4. Le scuole cittadine: Chartres e San Vittore

di Roberto Limonta

4.1 Dai monasteri alle scuole

Nell’alto medioevo, tra il VII e l’XI secolo, il centro della vita culturale nell’Occidente latino era il monastero. Una fitta rete di centri monastici si estendeva su tutta Europa: isolate nel silenzio delle campagne e dotate di ricche biblioteche, le abbazie erano luogo di conservazione, tradizione e commento dei testi. La cultura monastica è un fenomeno di lunga durata: agli inizi del XII secolo Anselmo d’Aosta si muove ancora pienamente in questo clima e, pochi decenni dopo, Abelardo trascorre i suoi ultimi anni all’abbazia di Cluny.

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Gli ordini religiosi

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Leggere, meditare, contemplare: filosofia e monachesimo nel medioevo

A partire dal XII secolo, le trasformazioni legate alla crescita demografica ed economica e all’espansione delle città modificano decisamente questo scenario: ai monasteri si affiancano nuovi centri intellettuali, sorti nelle città e legati all’autorità vescovile. Essi non sono il frutto della volontà riformatrice di un monarca o di una dinastia, ma delle esigenze poste dal nuovo contesto sociale. Il Decreto laterano del 1179 stabilisce che ogni cattedrale deve dotarsi di una scuola, istituzionalizzando così una trasformazione già in atto nei decenni precedenti. Le nuove scuole cittadine sono sottoposte al diretto controllo delle autorità ecclesiastiche: rette da uno scholasticus sottoposto al vescovo o all’abate, le scuole rimangono sempre legate a un insediamento religioso, sia esso cattedrale o abbazia. Destinatari dell’insegnamento sono i giovani chierici assegnati ai capitoli, i monaci e gli oblati dei monasteri (cioè i giovani offerti a Dio e consegnati ai conventi fin dall’infanzia) ma anche chierici attirati dalla fama di un maestro celebre.

La figura del magister, l’ordine dei saperi, il metodo d’insegnamento

Con l’affermarsi delle scuole cittadine si profila un diverso rapporto tra maestro e allievi: nel modello monastico la relazione educativa era anche legame personale, condivisione di una vita di preghiera e di reciproco sostegno. Con le scuole cittadine, invece, il rapporto didattico assume un più marcato carattere legato al riconoscimento di un mestiere intellettuale, quello del “maestro” (magister). Inizialmente, il magister è un canonico (cioè un chierico tenuto all’osservanza di una regola o canone) della cattedrale, quindi un funzionario incaricato dal vescovo e dotato di prebende, cioè di una rendita economica. In breve tempo, tuttavia, la figura del magister diventa quella di un autentico professionista del sapere, legittimato all’insegnamento dalla licentia ubique docendi concessa dal vescovo. Il nuovo contesto sociale comporta quindi una ridefinizione e una diversa coscienza del proprio ruolo da parte dei maestri. La struttura della vita cittadina si regge ora sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione delle professioni; l’insegnamento è una di queste, e garantisce al magister il riconoscimento della propria competenza e una remunerazione che lo rende sempre più autonomo.

Queste trasformazioni si legano a mutamenti profondi nel curriculum delle discipline. Anche se il repertorio dei testi resta in buona parte quello tradizionale, dalle Sacre Scritture ai Padri della Chiesa per esempio, alcune fonti acquistano un diverso rilievo rispetto al passato, in particolare i testi della tradizione platonica e neoplatonica, opere note da tempo ma oggetto ora di una rinnovata attenzione. È l’unità stessa del sistema dei saperi che comincia a sgretolarsi: lo studio delle arti del linguaggio (il trivio, ossia la grammatica, la retorica e la dialettica) si sgancia dall’esegesi del Testo Sacro e diventa sempre più autonomo. Muta il concetto stesso di “arte liberale” e l’aggettivo “liberale” passa a indicare non più l’individuo libero dalla necessità del lavoro ma una qualità delle arti stesse, che sono “liberali” in quanto liberano l’uomo dalle necessità materiali e lo orientano verso una meta intellettuale.

