Testi

T1AgostinoIl problema del tempo

Le pagine dell’XI libro delle Confessioni contengono una delle più celebri riflessioni filosofiche sul problema del tempo. Agostino si pone il problema di cosa sia il tempo a partire dalla domanda: che cosa faceva Dio prima della creazione? La questione ha una grande rilevanza teologica, poiché chiedersi dove si collochi Dio all’interno di una linea temporale significa ammettere che egli è soggetto allo scorrere del tempo; ciò comporterebbe la perdita di quegli attributi di eternità, immutabilità e perfezione che sono propri del Dio cristiano. Nel rispondere alla domanda, Agostino sottolinea come parlare di un “prima” e di un “dopo” in riferimento a Dio sia assolutamente fuori luogo, poiché creando il mondo Dio ha creato anche il tempo. Dio trascende il creato e le sue distinzioni temporali in passato, presente e futuro. La questione di cosa facesse Dio prima della creazione è dunque un falso problema, che non può mettere in dubbio l’eternità divina.

Le confessioni, XI 10.12-13.15

da Agostino, Le confessioni, tr. it. di S. Pittaluga, Garzanti, Milano – 1991

Ecco: non sono carichi di vecchiaia quelli che ci chiedono: “Che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti non aveva occupazioni e non faceva nulla,” dicono, “perché non ha anche dopo mantenuto questo stato, in cui si asteneva da ogni operazione? […] Ma se nella sostanza divina sorge qualcosa che non c’era prima, non è vera l’asserzione che questa sostanza è eterna; se invece la volontà divina che esistesse il creato era eterna, perché non sarebbe eterno anche il creato?”.

Ecco come rispondo a chi domanda che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra. Non come fece quel tale che eluse con una battuta di spirito l’aggressività della domanda, rispondendo, dicono: “Preparava la Geenna per chi indaga gli abissi”. Ridere non basta per capire. No, non rispondo a questo modo: preferirei allora una risposta come: “Quello che non so, non lo so”, che almeno risparmia la facile ironia per chi solleva una questione profonda e il plauso per chi dà una risposta falsa. […].

Ma se qualcuno è tanto leggero di mente da fantasticare di tempi più remoti ancora, e si meraviglia che tu, un Dio che tutto può e tutto crea e sostiene, artefice del cielo e della terra, abbia atteso innumerevoli secoli prima di metter mano a un’opera così grandiosa – si svegli e apra bene gli occhi, perché è irreale ciò di cui si meraviglia. E come potevano passare innumerevoli secoli se non li avevi fatti tu, l’autore di tutti i secoli, tu che li instauri? E come può esistere un tempo che tu non hai instaurato? E come può esser passato, se non è mai esistito? Se insomma tutto il tempo è opera tua, e se c’è stato un tempo prima che tu facessi il cielo e la terra, perché si dice che ti astenevi da ogni opera? Quel tempo precedente, appunto, l’avresti istituito tu, e non un solo momento di tempo poteva passare, prima che tu istituissi il tempo. Se invece non esisteva il tempo prima che fossero fatti il cielo e la terra, perché chiedersi che cosa tu facessi allora? Non c’è un allora dove non c’è il tempo”.

T2AgostinoL’ordine, il male e l’errore

Nel dialogo tra Trigezio e Licenzio si solleva il problema di come sia possibile conciliare l’ordine del mondo, istituito da Dio, con il male e l’errore. Dalle parole di Licenzio emerge una posizione complessa: se niente si oppone a Dio e all’ordine che da lui discende, nemmeno l’errore può dirsi realmente estraneo all’ordine stesso. Trigezio, dal canto suo, giudica questa posizione insostenibile per le conseguenze empie che comporta: come si può infatti ammettere che l’errore e il male non si oppongono all’ordine? Ne seguirebbe che il male, non opponendosi a Dio, è in Dio stesso e nell’ordine del mondo che egli ha stabilito; il male sarebbe quindi oggetto dell’amore e della volontà divina. La risposta di Licenzio chiarisce come vada inteso il rapporto tra il male delle creature, che l’esperienza ci testimonia, e l’ordine divino. Dio non ama il male, perché è nell’ordine delle cose che Dio ami il bene e non il male: è proprio questa ordinata disposizione che rende possibile la bellezza e l’armonia del creato. La natura stessa del male è di non essere amato da Dio, e in questo senso rientra anch’esso nell’ordine divino del mondo.

L’ordine,

da Agostino, L’ordine, tr. it. di M. Bettetini, Rusconi, Milano – 1992

E io domandai: “Almeno, che cosa pensi che sia contrario all’ordine?”

“Niente – rispose –. Come potrebbe qualcosa essere contrario a ciò che tutto comprende, tutto subordina? Ciò che fosse contrario all’ordine, sarebbe necessariamente al di fuori dell’ordine. E io non vedo che ci sia nulla al di fuori dell’ordine. Quindi si deve pensare che non ci sia niente di contrario all’ordine”.

