Testi

T1EpicuroTeoria della natura

Nell’Epistola a Erodoto, Epicuro, come lui stesso dichiara, espone in sintesi la sua dottrina sulla fisica del mondo richiamandone i principi generali.

Epistola a Erodoto, 35-44

da Epicuro, Lettere: Sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, a cura di Nicoletta Russello, con un saggio di Francesco Adorno, BUR, Milano - 1994

Per coloro che non possono, Erodoto, applicarsi ad approfondire ciascuno dei miei scritti sulla natura, né, almeno, esaminare le opere maggiori da me composte, ho preparato una sintesi di tutta la mia dottrina, che consenta di ritenere nella memoria in modo adeguato i principi generali, perché siano in grado di venire in aiuto a se stessi in tutte le questioni più importanti, nella misura in cui si dedichino alla teoria della natura.

[…] In primo luogo, nulla ha origine da ciò che non è: tutto, altrimenti, potrebbe nascere da tutto, senza aver bisogno di semi generatori. E se ciò che perisce si annientasse in ciò che non è, tutto sarebbe ormai distrutto, perché ciò in cui si è dissolto sarebbe non esistente. Inoltre il tutto è stato sempre identico a come è ora, e sarà sempre uguale: perché non c’è nulla in cui esso si trasformi. Al di là del tutto, infatti, non vi è nulla che, penetrando in esso, determini il mutamento.

Inoltre l’universo è fatto [di corpi e di spazi locali] in cui si muovono. Che i corpi esistano, lo testimonia in ogni istante la stessa sensazione, fondamento necessario alla dimostrazione mediante il ragionamento di ciò che non è percepibile con i sensi, come ho detto in precedenza. E se non esistesse ciò che noi chiamiamo vuoto e spazio e intangibile, i corpi non avrebbero dove stare o dove muoversi, poiché evidente è che si muovono: ma oltre a queste due realtà non è possibile immaginare nulla, né come concepibile in sé, né per analogia con le cose concepibili, intendendo qualcosa in senso proprio, e non come ciò che chiamiamo accidenti o caratteristiche transitorie.

Anche fra i corpi, poi, alcuni sono aggregazioni, altri sono gli elementi da cui si formano le aggregazioni: e questi ultimi sono indivisibili e immutabili, se è vero che tutte le cose non sono destinate a perire nel non essere, ma certi elementi perdurano saldi anche nella dissoluzione degli aggregati, perché sono di per sé compatti e non esiste modo o parte in cui si possano dissolvere: ne consegue che gli elementi primari da cui i corpi sono costituiti sono necessariamente nature indivisibili.

E ancora, non c’è dubbio che il tutto è infinito. Ciò che è infinito, infatti, possiede un limite: ma tale limite si coglie in relazione a qualcos’altro; [il tutto, però, non si può certo cogliere in relazione a qualcos’altro,] in modo che, mancando un punto estremo, non ha una fine; e, poiché non ha una fine, può essere soltanto infinito e non limitato.

Il tutto è poi infinito anche rispetto alla quantità dei corpi e alla grandezza del vuoto: perché, se il vuoto fosse infinito e i corpi limitati, i corpi non si potrebbero fermare in nessun luogo, ma, senza sostegno e senza i rimbalzi provocati dalla collisione, sarebbero trascinati e dispersi per l’infinita immensità del vuoto; e se il vuoto fosse limitato, sarebbe impossibile la compresenza in esso di un numero infinito di corpi.

Oltre a ciò, le parti indivisibili e piene dei corpi da cui nascono gli aggregati e in cui essi si dissolvono, hanno una varietà inimmaginabile di forme: poiché non è possibile che l’illimitata varietà degli aggregati abbia origine dalle medesime forme primarie, se numericamente limitate. E per ciascuna di tali forme, vi è un numero infinito di atomi uguali, mentre la varietà delle fome non è di numero propriamente infinito, quanto piuttosto inconcepibile, a meno che non si voglia portare all’infinito anche la varietà delle loro dimensioni.