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Pietro Abelardo

TESTO

T4: Pietro Abelardo, Magister e scuole cittadine

Anche il metodo d’insegnamento nelle scuole cittadine testimonia i mutamenti in atto. Basti pensare a come si trasforma la quaestio (letteralmente “questione”, “domanda”). Essa è dapprima un metodo per conciliare le divergenze dottrinali tra le fonti citate (auctoritates): il maestro legge il testo (lectio) e interrompe a tratti la lettura con un commento che precisa dapprima il senso letterale (sensus) e poi quello profondo e simbolico (sententia) del brano. In questo contesto, le questioni vengono sollevate dal maestro solo per chiarire i punti oscuri sorti dalla lettura. Nel corso del XII secolo, invece, il magister non è più solo interprete del testo altrui, dal quale si allontana con sempre maggiore frequenza, bensì “determina” – cioè stabilisce dottrinalmente – i problemi da affrontare e come risolverli, imponendo la propria autorità professionale di esperto nelle arti della dialettica. Il magister fa esercitare inoltre anche gli studenti a porre strumentalmente e didatticamente delle questioni al testo: nelle scuole si analizzano i concetti, si risolvono le ambiguità dei termini e si discutono le auctoritates confrontandone le opinioni. Questa pratica darà luogo, fin dal XII e poi soprattutto fra XIII e XIV secolo, alla tradizione dei sophísmata, puzzle logici che portano a conclusioni assurde attraverso passaggi argomentativi apparentemente corretti; essi costituiranno una sorta di palestra mentale per analizzare le leggi del pensiero e del linguaggio e testare limiti e validità di una teoria.

Un “candido manto” di scuole

Nuove scuole sorgono in tutta Europa: da Toledo a Salerno, da Canterbury a Colonia fino allo studium di Bologna, che, attivo sin dal 1088, porterà poi alla nascita della prima università d’Europa. Ma sarà soprattutto la Francia a farsi promotrice di quella che è stata definita la “rinascita del XII secolo”: nascono scuole a Laon, Orléans, Reims, Auxerre, ma soprattutto nell’area parigina, alimentando il mito della città come “nuova Atene”, dove la mundana sapientia delle scuole si contrappone alla teologia monastica. Due sono le scuole che si segnalano per l’intensa attività intellettuale e per l’originalità della riflessione filosofica: quella che sorge ai piedi della cattedrale di Chartres e quella legata all’abbazia di San Vittore, alle porte di Parigi.

4.2 Alla scuola di Platone: i maestri di Chartres

La scuola cattedrale di Chartres risale all’azione del vescovo Fulberto nel X secolo, ma è nel XII che fiorisce la riflessione cosmologica che ne costituirà il tratto più caratteristico. Protagonisti di questa stagione culturale sono Bernardo e Teodorico, maestri e cancellieri della scuola, Guglielmo di Conches e Bernardo Silvestre. Figura originale rispetto alla tradizione naturalistica di Chartres è quella di Gilberto Porretano, cancelliere alla morte di Bernardo e capostipite di una corrente che praticherà l’uso degli strumenti logici e grammaticali nelle discussioni teologiche, con esiti spesso contestati.

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Platone

Tutta la riflessione dei maestri di Chartres è segnata dal riferimento alla tradizione platonica. La fonte principale è il Timeo, che rimane fino alla metà del XII secolo l’unica opera platonica disponibile, peraltro in forma parziale: i maestri chartriani vi accedono attraverso Calcidio, neoplatonico cristiano del IV secolo che ne aveva tradotto e commentato la prima parte, dedicata ai temi cosmologici.

