Tra le forme popolari attraverso cui il sapere si è tramandato dall’antichità in avanti troviamo le enciclopedie o i trattati simili. Una enciclopedia non si proponeva di fornire una serie di definizioni scientifiche (del tipo “un cane è un mammifero del sottordine dei placentalia, ordine dei carnivori, subordine dei fissipedi, famiglia dei canidi, genere canis e specie canis familiaris”, come diremmo oggi). A parte che questa classificazione non ci dice come sia fatto un cane, definizioni di questa precisione sono molto tarde e ancora nel XVII secolo il Dizionario della crusca definiva il cane come “animal noto”. Ma gli antichi volevano sapere, come farebbe da noi un bambino, non solo come è fatto un cane (o un cammello, o dove sia l’Asia, o che cosa sia un diamante), ma dove questi animali, luoghi o pietre si trovino, e come siano fatti. Questo tipo di informazione viene chiamato ancora oggi “enciclopedico”.
Il termine enciclopedia viene da enkýklios paidéia, che nella tradizione greca significava una educazione completa. Benché il termine “enciclopedia” faccia la sua apparizione solo nel XVI secolo, l’idea di una trattazione enciclopedica risale all’antichità.
LETTURE
Filosofia e formazione del cittadino da Platone ad Aristotele
Non ci sono pervenute enciclopedie greche, almeno nel senso di sillogi o raccolte di un sapere precedente. Certamente l’opera di Aristotele è una enciclopedia che spazia dalla logica all’astronomia, dallo studio degli animali alla psicologia, però non si presenta come collezione di un sapere compartecipato, bensì come nuova proposta.
Quelli che sono stati visti come esempio di enciclopedismo greco sono piuttosto manifestazioni di curiosità o meraviglia per terre e popoli prodigiosi, e in tal senso è stata individuata una vena enciclopedica nell’Odissea. Interessi enciclopedici sono certamente presenti nello storico Erodoto quando descrive le cose meravigliose dell’Egitto e di altri popoli barbari.
Probabilmente all’inizio del periodo ellenistico – anche se di incerta datazione e di attribuzione spuria a Callistene, contemporaneo di Alessandro – è quel Romanzo di Alessandro che, nel raccontare le avventure del condottiero macedone, di fatto si presenta come un manuale di viaggio per luoghi meravigliosi ricchi di creature prodigiose.
È il periodo alessandrino maturo quello che produce molte opere di paradossografia, cioè testi dedicati all’esposizione di eventi e cose meravigliosi, come il trattato dedicato da Stratone di Lampsaco agli animali insoliti, i Mirabilia di Callimaco o quelli di Antigono di Caristo, ed è assegnato ad ambienti ellenistici del III secolo a.C. quel De mirabilibus auscultationibus già attribuito ad Aristotele, che altro non è che una silloge o zibaldone di fatti sorprendenti in campo botanico, mineralogico, zoologico, idrografico e mitologico. Infine potremmo parlare di enciclopedie specializzate per trattazioni geografiche più tarde come il De situ orbis di Pomponio Mela, il De natura animalium di Eliano, o le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.
Il mondo ellenistico assegnava piuttosto la funzione che i Romani e i medievali assegneranno all’enciclopedia non a un volume che parla di tutte le cose ma a una raccolta di tutti i volumi esistenti, la biblioteca, e a una raccolta di tutte le cose possibili, il museo. Per esempio museo e biblioteca costituiti ad Alessandria da Tolomeo I (per cui si parla, a seconda delle epoche, di 500mila o 700mila volumi) erano il nucleo di una vera e propria università, centro di raccolta, di ricerca e di trasmissione del sapere.
L’atteggiamento enciclopedico si sviluppa piuttosto in ambiente romano dove si raccoglie tutto il sapere greco, come in una operazione di appropriazione del patrimonio di quella Graecia capta che ferum victorem cepit. Un primo esempio è quello del Rerum divinarum et humanarum antiquitates di Varrone, di cui ci sono rimasti solo frammenti, e che si occupava di storia, grammatica, matematica, filosofia, astronomia, geografia, agricoltura, diritto, retorica, arti, letteratura, biografia di grandi uomini greci e romani, storia degli dèi. Ci sono invece pervenuti i 37 libri della Historia Naturalis di Plinio il Vecchio (circa 20mila fatti citati e 500 autori consultati), dedicati a cielo e universo in generale, alle varie terre del mondo, a parti prodigiosi e sepolture, animali terrestri, animali acquatici, uccelli, insetti, vegetali, medicine tratte da vegetali e animali, metalli, pittura, pietre e gemme.
A prima vista l’opera di Plinio sembra un mero accumulo disorganizzato di dati privo di struttura ma, se ne si considera con attenzione l’immenso indice, si vede che in effetti l’opera parte dai cieli, poi si occupa di geografia, demografia ed etnografia, quindi di antropologia e fisiologia umana, di zoologia, botanica, agricoltura, giardinaggio, farmacopea naturale, medicina e magia, per poi passare a mineralogia, architettura e arti plastiche – istituendo una sorta di gerarchia dall’originale al derivato, dal naturale all’artificiale.
Il secondo aspetto per cui Plinio traccia un modello per le enciclopedie che lo seguiranno è che egli non parla di cose conosciute per esperienza, bensì pervenutegli dalla tradizione, e non c’è in lui il minimo sforzo di distinguere le informazioni attendibili da quelle leggendarie (egli dà uguale spazio al coccodrillo e a un animale di fantasia come il basilisco). Come avverrà anche per i secoli medievali, l’enciclopedia non intende registrare ciò che realmente c’è, ma ciò che la gente tradizionalmente ritiene che ci sia – e pertanto tutto ciò che una persona educata dovrebbe sapere, non solo per conoscere il mondo ma anche per comprendere i discorsi sul mondo. Questa caratteristica è già evidente nelle enciclopedie ellenistiche (per esempio moltissimi paragrafi del De mirabilibus dello pseudo Aristotele usano espressioni del tipo “dicono che”, “raccontano che”, “si dice che”) e rimarrà costante nelle enciclopedie medievali e in quelle rinascimentali e barocche. Il filosofo francese Michel Foucault (nel suo Le parole e le cose, 1966, II, 3) ricorda che Buffon, nel XVIII secolo, si stupiva che in un naturalista del XVI secolo come Ulisse Aldrovandi ci fosse “una mescolanza inestricabile di descrizioni esatte, di citazioni riferite, di favole senza critica, di osservazioni vertenti indiscriminatamente sull’anatomia, i blasoni, l’habitat, i valori mitologici di un animale, gli usi che se ne possono fare in medicina o in magia”. Di fatto, commentava Foucault, “per Aldrovandi e i suoi contemporanei, tutto ciò è Legenda, cose da leggere […] Occorre raccogliere entro una sola e medesima forma del sapere tutto ciò che è stato veduto e ascoltato, tutto ciò che è stato raccontato dalla natura e dagli uomini, dal linguaggio del mondo, dalla tradizione dei poeti”.
Ora questa caratteristica si applica assai bene anche alle enciclopedie dal mondo antico. Ciò che distingue una enciclopedia contemporanea come la Britannica o la Treccani dalle enciclopedie ellenistiche o da quella di Plinio il Vecchio è semplicemente l’attenzione critica che si dedica a separare le nozioni leggendarie da quelle scientificamente provate. Ma, a parte questa differenza, anche un’enciclopedia contemporanea è tenuta in linea di principio a dirci tutto quello che è stato detto, sia sull’acido solforico che su Apollo o sul Mago Merlino.