In che cosa consiste la fonosfera, ossia il paesaggio sonoro degli antichi?
Possiamo immaginare che, anche in essa, circolassero voci o grida prodotte dagli esseri umani, come accade nel mondo contemporaneo. Ma a parte questa immediata intersezione, identificarne altre è difficile. La fonosfera dei nostri avi sarà stata più sottile e leggera della nostra. Soprattutto però diverso doveva essere il suo impasto, perché in essa figuravano suoni e rumori che nel nostro mondo, a motivo dei vari mutamenti di civiltà, sono ormai andati perduti. Si pensi per esempio ai colpi del martello, il malleus o marculus dei Romani, uno strumento che doveva essere molto più usato di oggi (da fabbri, stagnai, maniscalchi, carpentieri...); allo strepitus prodotto dalle molae, le macine dei mugnai, le quali trituravano il grano ruotando attorno a un’asse sotto la spinta di schiavi o di asini; poi naturalmente al cigolio dei carri sugli acciottolati cittadini. “Chi abita presso la via” scrive il poeta Callimaco “è svegliato dall’asse che stride di sotto il carro; e lo affliggono i fitti colpi dei miseri fabbri che attizzano il fuoco” (Ecale, fr. 351). Ma della fonosfera antica potevano far parte anche emissioni sonore più sinistre, e certo più sorprendenti per noi.
Seneca, nel I secolo, scrive che Pedone Albinovano abita sopra la casa di Sesto Papinio, uno di quelli che “sfuggono la luce”, nel senso che svolgono di notte tutte le normali attività della giornata, producendo, ovviamente, anche i relativi rumori. I quali diventano così rumori notturni, e quindi oggetto di una certa attenzione (di un certo fastidio?) da parte di Pedone, che li registra puntualmente. “Verso l’ora terza di notte” racconta “si sente risuonare la frusta (flagellorum sonus). Chiedo che cosa faccia Papinio, mi rispondono che sta facendo i conti”. Dato che a Roma la calcolatrice è uno “strumento umano”, cioè uno schiavo, il quale funge anche da segretario, il rumore congruente alla contabilità non è un ticchettio di tastiera, ma il crosciare delle frustate. “Verso l’ora sesta” continua infatti Pedone “si sentono invece delle grida concitate (clamor concitatus). Chiedo che cosa succede, mi dicono che fa esercizi vocali (vocem exercere). Verso l’ora ottava della notte mi chiedo cosa significhi quel rumore di ruote (sonus rotarum): mi dicono che esce in carrozza” (Epistole morali, 122, 16).
All’interno del paesaggio sonoro degli antichi, però, esiste un’altra “voce” importante che occorre registrare: le emissioni vocali prodotte dagli animali. Nell’antichità le voci degli animali sono infinitamente più numerose e più diffuse di quanto accada oggi, perché le “fonti” che le emettono fanno strettamente parte del tessuto economico, sociale o semplicemente umano. Inoltre le voci degli animali dovevano risultare anche estremamente più udibili rispetto ad oggi. Forse proprio per questo, ma non solo, esse sono anche voci piene di significato – e questo costituisce un’ulteriore differenza, certo la più interessante, fra la fonosfera antica e quella moderna. Un asino che raglia, o un uccello che canta, per noi sono semplicemente dei suoni fra i tanti. Al contrario, per gli antichi le voci degli animali costituiscono sonorità ominose, come appunto avviene con i canti degli uccelli o con il raglio dell’asino. Sono voci che predicono il tempo o annunciano la stagione, e per questo motivo vengono ascoltate con particolare interesse da contadini o naviganti.
Basti pensare all’attenzione con cui gli antichi osservano, o meglio ascoltano, la voce del corvo, volatile divinatorio quant’altri mai. Nei libri degli specialisti romani di divinazione, gli aruspices, alla voce di questo uccello sono attribuiti ben 64 significati differenti. Anche Porfirio, filosofo e teologo greco del III secolo, ci informa che gli auguri greci hanno annotato l’interpretazione di numerose differenze percepibili all’interno delle voci di corvi e cornacchie; ma al di là di una certa soglia si arrestano perfino loro, e lasciano perdere, perché si tratta di sottigliezze scarsamente percepibili all’orecchio umano!
I canti degli uccelli, comunque, non costituiscono solo una fonte di informazione riguardo agli accadimenti futuri, ma in particolare a poeti e musicisti forniscono uno straordinario serbatoio di memorie sonore, che possono poi essere riutilizzate nella composizione artistica. Basti ricordare il poeta greco Alcmane, che in una sorta di sua autopresentazione poetica, afferma: “Queste parole e il canto Alcmane trovò, componendo in linguaggio la voce delle pernici” (Alcmane, fr. 39). Siamo di fronte a un artista che – con grande “modernità”, se così si può dire – ama trasferire nel proprio linguaggio poetico e musicale elementi tratti dal paesaggio sonoro in cui è immerso. Così come quando il poeta evoca il suono di uno strumento che egli definisce kerkolúra, ossia “una lira che riecheggia il suono della kerkís”, la spola del telaio (fr. 196). Soprattutto, però, occorre ricordare che Alcmane mostra una particolare sensibilità proprio riguardo al mondo degli uccelli. Nei versi forse più celebri che di lui ci sono giunti, il vecchio poeta sogna di essere “un cerilo, che vola con le alcioni sul fiore dell’onda”, dove le alcioni rappresentano le giovani coreute; e se Agesicora “canta come un cigno”, le altre fanciulle, a lei inferiori, si sentono simili a “una civetta che invano dal trave grida”.