Altre fonti del platonismo medievale sono: il Commentarium in Somnium Scipionis di Macrobio (IV secolo), commento all’episodio – noto come “sogno di Scipione” – che chiude la Repubblica di Cicerone e dove si espone una dottrina dell’anima ispirata a quella di Platone; le opere di autori pagani legati alla tradizione platonica, quali Apuleio (II secolo) e Marziano Capella (V secolo), e soprattutto i testi ermetici come l’Asclepius, che gli autori del XII secolo leggono come un compendio della filosofia platonica conciliabile con l’insegnamento cristiano; le opere dello Pseudo-Dionigi nella traduzione di Scoto Eriugena; infine Boezio, di cui si apprezza la capacità di muoversi senza contraddizione tra la logica aristotelica e la filosofia di Platone. Questi testi erano in buona parte già presenti nelle biblioteche altomedievali, ma un movimento di nuove traduzioni di opere scientifiche e filosofiche in greco e in arabo dà un impulso decisivo al loro studio: a Palermo Enrico Aristippo traduce il Menone e il Fedone, oltre all’Elementatio Physica del neoplatonico Proclo; si traducono testi scientifici di Tolomeo ed Euclide, e dall’arabo prevalentemente opere di astronomia, astrologia e medicina.

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Il più grande astronomo antico: Tolomeo

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Euclide e la comunità alessandrina

Gli autori della scuola di Chartres elaborano una filosofia della natura che concilia la cosmologia del Timeo con il racconto biblico della creazione del mondo. Nelle loro opere si fa strada un’idea della natura come ordine di cause in sé concluso e sufficiente, cioè un modello autonomo da indagare secondo il metodo della ricerca scientifica e filosofica. All’universo simbolico della cosmologia altomedievale subentra l’immagine di un mondo naturale che non è solo un velo di allegorie di cui svelare il significato profondo (integumentum) ma anche una realtà fatta di corpi e forze concrete, che obbediscono alle leggi fisiche. Dio è il creatore dell’ordine cosmico, ma dopo l’atto di creazione la vita della natura procede autonomamente senza la necessità di ulteriori interventi divini, regolata com’è dalle leggi che Dio stesso ha posto in essa all’atto della creazione. L’indagine naturalistica tuttavia non sostituisce le verità della fede né vi entra mai in conflitto, ma va intesa piuttosto come un nuovo modo di leggere le Sacre Scritture allo scopo di svelarne il contenuto filosofico e scientifico: anche per i maestri di Chartres, fedeli alla lezione di Agostino, la natura è un grande libro nel quale leggere gli insegnamenti di Dio, ma questa lettura è condotta attraverso lo studio delle ragioni e dei nessi causali che regolano gli eventi naturali.

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Le scuole neoplatoniche

“Il più perfetto platonico dei nostri tempi”: Bernardo di Chartres

Bernardo (morto nel 1130 ca.) inaugura la grande stagione della scuola chartriana. Nella sua riflessione troviamo già alcuni degli elementi che saranno ripresi e sviluppati dai successori: primo fra tutti, il tentativo di colmare la distanza, nel processo di formazione del cosmo, tra la trascendenza di Dio e la materialità del mondo creato. Nelle Glosse al Timeo Bernardo introduce, ricavandolo dal commento di Calcidio, il concetto di “forme native”: esse costituiscono dei principi intermedi tra le idee divine e la materia, e consentono di spiegare il processo con il quale l’eternità e immutabilità delle idee divine conducono all’esistenza e all’ordine delle cose.

La Genesi secondo la fisica: Teodorico di Chartres

Allievo di Bernardo, Teodorico di Chartres (morto dopo il 1156) è cancelliere a Chartres attorno agli anni Quaranta. Oltre ai commenti a Cicerone e Boezio, egli è autore di un’opera enciclopedica per l’insegnamento delle arti liberali, l’Heptatéuchon, e soprattutto del Tractatus de sex dierum operibus (Trattato sull’opera dei sei giorni), conosciuto anche come Hexáemeron, nel quale commenta con gli strumenti della filosofia il testo della Genesi.

