, si deve decidere se bisogna esaminare prima l’intera anima oppure le parti. Difficile è anche determinare quali di queste parti siano essenzialmente distinte tra loro, e se si debbano esaminare prima le parti o le loro attività, ad esempio l’intellezione oppure l’intelletto, la sensazione oppure la facoltà sensitiva, e così per gli altri casi. E qualora le attività debbano venir prima, si potrebbe, daccapo, chiedersi se si debbano esaminare i relativi oggetti prima delle attività, ad esempio l’oggetto sensibile prima della facoltà sensitiva, e quello intelligibile prima dell’intelletto.

[…] Pongono un problema anche le affezioni dell’anima, se cioè sono tutte comuni al soggetto che la possiede, oppure se ce n’è qualcuna che sia propria della stessa anima: comprendere ciò è necessario, ma non facile. Per ciò che riguarda la maggior parte di queste affezioni, risulta che l’anima non subisce e non opera nulla indipendentemente dal corpo, com’è il caso dell’ira, del coraggio, del desiderio, e in generale della sensazione, mentre il pensiero assomiglia molto ad un’affezione propria dell’anima. Se però il pensiero è una specie d’immaginazione o non opera senza immaginazione, neppure esso potrà essere indipendente dal corpo. Se allora, tra le attività o affezioni dell’anima, ce n’è qualcuna che le sia propria, l’anima potrà avere un’esistenza separata; ma se non c’è nessuna che le sia propria, non sarà separabile, e si troverà nella stessa condizione della retta in quanto retta, la quale ha molte proprietà, ad esempio quella di essere tangente alla sfera di bronzo in un punto. Non è tuttavia essendo separata che la retta è tangente alla sfera in questo modo. Infatti è inseparabile, se è vero che esiste sempre in un dato corpo.

Sembra che anche le affezioni dell’anima abbiano tutte un legame con il corpo: l’ira, la tenerezza, la paura, la pietà, il coraggio, e inoltre la gioia, l’amore e l’odio. Infatti non appena esse si producono, il corpo subisce una modificazione. Lo comprova il fatto che talvolta, pur presentandosi stimoli forti e manifesti, non ci si irrita né si prova paura; mentre in altre circostanze siamo mossi da stimoli piccoli ed appena percepibili, qualora il corpo sia agitato e si trovi nella stessa condizione di quando si è in collera. Ma un fatto ancor più evidente è questo: pur non accadendo nulla che provochi timore, si hanno le stesse emozioni di chi è impaurito. Ma se così stanno le cose, è manifesto che le affezioni dell’anima sono forme contenute nella materia. Di conseguenza le loro definizioni saranno, ad esempio, di questo tipo: “l’ira è un certo movimento di tale corpo o parte o facoltà, prodotto da tale causa e avente tale fine”. Per queste ragioni è senz’altro compito del fisico trattare dell’anima: di ogni anima o del tipo di anima che s’è appena descritto.

Il fisico e il dialettico definirebbero però ciascuna di queste affezioni in modo diverso. Ad esempio: che cos’è l’ira? Mentre il dialettico la definirebbe “desiderio di rivalsa” (o qualcosa di simile), il fisico la definirà “ebollizione del sangue e del calore intorno al cuore”. Di costoro il fisico indica la materia, il dialettico la forma e l’essenza. L’essenza della cosa in questione è infatti determinata, ma, se deve esistere, è necessario che si realizzi in una determinata materia. Analogamente la definizione di casa può essere la seguente: “riparo che difende contro la distruzione causata da venti, piogge e caldo”, ma uno dirà che è pietre, mattoni e legno, e un altro che è la forma presente in questi materiali per un determinato scopo. Chi di costoro è allora il fisico? Forse chi parla della materia trascurando la forma? O non lo è piuttosto chi tiene conto di entrambe? Ma allora chi è ciascuno degli altri due? Certo non è uno solo che si occupa delle affezioni inseparabili della materia, e che non le considera in quanto separabili. In effetti il fisico si occupa di tutte le attività e affezioni di un determinato corpo e di una determinata materia, mentre delle caratteristiche dei corpi che non sono di questo tipo se ne occupa un altro: di alcune s’interessa il tecnico secondo i casi, ad esempio l’architetto o il medico. Le caratteristiche, poi, che non sono separabili, e tuttavia non vengono considerate in quanto affezioni di un determinato corpo e sono ottenute per astrazione, le studia il matematico. In quanto invece sono separate, le considera il filosofo primo.

■ ■ 1. […] Riprendiamo ora di nuovo la strada come dall’inizio, cercando di determinare che cos’è l’anima e qual è il suo concetto più generale. Noi chiamiamo un certo genere di enti sostanza, e diciamo sostanza in un primo senso la materia, la quale di per sé non è qualcosa di determinato; in un secondo la forma e la specie, in virtù della quale precisamente si parla di qualcosa di determinato; e in un terzo senso il composto di queste due.

La materia poi è potenza e la forma atto, e l’atto si dice in due sensi: o come la conoscenza, o come l’uso di essa.