Gli atomi si muovono uniformemente sempre, e alcuni rimbalzano molto lontano l’uno dall’altro, altri frenano il rimbalzo nel punto in cui si trovano, nel caso vengano chiusi in un intreccio di atomi o difesi da altri intrecci di atomi. Causa di tale fenomeno è infatti la natura del vuoto che li divide l’uno dall’altro, perché il vuoto non è tale da opporre loro resistenza; d’altro canto, la solidità che caratterizza gli atomi ne provoca il rimbalzo in caso di collisione, finché l’intreccio eventualmente ne consenta, in seguito alla collisione, il ritorno alla posizione precedente. Non esiste un inizio di questi movimenti, perché gli atomi e il vuoto sono eterni.

Quanto si è detto, se tutti questi concetti restano ben impressi nella memoria, costituisce un’adeguata delineazione delle teorie riguardanti la natura delle cose.

T2Epicuro“Come un dio fra gli uomini”

Nel celebre epilogo dell’Epistola a Meneceo, Epicuro paragona la vita dell’uomo che segua i precetti della sua filosofia a quella di “un dio fra gli uomini”: la massima condizione di felicità a cui l’essere umano possa aspirare.

Epistola a Meneceo, 133-135

da Epicuro, Lettere: Sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, a cura di Nicoletta Russello, con un saggio di Francesco Adorno, Bur, Milano - 1994

Poiché chi ritieni sia migliore di un uomo che ha pie opinioni sugli dèi ed è affatto privo di paure nei confronti della morte ed è consapevole di che cosa sia il bene secondo natura e ha ben chiaro che il limite estremo dei beni è facile da raggiungere e da procurarsi, laddove il limite estremo dei mali è breve nel tempo o lieve nelle pene? E che proclama che quel potere ritenuto da molti padrone di tutte le cose… [alcune delle quali avvengono per necessità], altre per caso, altre dipendono da noi, perché la necessità è irresponsabile, la sorte è instabile, ma il nostro arbitrio è libero, e per questo può essere oggetto di biasimo o, al contrario, ricevere lode.

Davvero sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dèi che essere schiavi del fato dei fisici: il mito offre la speranza di placare gli dèi con onori, il fato ha invece una necessità implacabile. E un uomo simile, non considerando la sorte un dio, come molti credono – un dio non fa nulla che sia privo di ordine –, né un principio causale privo di fondamento, non crede che sia la sorte a dare agli uomini il bene e il male che determinano una vita felice, ma solo che da essa provengano i principi di grandi beni e di grandi mali: ritiene infatti sia meglio essere saggiamente sfortunati che stoltamente fortunati, perché è preferibile che nelle nostre azioni una decisione saggia [non sia premiata dalla fortuna, piuttosto che una decisione stolta] sia premiata.

Medita dunque queste cose e quelle dello stesso genere giorno e notte, in te stesso e con chi è simile a te, e non avrai mai turbamento né nel sonno, né da sveglio, ma vivrai come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali.

T7Diogene LaerzioLe tre parti della filosofia stoica

In questo brano, tratto dalle Vite dei filosofi, il dossografo Diogene Laerzio presenta attraverso quattro immagini metaforiche la tripartizione della filosofia stoica in fisica, etica e logica, attribuendola ai suoi fondatori.

Vite e dottrine dei più celebri filosofi, III 39-40

da Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano - 2005

Gli stoici dicono che il discorso filosofico si divide in tre parti: la fisica, l’etica, la logica. È proprio Zenone di Cizio a istituire per primo questa tripartizione nella sua opera Sulla ragione, seguito da Crisippo nel primo libro del suo Sulla ragione e nel primo libro della Fisica; quindi Apollodoro e Sillo nel primo dei Libri di introduzione alle dottrine ed Eudromo nei suoi Elementi di Etica e, ancora, Diogene di Babilonia e Posidonio.