Nei commenti, Teodorico distingue quattro modi di esistenza della totalità dell’essere: la “necessità assoluta”, cioè la presenza di tutte le cose nell’unità e semplicità di Dio; la “necessità della connessione”, cioè il dispiegarsi delle cose secondo un ordine; la “possibilità assoluta”, ovvero ciò che i filosofi antichi chiamavano “materia primordiale” o “caos”; infine, la “possibilità determinata”, che è la realtà in atto.

Necessità e possibilità sono i due poli entro i quali si muove anche la riflessione del Tractatus: dalla possibilità come condizione d’indeterminatezza e instabilità propria delle sostanze mondane alla necessità e immutabilità dell’ordine naturale che la ragione viene scoprendo nella sua indagine. L’opera si apre come commento puntuale al testo biblico “in accordo con i principi della fisica” (secundun physicam), ma se ne discosta ben presto per assumere la forma di uno studio dei processi che hanno presieduto alla formazione del cosmo. Sin dalla prime righe del commento, Teodorico utilizza gli strumenti della filosofia, in questo caso la teoria aristotelica delle cause, per leggere il racconto biblico della creazione e dimostrarne l’attendibilità scientifica. Così, nelle parole “In principio Dio creò il cielo e la terra” Dio è da intendere come causa efficiente; egli, attraverso la propria sapienza (causa formale), dà ordine ai quattro elementi (causa materiale) finalizzando la totalità delle cose create al sommo bene che è Dio stesso (causa finale). Il passo “lo spirito di Dio aleggiava sopra le acque”, invece, si riferirebbe all’anima del mondo (anima mundi), teorizzata da Platone nel Timeo. Centrale in questo contesto è la nozione del Verbo, che rappresenta la sapienza di Dio: esso contiene le idee divine che determinano sia l’esistenza di tutte le cose sia la possibilità, per la ragione, di conoscerle nella loro natura essenziale. Posta la materia con l’atto creativo, infatti, Dio lascia che la natura cresca e si strutturi attraverso i principi (“cause seminali” o “nature”) che egli vi ha immesso.

“Nani sulle spalle dei giganti”, storia di un aforisma

Il medioevo è noto per essere un’epoca in cui vige un’assoluta deferenza sia verso i testi sacri che verso il pensiero dei grandi filosofi del passato. Il problema del pensatore medievale parrebbe quello non di essere originale bensì di rimanere fedele al pensiero delle auctoritates precedenti. Tuttavia circolano nell’ambito del pensiero medievale alcuni detti, come per esempio non nova sed nove, da cui traspare, se non la volontà di dire cose nuove (nova), quella di dirle in modo nuovo (nove). Come l’innovazione possa andare di pari passo con il rispetto dell’autorità lo diceva un celeberrimo detto di Alano di Lilla: “l’autorità è un naso di cera che può essere torto a proprio piacimento”. Era un modo abbastanza impudente di dire che l’ossequio all’auctoritas consiste nel rispettarne la lettera del discorso riservandosi il diritto di interpretarla secondo il proprio modo di vedere le cose.

Ma il detto che più ha avuto fortuna, tanto da sopravvivere anche in epoca moderna, e che più profondamente caratterizza lo spirito medievale, è il cosiddetto aforisma dei nani e dei giganti – secondo il quale coloro che ci hanno preceduto sono dei giganti e noi siamo solo dei nani che sediamo sulle loro spalle, ma proprio per questo noi riusciamo a vedere più lontano di loro. L’aforisma viene comunemente attribuito a Bernardo di Chartres, citato da Giovanni di Salisbury nel Metalógicon (III, 4): “Bernardo sosteneva che noi siamo come nani sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere un maggior numero di cose e più lontano di loro, tuttavia non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo più in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti”. Tuttavia Bernardo non ne sarebbe il primo inventore, perché il concetto (se non la metafora dei nani) appare sei secoli prima in Prisciano. Ritroviamo l’aforisma nel 1160 in un testo della scuola di Laon, e dopo, nel 1185 circa, nello storico danese Sven Aggesen, nonché in Alessandro Neckham, Pietro di Blois e Alano di Lilla e in diversi autori fra XIII e XIV secolo.