“Dunque – intervenne Trigezio –, l’errore non è contrario all’ordine?”

“Assolutamente – rispose –. Infatti non vedo mai nessuno sbagliare senza una causa e nell’ordine sono incluse le serie delle cause. Inoltre l’errore stesso non solo è generato da una causa, ma genera anche qualcosa del quale diventa causa. Quindi per il fatto che non è al di fuori dell’ordine, non può essere contrario all’ordine.” […]

Ma Trigezio, quando si accorse che il ragazzino, come se avesse smaltito un’ubriacatura, era diventato affabile e pronto al dialogo, disse: “Quello che dici, Licenzio, mi sembra assurdo e molto lontano dalla verità. Ma ti prego, lasciami continuare ancora un poco e non mi interrompere declamando”.

“Di’ quello che vuoi – rispose Licenzio –, non ho paura infatti che tu mi allontani da ciò che vedo e quasi posseggo.”

“Magari – riprese – non ti fossi allontanato da quell’ordine che difendi, non mancheresti così tanto di riguardo (per parlare con moderazione) nei confronti di Dio. Infatti che cosa si è potuto mai dire di più empio, che anche il male è contenuto nell’ordine? Sicuramente Dio ama l’ordine.”

“Certo che l’ama – intervenne l’altro –, da lui deriva e in lui si fonda. E, ti prego, rifletti se si possa dire qualcosa in modo più conveniente su un argomento tanto elevato. Io non sono la persona adatta a parlatene per ora”.

“Che vuoi che pensi? – disse Trigezio – Comprendo bene ciò che dici e per me è abbastanza ciò che ne capisco. Infatti hai detto che anche il male è contenuto nell’ordine e che lo stesso ordine deriva da Dio e che da Dio è amato. Da questo consegue che anche il male deriva da Dio e che Dio ama il male”.

Dopo questa conclusione ebbi paura per Licenzio. Ma egli era preoccupato per la difficoltà terminologica e non cercava affatto che cosa rispondere, piuttosto in che modo poter esprimere ciò che doveva rispondere: “Dio non ama il male – disse –, se non altro perché non fa parte dell’ordine che anche Dio ami il male. E per questo ama molto l’ordine, perché per esso non ama il male. E come è possibile che il male rientri nell’ordine, se Dio non lo ama? Infatti l’ordine stesso del male è di non essere amato da Dio. E forse ti sembra un ordine insufficiente delle cose, che Dio ami il bene e non ami il male? Dunque il male che Dio non ama non è fuori dall’ordine che Dio ama: egli infatti vuole che si ami il bene e che non si ami il male e questo viene dal supremo ordine e dalla divina disposizione. E poiché questo ordine e questa disposizione garantiscono, grazie a questa stessa distinzione, l’armonia dell’universo, ne consegue che anche il male sia necessario. Così in certo qual modo la bellezza di tutte quante le cose è plasmata dalle antitesi, dai contrari, cosa che per noi è piacevole anche nel parlare.”

T7Severino BoezioL’incontro con Filosofia

Boezio scrive il De consolatione philosophiae mentre si trova in carcere. Imprigionato con l’accusa di cospirare contro il re goto Teodorico, il filosofo attende che venga eseguita la sentenza di morte. Tutto ha inizio con l’apparizione di Filosofia: le due lettere sul suo abito, lacerato dalla violenza delle discussioni tra filosofi, indicano l’aspetto pratico e speculativo della filosofia. Essa sottrae Boezio al torpore della mente inflittogli dalla sua condizione e dalle Muse della poesia, incapaci di guarire l’anima del filosofo. La vera consolazione, infatti, si può ottenere solo mediante l’uso della ragione, e non del sentimento. Filosofia spiegherà a Boezio che il motivo della sua prigionia è la sua natura stessa di filosofo: in essa, e non nei beni materiali, egli dovrà ricercare la felicità. Ciò sarà possibile solo dopo che la presa di coscienza resa possibile dal dialogo con Filosofia avrà condotto Boezio a riscoprire il senso della propria identità e la dignità della propria condizione di uomo razionale e di filosofo.

La consolazione della filosofia,

da Severino Boezio, La consolazione della filosofia, trad. it. di O. Dallera, BUR, Milano – 1977

Mentre io nel silenzio andavo rimuginando tra me e me queste riflessioni, e annotavo, scrivendo, il mio lacrimevole lamento, mi sembrò che sopra il mio capo fosse apparsa una donna di aspetto venerando, dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità degli uomini. Il suo colorito era vivo e integro il suo vigore, benché ella fosse tanto carica d’anni da non potersi credere in nessun modo appartenente al tempo nostro. La sua statura era di ambigua valutazione. Ora infatti si manteneva nei limiti della normale statura degli uomini, ora invece sembrava toccare il cielo con la sommità del capo: e quando levava la testa ancor più in altro, penetrava nel cielo stesso, rendendo vano lo sguardo di chi tentava di seguirla con gli occhi.

