Per saperne di piùLogica e sillogismo

di Walter Cavini

Aristotele non usa mai il termine “logica” (logiké), cioè non parla mai di una logiké téchne o epistéme o pragmatéia, “arte” o “scienza” o “disciplina del lógos”, ma per primo fa un uso non sporadico dell’aggettivo greco corrispondente, logikós, e dell’avverbio logikôs, del tutto assenti, per esempio, in Platone. Tale uso tuttavia non è riconducibile né alla logica come disciplina del lógos, né alla razionalità umana in generale (l’uomo come animale razionale), le due accezioni principali che l’aggettivo assumerà nel pensiero filosofico successivo. Comunemente, invece, si attribuisce ad Aristotele la definizione di uomo come animale razionale, dove per “razionale” (logikón) si intende “dotato di ragione” (lógon échon). In realtà tale definizione non è mai attestata negli scritti del corpus aristotelicum e la sua attribuzione ad Aristotele deriva probabilmente dal fraintendimento di due passi della Politica (I 2, 1253a9-10 e VII 13, 1332b5) in cui si sostiene che “solo l’uomo fra gli animali ha il lógos”. Ma il termine lógos ha nei due casi significati diversi: nel primo significa parola come facoltà di parlare, nel secondo ragione come facoltà di ragionare. Solo l’uomo fra gli animali ha insieme la facoltà di parlare e di ragionare. In entrambi i casi non compare l’aggettivo logikós ma la locuzione aggettivale lógon échon, “che ha il lógos”.

ESERCIZIO

E3: La logica

Per comprendere l’uso e quindi il significato dell’aggettivo logikós in Aristotele è bene partire da un passo del I libro dei Topici: “Vi sono, a prendere le cose sommariamente, tre specie di proposizioni e di problemi. Le proposizioni, infatti, sono alcune etiche, altre fisiche, altre ancora logiche. Etiche sono dunque proposizioni di questo genere, per esempio se bisogna obbedire ai genitori piuttosto che alle leggi, qualora dissentano; logiche, per esempio se dei contrari si occupa la stessa scienza o no; fisiche, se il mondo è eterno o no. E similmente anche i problemi”.

Al di là del significato particolare che i termini tecnici “proposizioni” e “problemi” assumono nei Topici, quello che distingue le proposizioni “logiche” da quelle etiche e fisiche è la loro maggiore generalità: mentre le proposizioni etiche riguardano solo dilemmi morali e quelle fisiche solo dilemmi naturali, le proposizioni “logiche” non riguardano dilemmi propri di una scienza particolare, pratica (l’etica) o teoretica (la fisica), ma dilemmi propri di ogni scienza, perché ogni scienza si occupa, ad esempio, dei contrari, sia morali come il bene e il male o il giusto e l’ingiusto, di cui tratta l’etica, sia naturali come il caldo e il freddo o il pesante e il leggero, di cui tratta la fisica.

L’uso aristotelico di logikós fa dunque riferimento non a una disciplina particolare (la logica come teoria del sillogismo o dell’inferenza deduttiva valida), ma a questioni generali che riguardano ogni disciplina pur non essendo proprie di nessuna disciplina particolare. Tali questioni, come quella dei contrari, sono perfettamente lecite e il loro trattamento può essere, come per le questioni particolari, sia filosofico (secondo verità) sia dialettico (secondo opinione). Quello che non è lecito per Aristotele è confondere i due piani, cioè pretendere di risolvere una questione propria di una scienza particolare attraverso argomenti “logici”, che come tali non sono propri di una scienza particolare, così come sarebbe illecito pretendere di risolvere una questione propria di una scienza particolare, per esempio l’etica, attraverso argomenti propri di un’altra scienza particolare, per esempio la fisica. In questo caso gli argomenti “logici” risulterebbero “vuoti” , perché “estranei” rispetto ai principi propri della scienza particolare, come, secondo Aristotele, accade a Platone quando nella Repubblica discute del bene (una questione etica) alla luce della sua dottrina delle idee, una dottrina “logica” estranea al dominio dell’etica e tale quindi da risultare “vuota” se applicata a essa.