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Il Metalógicon di Giovanni di Salisbury

L’aforisma ha conosciuto una grande fortuna nei tempi moderni, ma in questa sede ci interessa il senso che l’aforisma assumeva nel mondo medievale, e la prima domanda che ci si deve porre è se l’aforisma fosse “umile” o “superbo”. Infatti può essere inteso nel senso che conosciamo, sia pure meglio, quello che gli antichi ci hanno insegnato, o che conosciamo, sia pure grazie agli antichi, ben più di loro. Se un aforisma analogo che appare in San Bernardo, il quale parla degli spigolatori che vanno dietro ai mietitori, non lascia adito a dubbi, perché gli spigolatori colgono solo gli avanzi dei grandi mietitori, ambigua rimaneva la posizione di Prisciano e del suo glossatore di Conches, il quale dice che i moderni sono “più perspicaci” degli antichi, ma non “più sapienti”.

Rimane quindi dubbio se e in quale misura il medievale che usava l’aforisma stesse sostenendo la superiorità dei moderni o addirittura la continuità della storia. Poiché uno dei temi ricorrenti della cultura medievale è la progressiva senescenza del mondo, si potrebbe interpretare l’aforisma di Bernardo nel senso che, visto che mundus senescit, e inesorabilmente, si possono al massimo elogiare alcuni vantaggi di questa tragedia.

Bernardo di Chartres rimprovera gli allievi che copiano servilmente gli antichi e dice che il problema non è di scrivere come loro ma di imparare da loro a scrivere bene quanto loro, in modo che in seguito qualcuno si ispiri a noi come noi ci ispiriamo a loro. Quindi, seppure non nei termini in cui lo leggiamo oggi, un appello all’autonomia e al coraggio innovativo nel suo aforisma c’era. Pochi anni prima Adelardo di Bath si era scagliato contro una generazione che riteneva accettabili solo le scoperte fatte dagli antichi e nel secolo dopo Sigieri di Brabante dirà che la sola auctoritas non basta, perché noi siamo uomini esattamente come coloro a cui ci ispiriamo, e dunque “perché allora non dovremmo impegnarci nella ricerca razionale come loro?” Nello stesso spirito si può intendere l’invito di Agostino – nel De doctrina christiana (II, 40) –, poi ripreso da Ruggero Bacone: se si trovano delle buone idee presso gli infedeli bisogna appropriarsene, perché se queste idee sono vere appartengono di diritto alla cultura cristiana. Per cui si ammette e incoraggia l’introduzione di idee nuove nel dibattito teologico e filosofico.

Umberto Eco

Natura e anima del mondo in Guglielmo di Conches

Guglielmo di Conches (nato nel 1085 circa e morto dopo il 1154) fu allievo di Bernardo, maestro a Chartres e precettore del duca di Normandia, poi re d’Inghilterra col nome di Enrico II. Autore, come Teodorico, di diversi commenti, il suo pensiero è affidato soprattutto al trattato enciclopedico Philosophia mundi e al Dragmaticon Philosophiae (Dialogo di filosofia).

Nell’opera di Guglielmo è evidente l’intreccio, tipico dell’epoca, tra una pluralità di fonti, dal Timeo alle nuove traduzioni di opere scientifiche e filosofiche. È infatti da testi arabi di medicina che Guglielmo trae una concezione unitaria del mondo, dove le forze che agiscono nell’uomo (microcosmo) sono le stesse che spiegano i fenomeni della natura (macrocosmo), e accoglie il concetto fondamentale di “elemento” come “parte semplice e minima di un corpo” (Philosophia mundi, 1, 22). Acqua, aria, terra e fuoco non possono essere considerati le parti minime dei corpi, in quanto sono composti ulteriormente divisibili e costituiscono semplicemente il limite di ciò che i sensi possono arrivare a percepire, mentre solo l’intelletto è in grado di cogliere per divisioni successive le parti elementari della realtà, giungendo così a comprendere la struttura del mondo fisico.