Dal punto di vista dell’interazione fra fonosfera e composizione poetico-musicale, altrettanto interessanti risultano le affermazioni di filosofi, poeti e intellettuali antichi che teorizzano l’origine della musica e della poesia. Ateneo, l’autore che ci tramanda il frammento di Alcmane sulle pernici, dà di questo testo un’interpretazione piuttosto esplicita: “in questo modo [Alcmane] rende chiaro che ha imparato a cantare dalle pernici”. Nei confronti del poeta, gli uccelli hanno dunque svolto il ruolo di maestri. Dietro questa affermazione troviamo l’eco di una teoria della genesi poetica e musicale espressa più volte nella cultura greca e romana. Ancora Ateneo, infatti, alla citazione del frammento di Alcmane fa seguire un’affermazione esplicita di Cameleonte Pontico, secondo cui “l’invenzione della musica fu escogitata dagli antichi prendendo esempio dagli uccelli che cantano nei luoghi solitari” (I sofisti a banchetto, 9, 389 f-390). Anche Plutarco, convinto sostenitore della tesi secondo cui gli animali sono dotati di ragione, sostiene che i migliori poeti hanno modellato le loro più soavi “poesie e melodie” sui “canti” di cigni e usignoli: sarebbe stato anzi Democrito ad affermare che nel “canto” siamo discepoli del cigno e dell’usignolo (Plutarco, Sull’intelligenza degli animali, 19 sg.). Mentre anche Lucrezio (De rerum natura 5, 1379 sg.) ammonisce che “l’arte di imitare con la bocca gli squillanti canti degli uccelli cominciò ben prima che gli uomini fossero in grado di eseguire poemi regolari, producendo piacere per le orecchie”.
Queste affermazioni degli antichi ci riconducono, piuttosto inaspettatamente, a esperienze musicali moderne, a quei compositori che al paesaggio sonoro, e al canto degli uccelli in particolare, si sono ispirati. Primo fra tutti Olivier Messiaen, che per tutto il corso delle propria vita, ascolta e registra le voci delle creature aeree, raccogliendo queste sue esperienze nel monumentale Traité de rythme, de couleur et d’ornithologie, in sette volumi; ma soprattutto le rielabora musicalmente in opere come il terzo movimento (Abyme des oiseaux per clarinetto solo) del Quatuor pour la fin du temps, o il Catalogue d’oiseaux per pianoforte. Ma altrettanto interessante risulta la Danse sacrée che fa parte del Sacre du printemps di Igor Stravinskij. In questa composizione, infatti, il musicista mostra di richiamare la pratica ritmica di alcuni uccelli, in particolare l’Acrocephalus schoenebaenus. Il procedimento su cui si fonda la vocalità di questo volatile consiste nel “giocare” fra tre oggetti sonori, di cui uno, a differenza degli altri, è ripetuto più volte di seguito secondo un certo pattern ritmico. Ora, anche Stravinskij, nella Danse sacrée, ricorre a formule simili, facendo un uso estremamente suggestivo della ripetizione (che non corrisponde mai a un riempitivo, o al prodotto di un’immaginazione bloccata, ma a “un outil essentiel de l’invention”). Stravinskij compone il Sacre sulle rive del Bug, a Ustilug, dove uccelli acquatici del genere Acrocephalus – i quali utilizzano tutti patterns ritmici dello stesso genere – potevano essere frequenti. Ma indipendentemente dalla possibilità di contatti diciamo concreti, o reali, fra il compositore e il mondo vocale di questi uccelli, ciò che più conta ricordare è il carattere specifico del Sacre: un’opera dominata dall’idea di ricreare un mondo primitivo.
Alcmane, il lirico greco che ha orgogliosamente dichiarato “io conosco le melodie di tutti gli uccelli”, si trova dunque in buona compagnia. Lungi dal costituire una semplice “metafora”, come qualcuno ha voluto affermare, la sua dichiarazione di poetica aerea, e la sua riarticolazione artistica del canto delle pernici, segnano la prima tappa (a noi conosciuta) del lungo cammino percorso insieme da musicisti e creature dell’aria. Una vicenda fatta di interazioni a volte dichiarate, come nel caso di Alcmane o di Messiaen, altre volte solo intuibili, ma i cui straordinari esiti testimoniano in ogni caso che la convergenza fra i due universi sonori, enunciata con tanto vigore dagli antichi, costituisce un aspetto fondamentale della storia della creazione musicale.