Vi è una scienza aristotelica particolare che si occupa delle questioni “logiche” come tali? In realtà, la tripartizione canonica delle scienze in teoretiche, pratiche e poietiche o produttive, e in particolare di quelle teoretiche in teologia o filosofia prima, fisica e matematica, non sembra lasciare spazio a una scienza aristotelica delle questioni “logiche”. Escludendo che si tratti di una scienza pratica, come l’etica e la politica, che ha come fine l’azione umana, e di una scienza poietica o produttiva, come la medicina, che ha come fine l’opera risultante dall’attività (per esempio la salute come risultato della cura medica), non resterebbe che classificare la scienza “logica” fra le scienze teoretiche, che hanno come fine la verità come tale. Ma la tripartizione delle scienze teoretiche si fonda chiaramente sulla tripartizione del concetto di sostanza in (a) sostanza separata e immobile, di cui si occupa la teologia o filosofia prima, (b) sostanza separata e mobile, di cui si occupa la fisica, e (c) sostanza non separata e immobile, di cui si occupa la matematica. Di quale sostanza dovrebbe occuparsi la scienza “logica” in quanto scienza teoretica? E anche se prendiamo in considerazione la metafisica aristotelica come “metafisica generale” o ontologia (la scienza dell’essere in quanto essere di Metafisica G 1-2) resta il fatto che anche la metafisica generale aristotelica si fonda sul concetto di sostanza come “significato focale” delle categorie dell’essere, anche se a un livello di generalità che richiama senz’altro quello delle questioni “logiche”.

Comunque sia, tali questioni non riguardano la sillogistica come teoria del sillogismo. Peraltro, Aristotele, come ignora il termine “logica”, così ignora anche il termine “sillogistica”: quando intende riferirsi alla sua teoria del sillogismo, o rinvia in generale agli Analitici (senza distinguere fra Primi e Secondi) o usa la locuzione en tóis perí syllogismóu, ovvero “nei [libri] sul sillogismo”, riferendosi agli Analitici Primi. Ma è senz’altro vero che Aristotele ascrive a se stesso il merito di avere per primo dato una teoria del sillogismo. In una pagina famosa e singolarmente personale, a conclusione delle Confutazioni Sofistiche (34, 184a8-b8), e quindi della versione canonica dell’Órganon, Aristotele rivendica la novità della sua trattazione centrandola sulla scoperta del sillogismo: E sugli argomenti retorici esistevano fin dall’antichità molte esposizioni, invece sull’argomentare per sillogismi non avevamo prima d’ora assolutamente nient’altro da menzionare, se non che per molto tempo ci siamo affaticati [intorno a tale questione] ricercando per tentativi. E se a voi sembra, dopo averla considerata, che, per come è stata costituita a partire da tali condizioni iniziali, la nostra ricerca risulti soddisfacente rispetto alle altre trattazioni accresciutesi con la tradizione, allora non resterebbe a voi tutti che avete ascoltato queste lezioni altro compito che avere comprensione per le lacune della nostra ricerca e molta gratitudine per le sue scoperte.”

È stato giustamente fatto notare che in questo passo spesso frainteso Aristotele non rivendica la scoperta della logica come teoria generale del sillogismo, ma quella della dialettica come teoria particolare del sillogismo dialettico e della sua appendice, il sillogismo sofistico. In effetti, la pragmatéia o trattazione a cui fa riferimento nel capitolo finale delle Confutazioni Sofistiche (183b17) e di cui rivendica la novità, è quella riassunta all’inizio del capitolo (183a27-b15) e coincide coi Topici e le Confutazioni Sofistiche. Ma questo non toglie che nel passo conclusivo sopra citato ciò che di veramente originale Aristotele attribuisce a se stesso è di aver condotto per primo una lunga e laboriosa ricerca “sull’argomentare per sillogismi”, di cui il sillogismo dialettico è indubbiamente un esempio. Si tratta dunque ora di ricostruire brevemente il lungo lavoro svolto da Aristotele sull’argomentazione sillogistica in generale.

Il sillogismo aristotelico

“(a) Il sillogismo è un argomento [lógos] (b) in cui, (ba) poste certe cose, (bb) una cosa diversa da quelle poste (bc) consegue di necessità (bd) per il fatto che queste cose sono. (c) Con ‘per il fatto che queste cose sono’ voglio dire che la cosa consegue mediante queste cose, e (d) con ‘la cosa consegue mediante queste cose’ [voglio dire] che non c’è bisogno di nessun termine esterno perché si produca il necessario.”