Dal Timeo poi Guglielmo riprende il concetto di anima del mondo. Egli la intende come una forza naturale che è insita nella creazione e che ha il compito di portare a termine il disegno divino del cosmo. Dopo la genesi, in linea con quanto affermato da Teodorico, tutto ciò che accade in natura è determinato dall’azione delle leggi fisiche che attraversano tutto il creato, dal microcosmo al macrocosmo. Rispetto a Teodorico, tuttavia, si registra in Guglielmo un’attenzione più forte per la natura in quanto oggetto autonomo di indagine, a partire da una convinzione meno salda nella possibilità di cogliere il divino nella realtà.

La cosmologia poetica di Bernardo Silvestre

Suggestioni ermetiche e astrologiche, temi platonici e filosofia della natura si fondono nella Cosmographia di Bernardo Silvestre, dedicata al “famosissimo sapiente e maestro” Teodorico di Chartres. L’opera, un componimento che alterna in modo originale prosa e poesia, è divisa in due libri, Megacosmo e Microcosmo. Il tema è quello, consueto alla tradizione di Chartres, della genesi dell’universo, esposta tuttavia in termini figurati e simbolici: nel Megacosmo, Natura, personificazione delle forze presenti nel creato, chiede a Intelletto, cioè alla mente divina, di mettere ordine alla materia prima (Hýle). Dio concede il suo assenso e genera attraverso i quattro elementi il cosmo e tutte le creature eccetto l’uomo, grazie anche alla mediazione di Endelichia, che rappresenta l’anima del mondo. Nel Microcosmo, il racconto prosegue con la creazione dell’uomo: Intelletto convoca Natura, Urania (principio della vita celeste) e Phýsis (principio della vita fisica), e dona loro la conoscenza speculativa attraverso la quale, operando sulla materia, esse formeranno l’uomo.

TESTO

T6: Bernardo Silvestre, Nuove cosmologie platoniche

Visione e conoscenza: Ildegarda di Bingen

Ildegarda nasce a Bingen, in Renania, nel 1098. A otto anni entra in clausura, e a quattordici diviene monaca benedettina. Badessa a quarant’anni del monastero di Disibodenberg, ne fonda uno lei stessa a Rupertsberg, presso Bingen. Le idee di Ildegarda sulla divinità, il male e il bene, l’origine del cosmo e la storia umana, fino a qualche decennio fa erano associate dagli storici prevalentemente alla riflessione mistica femminile. Oggi il suo pensiero – che rimanda a fonti comuni alle scuole cittadine del suo tempo – è vicino, pur nella singolarità del linguaggio ricco di immagini, a quello dei contemporanei maestri di Chartres e Pietro Abelardo.

Come altre scrittrici medievali (Dhuoda, nobildonna carolingia, Rosvita, anch’essa badessa e poetessa del X secolo, Eloisa, nel XII secolo fino a Christine de Pizan, che esercitò l’attività di scrittrice e filosofa agli albori del Quattrocento) Ildegarda si descrive come una muliercula: “una povera piccola donna” esclusa dal mondo della scuola e della predicazione riservato agli uomini. Per contro, Ildegarda non rinuncia alla scrittura e all’uso della parola e dichiara, anzi, che essa ha un fondamento profetico. Le sue parole sono direttamente garantite dalla Luce divina che illumina ciò che lei vede, quella Luce che la incita e la autorizza a dicere veritatem. Il termine visio ha una grande importanza nel linguaggio di Ildegarda. Esso indica la forma mediante la quale apprende e comunica le verità teologiche e le teorie fisiche o etiche, e tali verità sono realmente conosciute e non sono semplici immagini prive di fondamento, secondo il senso peggiorativo che il termine “visionario” ha poi assunto. Al contrario, evidentiae è il termine talvolta usato da Ildegarda per le immagini che “vede” e che trasmette.