Le sue vesti erano intessute, con fine senso artistico, di fili sottilissimi d’una materia incorruttibile; come venni poi a sapere dalle sue parole, le aveva confezionate lei stessa con le sue mani; la loro bellezza, come accade per le pitture offuscate dal tempo, era velata da quella indefinibile patina che è propria delle cose antiche e trascurate. Nel lembo inferiore del vestito si poteva leggere, ricamata, una Π greca, in quello superiore, invece, una Θ e tra le due lettere apparivano disegnati in figura di scala alcuni gradini per mezzo dei quali era possibile risalire dalla lettera inferiore a quella superiore. La stessa veste appariva tuttavia lacerata da mani violente, che ne avevano portati via quanti brandelli avevano potuto. La donna reggeva nella mano destra dei libri, nella sinistra uno scettro.

Come vide attorno al mio letto le Muse della poesia che suggerivano parole al mio pianto, si turbò lievemente e con una luce cupa negli occhi, esclamò: “Chi ha permesso che si accostassero al malato queste sgualdrinelle da teatro che non solo non possono offrire alcun rimedio ai suoi dolori, ma anzi con i loro dolci veleni li alimenteranno?

Son proprio costoro che soffocano tra le sterili spine del sentimento la messe della ragione rigogliosa di frutti, e anziché liberare la mente umana dalla malattia, ne provocano l’assuefazione. Se le vostre lusinghe mi sottraessero qualche profano, come è vostro costume, riterrei meno grave l’affronto – nel suo caso infatti non sarebbe per nulla danneggiata l’opera mia –, ma sottrarmi proprio quest’uomo cresciuto negli studi eleatici e accademici? Andatevene, Sirene rovinosamente incantevoli e lasciate che siano le mie arti a prenderlo in cura e a guarirlo”.

1. Iniziale di práxis, cioè l’aspetto pratico della filosofia 2. Iniziale di théoresis, cioè l’aspetto teoretico della filosofia

T10Giovanni Scoto EriugenaDio e il linguaggio umano

Nel De divisione naturae, emerge l’influenza che gli scritti dello Pseudo-Dionigi hanno avuto su Eriugena. Il filosofo neoplatonico, nel VI secolo, aveva sostenuto l’idea che il modo più adeguato di parlare di Dio fosse quello per negazioni, dal momento che qualsiasi termine o definizione lo avrebbe limitato. Giovanni riprende le riflessioni dello Pseudo-Dionigi e mette in evidenza come questo linguaggio “apofatico” non sia da intendere in senso privativo ma come modo per trascendere i limiti del linguaggio umano. Se infatti ogni parola ammette un proprio contrario, non è corretto avvalersene per descrivere Dio, a cui nulla si oppone. Parlare per negazioni significa quindi collocare Dio al di là delle capacità del linguaggio.

Sulle nature dell’universo,

da Giovanni Scoto Eriugena, Sulle nature dell’universo, trad. it. di F. Paparella, Cortina, Milano – 2003

Se allora i nomi precedentemente attribuiti alle divinità vedono altri nomi a loro assolutamente contrapposti, necessariamente si deve ritenere che le realtà da loro significate ammettano contrari ugualmente opposti. Per questa ragione [tali nomi] non possono essere predicati di Dio al quale nulla di oppone o al cui interno non si può rivenire una realtà che in quanto coeterna a Lui sia differente. La ragione ben condotta, pertanto, non può ritrovare nessuno dei nomi precedentemente citati o altri simili. […]

Tuttavia, poiché gli appellativi divini che nella Sacra Scrittura sono predicati di Dio in modo traslato, dalla creatura al creatore – se poi si possa correttamente asserire che qualcosa è predicabile di Dio questa è una questione che dovrà essere analizzata in un altro luogo – sono innumerevoli e non possono, in ragione della pochezza della nostra capacità razionale, venir raccolti e ricordati tutti insieme, si dovranno ricordare pochi nomi divini a titolo d’esempio. Dio, allora, è definito essenza, ma non è in senso proprio essenza: l’essere, infatti, si oppone al non essere. Allora [Dio] è hyperousios ovvero superessenziale. Ancora Dio è detto bontà, ma non in senso proprio bontà: alla bontà, infatti, si oppone la malvagità. Allora Dio è hyperágathos ovvero più che buono, hyperagatótheta, superiore-alla-stessa-bontà. Si dice Dio ma non è Dio in senso proprio: infatti al vedere si oppone la cecità e a colui che vede il cieco. Allora è hypértheos ovvero più-che-dotato-della-vista. theós, infatti, può essere tradotto come “Colui che vede”.