Apollodoro chiama queste parti “luoghi” (tópoi), mentre Crisippo ed Eudromo “specie”, e altri ancora “generi”. In particolare, essi paragonano la filosofia a un animale, assimilando la logica alle ossa e ai nervi, l’etica alle parti carnee e la fisica all’anima. La paragonano anche a un uovo: la logica sarebbe il guscio esterno, l’etica l’albume, che viene subito dopo, e la fisica il tuorlo, che è la parte più interna. Oppure la paragonano a un campo fertile: la logica costituirebbe il recinto che lo circonda, l’etica il frutto, la fisica la terra e le piante. Infine la paragonano a una città ben fortificata e governata secondo ragione.

Nessuna parte è da preferire all’altra – secondo quanto affermano alcuni di loro –, ma sono tutte strettamente connesse fra loro. Anche l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri, invece, pongono al primo posto la logica, al secondo la fisica e al terzo l’etica. Tra questi ci sono Zenone, nella sua opera Sulla ragione, Crisippo, Archedemo ed Eudromo.

T12Sesto Empirico Qual è il fine dello scetticismo

In questo passo degli Schizzi pirroniani Sesto Empirico, dopo aver definito il concetto di fine, dichiara quale sia il fine per uno scettico e per quale ragione egli lo ritenga tale.

Schizzi pirroniani, I 25-30

da Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, trad.it. di Onorato Tescari, riveduta e corretta da Antonio Russo, Laterza, Roma-Bari - 1988

A quanto abbiamo detto dovrebbe seguire l’esposizione del fine dell’indirizzo scettico. Per fine intendesi ciò a cui si riferisce tutta la nostra attività pratica o teoretica, mentr’esso non si riferisce a nulla. Oppure: il fine è il termine delle cose appetibili.

Diciamo fin d’ora che il fine dello Scetticismo è l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni che sono per necessità.

Avendo, infatti, lo Scettico cominciato a filosofare circa la maniera di comprendere e distinguere quali delle rappresentazioni sensibili fossero vere, quali false, in modo da conseguire la imperturbabilità, s’abbatté a un disaccordo di ragioni contrarie di ugual peso, e, non riuscendo a dirimerlo, sospese il proprio giudizio; e a questa sua sospensione tenne dietro, come per caso, la imperturbabilità nelle cose opinabili. Chi, infatti, crede nell’esistenza di qualche cosa che sia bene o male per natura, si conturba continuamente, non solo quando non possiede quello ch’egli ritiene esser bene, ma anche quando crede d’essere perseguito da quello che ritiene essere male per natura, e persegue i beni, com’egli li considera. E, una volta che li abbia conseguiti, viene e cascare in una copia maggiore di turbamenti, e perché s’imbaldanzisce fuor di ragione e misura, e perché, temendo un cambiamento, fa di tutto per non perdere quelli ch’egli considera beni. Chi, invece, dubita se una cosa sia bene o male per natura, né fugge né persegue nulla con ardore: perciò è imperturbato.

Pertanto allo Scettico è accaduto quello che si narra del pittore Apelle. Dicono che Apelle, dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma. Non riuscendovi in nessun modo, vi rinunziò, e scagliò contro il dipinto la spugna, nella quale astergeva il pennello intinto di diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, vi lasciò un’impronta che pareva schiuma. Anche gli Scettici speravano di conseguire la imperturbabilità dirimendo la disuguaglianza ch’è tra i dati del senso e quelli della ragione; ma, non potendo riuscirvi, sospesero il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, tenne dietro la imperturbabilità, quale l’ombra al corpo.

Comunque noi non riteniamo che lo Scettico vada del tutto esente da turbamenti, ma diciamo ch’egli è turbato da fatti che sono per necessità, giacché ammettiamo che talora egli soffra il freddo e la sete e simili affezioni. Ma in questi fatti il volgo soffre doppiamente, e per le affezioni stesse e, nello stesso tempo, perché questi stati penosi giudica mali per natura. Lo Scettico, invece, sopprimendo quell’opinamento che gli altri aggiungono all’affezione, cioè che ciascuno di questi stati è un male per natura, se ne libera con turbamento minore. Per questo, dunque, diciamo che il fine dello Scettico è la imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni che sono per necessità.

Alcuni Scettici, degni di considerazione, aggiunsero a queste due cose la sospensione del giudizio nelle investigazioni.