Quando il dono profetico della badessa è riconosciuto nel 1148 da Eugenio III, la monaca inizia a predicare nelle terre di Germania: indirizza lettere ai grandi della terra, sovrani, pontefici, abati e vescovi, e discute con i magistri delle scuole cittadine.

Le opere maggiori di Ildegarda (Scivias, De vita meritorum e De operatione Dei), dettate al segretario Volmar, coprono una vasta gamma di temi di teologia, filosofia naturale e cosmogonia presenti anche negli scritti dei maestri del XII secolo. Ma il linguaggio di Ildegarda, ricco di immagini vivide e di metafore ardite, è più visuale e meno disciplinato di quello dei suoi contemporanei. Ildegarda dichiara di non essere andata a scuola, ma di essere tuttavia “capace di comprendere gli scritti dei Vangeli, dei Padri e di alcuni filosofi” mediante la visione, ossia guardando dentro la realtà del mondo e dell’uomo. Gli storici tuttavia non hanno dubbi che la badessa di Bingen conoscesse molti testi della biblioteca del suo secolo.

Il suo Scivias (Conosci le vie) è un’opera teologica che partendo dal tema della Trinità e dalla Creazione ripercorre la storia dell’uomo dalla Caduta alla Redenzione e Incarnazione e alla Chiesa e ai sacramenti. In una digressione sulle virtù Ildegarda sottolinea il loro duplice aspetto di opere umane e segni della grazia divina: è questo un tema caratteristico dell’autrice che indica l’uomo come “operaius di Dio e adombrarius dei suoi misteri”, ossia collaboratore attivo dell’opera divina (adombrarius allude nell’ombra ai misteri divini).

Nel Liber vitae meritorum (Libro sui meriti della vita) al centro sta la figura dell’Uomo cosmico, che sostiene l’universo e personifica l’eternità di Dio. L’immanenza divina ritorna come tema centrale nel De operatione Dei (L’opera di Dio), forse l’opera più sistematica di Ildegarda: in essa si tratta di un cosmo dal carattere fortemente simbolico e Ildegarda ripropone temi altomedievali, come l’anima del mondo e le idee eterne nella mente di Dio, modelli delle realtà naturali. Ma circolano nel testo anche le nuove teorie di filosofia naturale che muovono la cultura dell’epoca: il mondo è macrocosmo vivente al pari dell’uomo, microcosmo, con il quale ha profonde corrispondenze, come insegnavano anche i maestri della scuola di Chartres.

In Causae et curae (Cause e cure) il pensiero dell’autrice non è esposto tramite la visione, e diversa è la prospettiva d’analisi. Il tema è ancora quello della creazione e della formazione del mondo, ma l’osservazione della esperienza naturale accompagna la narrazione del mito. Si delineano due livelli di realtà: l’immobile perfetto silenzio dell’universo prima della Caduta e una seconda fase “degradata”, quando il cosmo appare mobile e dinamico. Dopo il peccato di Adamo tutto è mutato ma secondo Ildegarda l’impronta dell’origine divina non è scomparsa e rimane nella vita umana la causa della gioia e del sapere. Mentre il pensiero platonico rimane prevalente nell’offrire il quadro d’insieme che possiamo definire anacronisticamente “metafisico”, si fa strada nel pensiero di Ildegarda la tendenza a una lettura “fisica”, stimolata appunto dai nuovi testi scientifici circolanti, come la traduzione della Fisica di Aristotele o delle opere di al-Khuwarizmi, e dall’attenzione crescente all’esperienza.

Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

4.3 Mistica e filosofia: la scuola di San Vittore

La scuola di San Vittore sorge a Parigi per opera di Guglielmo di Champeaux, ritiratosi in quella abbazia dopo lo scontro con Abelardo sulla questione degli universali. Gli succederanno, come priori e direttori della scuola, dapprima Ugo (1096 ca.-1141) e poi Riccardo (morto nel 1173), che orienterà la riflessione vittorina verso il tema dell’accesso mistico a Dio.