Così Aristotele definisce il sillogismo all’inizio degli Analitici Primi. Definizioni analoghe si trovano anche in altre opere dell’Órganon (Topici I 1, 100a25-27) e nella Retorica (I 2, 1356b15-16), ma quella degli Analitici Primi è insieme la più ampia, contenendo due glosse esplicative ((c) e (d)) dell’oscura formula (bd): “per il fatto che queste cose sono”, e l’unica a introdurre la teoria vera e propria del sillogismo aristotelico, che verrà esposta nei capitoli successivi.

Tale definizione è scandita in due clausole: la clausola principale (a), che determina il genere cui appartiene il sillogismo, e la clausola secondaria (b), che ne individua la differenza specifica all’interno del genere. Per la clausola generica (a) il sillogismo è un argomento, dove per “argomento” si deve intendere un insieme di proposizioni di cui una (la conclusione) è inferita dalle altre (le premesse). Gli argomenti si distinguono in primo luogo in argomenti validi (formalmente corretti) e in argomenti invalidi (formalmente scorretti). Un argomento valido è un argomento concludente, cioè un argomento in cui la conclusione consegue necessariamente o probabilmente dalle premesse: nel primo caso si parla di argomento deduttivamente valido, nel secondo di argomento induttivamente valido. Per la clausola specifica (b) il sillogismo è un argomento deduttivamente valido, per cui parlare di sillogismo invalido è contraddittorio e di sillogismo valido è pleonastico.

Vi sono almeno due problemi relativi all’interpretazione che abbiamo dato della clausola generica (a). Il primo riguarda la traduzione di syllogismós con “sillogismo”, cioè con la semplice traslitterazione del termine greco. Alcuni interpreti, specie di lingua inglese, preferiscono tradurre syllogismós con “deduzione”, ritenendo che la definizione aristotelica valga non solo per le deduzioni sillogistiche di cui gli Analitici Primi sono la teoria, ma si applichi in generale per Aristotele a ogni deduzione, sillogistica e non sillogistica. Il secondo riguarda invece la traduzione di lógos con “argomento”: questa è stata l’interpretazione corrente dei commentatori antichi e medievali, ma alcuni autorevoli interpreti moderni ritengono che l’autentico sillogismo aristotelico non sia un argomento valido ma una implicazione vera, cioè una tesi o verità logica.

Quanto al primo problema, vi sono almeno tre obiezioni possibili alla traduzione di syllogismós con “deduzione”. In primo luogo il sillogismo aristotelico non è soltanto un argomento deduttivo, ma è un argomento deduttivo valido, e quindi syllogismós non può essere tradotto semplicemente con “deduzione”, perché una deduzione può essere valida o invalida. In secondo luogo, come vedremo, la clausola specifica (b) stabilisce fra l’altro che le premesse di un sillogismo siano almeno due e quindi esclude gli argomenti deduttivi a una sola premessa (monolemmatici), e inoltre che la conclusione sia diversa dalle premesse e quindi esclude argomenti deduttivamente validi come la petizione di principio, nei quali la conclusione è identica a una delle premesse. Infine, risulta chiaro dal contesto della definizione che le premesse e la conclusione del sillogismo sono proposizioni categoriche o predicative, cioè enunciati dichiarativi semplici in cui si afferma o si nega un predicato di un soggetto, e questo pone una severa restrizione al tipo di deduzioni possibili.

Quanto al secondo problema, è indubbio che la forma prevalente anche se non esclusiva in cui Aristotele presenta un sillogismo è quella di un’implicazione, per esempio: “Se […] A si predica di ogni B e B si predica di ogni C, è necessario che A si predichi di ogni C” (Analitici Primi, I 4, 25b37-39). Ma è altrettanto chiaro che un sillogismo non coincide necessariamente con la sua descrizione metalinguistica. Inoltre, per Aristotele la dimostrazione, di cui tratterà negli Analitici Secondi, è un tipo di sillogismo, cioè un sillogismo con premesse vere, universali e necessarie; e una dimostrazione, ovviamente, non è un’implicazione ma un argomento deduttivo.