Ora sostanze sembrano essere soprattutto i corpi e tra essi specialmente quelli naturali, giacché questi sono i principi di tutti gli altri. Tra i corpi naturali, poi, alcuni possiedono la vita ed altri no; chiamiamo vita la capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di deperire. Di conseguenza ogni corpo naturale dotato di vita sarà sostanza, e lo sarà precisamente nel senso di sostanza composta. Ma poiché si tratta proprio di un corpo di una determinata specie, e cioè che ha la vita, l’anima non è il corpo, giacché il corpo non è una delle determinazioni di un soggetto, ma piuttosto è esso stesso soggetto e materia. Necessariamente dunque l’anima è sostanza, nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora tale sostanza è atto, e pertanto l’anima è atto del corpo che s’è detto. Atto, poi, si dice in due sensi, o come la conoscenza o come l’esercizio di essa, ed è chiaro che l’anima è atto nel senso in cui lo è la conoscenza. Infatti l’esistenza sia del sonno che della veglia implica quella dell’anima. Ora la veglia è analoga all’uso della conoscenza, mentre il sonno al suo possesso e non all’uso, e primo nell’ordine del divenire rispetto al medesimo individuo è il possesso della conoscenza. Percià l’anima è l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ma tale corpo è quello che è dotato di organi. (Organi sono anche le parti delle piante, ma estremamente semplici. Ad esempio la foglia è la protezione del pericarpo e il pericarpo del frutto, mentre le radici corrispondono alla bocca, in quanto l’una e le altre prendono il nutrimento). Se dunque si deve indicare una caratteristica comune ad ogni specie di anima, si dirà che essa è l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi. Pertanto non c’è bisogno di cercare se l’anima e il corpo formano un’unità, allo stesso modo che non v’è da chiedersi se formano un’unità la cera e la figura né, in generale, la materia di una data cosa e ciò che ha per sostrato tale materia. […]

S’è dunque detto, in generale, che cos’è l’anima: essa è sostanza nel senso di forma, ovvero è l’essenza di un determinato corpo. Così se uno strumento, ad esempio una scure, fosse un corpo naturale, la sua essenza sarebbe di essere scure, e quest’essenza sarebbe la sua anima. Tolta questa essenza, la scure non esisterebbe se non per omonimia.

T2AristoteleL’aspirazione universale alla conoscenza

Nel celebre incipit della Metafisica, Aristotele manifesta il suo ottimismo riguardo all’aspirazione naturale dell’essere umano a conoscere: da un lato “per natura” significa che la conoscenza è la realizzazione della natura umana, dall’altro che questo è evidentemente possibile dal momento che, per il principio aristotelico che la natura non fa nulla invano, essa non avrebbe ispirato nell’uomo il desiderio della conoscenza se questo desiderio non potesse essere soddisfatto.

Metafisica, A 1, 980a-982a

da Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di Giovanni Reale [lievemente modificata], Bompiani, Milano - 2000

Tutti gli uomini per natura aspirano alla conoscenza. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose.

Gli animali sono naturalmente forniti di sensazione; ma, in alcuni, dalla sensazione non nasce la memoria, in altri, invece, nasce. Per tale motivo questi ultimi sono più intelligenti e più atti ad imparare rispetto a quelli che non hanno capacità di ricordare. Sono intelligenti, ma senza capacità di imparare, tutti quegli animali che non hanno facoltà di udire i suoni (per esempio l’ape e ogni altro genere di animali di questo tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono anche il senso dell’udito.

Orbene, mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’esperienza unica. L’esperienza, poi, sembra essere alquanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, come dice Polo, produce l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed unico riferibile a tutti i casi simili.

Per esempio, il giudicare che a Callia, sofferente di una determinata malattia, ha giovato un certo rimedio, e che questo ha giovato anche a Socrate e a molti altri individui, è proprio dell’esperienza; invece il giudicare che a tutti questi individui, ridotti ad unità secondo la specie, sofferenti di una certa malattia, ha giovato un certo rimedio (per esempio ai flemmatici o ai biliosi o ai febbricitanti) è proprio dell’arte.

Orbene, ai fini dell’attività pratica, l’esperienza non sembra differire in nulla dall’arte; anzi, gli empirici riescono anche meglio di coloro che posseggono la teoria senza la pratica. E la ragione sta in questo: l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza degli universali; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particolare: infatti il medico non guarisce l’uomo se non per accidente, ma guarisce Callia o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome come questi, al quale, appunto, accade di essere uomo. Dunque, se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.

E, tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri più all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono l’arte più sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza, in ciascuno degli uomini, corrisponda al loro grado di sapere. E, questo, perché i primi conoscono la causa, mentre gli altri non la conoscono. Gli empirici conoscono il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa. […]

In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia soprattutto la conoscenza e non l’esperienza; infatti coloro che posseggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre coloro che posseggono l’esperienza non ne sono capaci.

Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza: infatti, anche se le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumenti di conoscenza dei particolari, non ci dicono, però, il perché di nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente segnalano il fatto che esso è caldo. […]

Si è detto nell’Etica quale sia la differenza fra l’arte e la scienza e le altre discipline dello stesso genere. E lo scopo per cui noi ora facciamo questo ragionamento è di mostrare che col nome di sapienza tutti intendono la ricerca delle cause prime e dei princìpi. Ed è per questo che, come si è detto sopra, chi ha esperienza è ritenuto più sapiente di chi possiede soltanto una qualche conoscenza sensibile: chi ha l’arte più di chi ha esperienza, chi dirige più del manovale e le scienze teoretiche più delle pratiche.

È evidente, dunque, che la sapienza è una scienza che riguarda certi princìpi e certe cause.