Veniamo dunque alla clausola specifica (b) e alle varie parti che la compongono. Ciascuna di esse stabilisce una condizione che un argomento deve rispettare per essere sillogistico. La prima, (ba) (“poste certe cose”), stabilisce la condizione di pluralità delle premesse (almeno due); la seconda, (bb) (“una cosa diversa dalle cose poste”), la condizione di diversità della conclusione rispetto alle premesse; la terza, (bc) (“consegue di necessità”), la condizione di concludenza necessaria, cioè di validità (concludenza) deduttiva (necessaria); la quarta, infine, (bd) (“per il fatto che queste cose sono”), la condizione che chiameremo “di pertinenza logica”.

Quest’ultima è senz’altro la condizione più criptica, al punto che Aristotele sente il bisogno di aggiungere una glossa esplicativa (c) e addirittura una glossa esplicativa (d) della glossa esplicativa. Almeno due sono i problemi in questo caso: in primo luogo Aristotele non dice, come sarebbe naturale per noi, che una cosa diversa dalle cose poste consegue di necessità dalle cose poste (cioè dalle premesse), ma per il fatto che le cose poste sono; in secondo luogo, come interpretare la locuzione “per il fatto che le cose poste sono”? A questa domanda si è cercato di rispondere dando almeno quattro significati diversi al verbo “essere”: (i) “per il fatto che le cose poste sono vere”; (ii) “per il fatto che le cose poste esistono”; (iii) “per il fatto che le cose poste sono così”; (iv) “per il fatto che le cose poste sono poste”. La (i) è senz’altro da scartare, perché il concetto di verità non è pertinente alla definizione aristotelica di sillogismo, come invece accade per il moderno concetto di conseguenza logica, e d’altra parte Aristotele per primo ha riconosciuto che si può avere un sillogismo anche se le premesse sono false. Così pure è da scartare la (ii) in quanto l’esistenza delle premesse come tale non spiega la necessità della conclusione, che è ciò che la condizione (bd) è chiamata a spiegare. Quanto alle ultime due risposte, la (iii) è alquanto vaga (sono così come?) e la (iv) suona in qualche modo tautologica.

Seguiamo lo stesso Aristotele nelle sue glosse esplicative: la prima, (c), stabilisce una sinonimia tra “per il fatto che queste cose sono” e “mediante queste cose”: la conclusione di un sillogismo, dunque, per Aristotele non consegue di necessità dalle premesse ma mediante le premesse. In questo modo, Aristotele intende sottolineare il fatto che la necessità della conclusione è dovuta solo alla natura delle premesse. È quanto spiega la seconda glossa, (d): “mediante queste cose” significa “che non c’è bisogno di nessun termine esterno perché si produca il necessario”, cioè le premesse di un sillogismo sono sufficienti a rendere necessaria la conclusione. Altrove (Topici, VIII 11, 161b19 e 28-30) Aristotele aggiunge che le premesse devono essere non solo sufficienti (non ellittiche) ma anche necessarie (non ridondanti), e quindi la condizione di pertinenza logica stabilisce che le premesse di un sillogismo devono essere esattamente quelle richieste per rendere necessaria la conclusione.

Ma il modo in cui la seconda glossa introduce tale condizione contiene un elemento significativo riguardante la natura delle premesse e la loro pertinenza logica rispetto alla conclusione, cioè il riferimento a un “termine esterno”. Il riferimento al “termine esterno” è un’ulteriore prova che la definizione aristotelica riguarda il sillogismo e non la deduzione in generale. Aristotele, infatti, fa precedere all’inizio degli Analitici Primi la definizione di sillogismo da quelle di “proposizione” (prótasis) e di “termine” (hóros) (I 1, 24a16-18). Per “proposizione” si intende l’enunciato (lógos) categorico o predicativo, cioè l’enunciato dichiarativo semplice, in cui si afferma o si nega un predicato di un soggetto; e per “termine” o “confine” della proposizione si intende ciò in cui la proposizione si risolve, cioè il predicato e ciò di cui si predica, il soggetto. Le proposizioni sillogistiche (premesse e conclusione) sono dunque enunciati categorici o predicativi, e la definizione aristotelica di sillogismo come insieme di proposizioni sillogistiche è la definizione del sillogismo categorico o predicativo.