LETTURE

L’istruzione e i nuovi centri di cultura

Teologia e saperi mondani: Ugo di San Vittore

I Vittorini uniscono l’indagine razionale e lo studio del sapere profano alla sapienza delle Scritture. Sotto questo aspetto, l’opera più emblematica della riflessione vittorina è il Didascalicon di Ugo di San Vittore: il testo si presenta come una breve enciclopedia in sei libri a uso degli studenti, scarsamente originale per i contenuti ma profondamente innovativa per il modo di organizzare le diverse discipline. La prima caratteristica fondamentale è la concezione unitaria del sapere: la filosofia, definita come quella disciplina che indaga le cause di ogni cosa umana e divina, è il contenitore di tutte le scienze, compresa la teologia. All’interno di questa cornice, spicca l’attenzione alle arti meccaniche, figlia del risveglio economico delle città, e il valore dell’esperienza diretta nel processo di apprendimento.

I Vittorini trovano nella tradizione agostiniana l’idea del valore della scienza per la ricerca del principio trascendente del mondo. Ugo riserva alle scienze profane l’indagine sulla creazione del mondo e sulla sua storia: il mondo sensibile va quindi inteso “quasi come un libro scritto dal dito di Dio” (Didascalicon, VII, 1). I limiti delle scienze umane sono la necessaria preparazione per la contemplazione delle verità ultime e tappe intermedie del cammino d’elevazione che prefigura al vertice il contatto mistico con Dio: egli si mostra nel mondo attraverso sacramenta, cioè figure che l’intelligenza umana deve saper cogliere e interpretare, a partire da quei principi innati di verità, di stampo platonico, che sono le tracce di Dio nell’uomo. È l’idea del mondo quale foresta di simboli o theophanía: questo allegorismo costituisce, nella lettura di Ugo di San Vittore, il principio architettonico di fondo delle Sacre Scritture e dell’intera storia umana.

TESTO

T5: Ugo di San Vittore, L’insegnamento nelle scuole

ESERCIZIO

E11: Scuole cattedrali e scuole cittadine

Alano di Lilla e la teologia sistematica

La scuola di Laon e le raccolte di sentenze I primi esperimenti di teologia sistematica risalgono al XII secolo: nella scuola di Laon, in quel periodo, si raccoglie, senza analizzarlo, un cospicuo numero di autorità bibliche e patristiche, da cui derivano una serie di sententiae, ossia affermazioni perfettamente coerenti con le autorità. L’elaborazione delle raccolte di sententiae, come genere formale e didattico autonomo, consente ai maestri della prima metà del secolo di fissare i cardini dello studio della dottrina cristiana, organizzandolo per la prima volta secondo un piano logico unitario, che suddivide la materia teologica nei suoi contenuti essenziali.

La scuola porretana

In questo contesto, sarà la scuola porretana – dal maestro Gilberto di Poitiers – a distinguersi per l’elaborazione di una teologia scientifica in forma assiomatica. Tra i maestri della scuola sono da ricordare Simone di Tournai, attivo a Parigi negli anni 1160-1180 e autore di Quaestiones, di Disputationes organizzate in base alle varie tematiche discusse tra il maestro e i suoi discepoli e di una Summa theologica ancora inedita; e soprattutto Alano di Lilla (1120-1202/1203), definito Doctor Universalis per la vastità dei suoi interessi e la varietà della sua produzione teologica.

La teologia sistematica: Alano di Lilla

Alano sperimenta diverse forme di summa in relazione a differenti progetti teologici. Nella Summa “Quoniam homines” prevale il procedimento dimostrativo all’interno di un impianto sistematico che prevede tre sezioni, dedicate rispettivamente al creatore, alla creazione e alla restaurazione. Il De fide catholica contra haereticos è invece una presentazione complessiva della fede con chiaro intento apologetico: per combattere gli errori filosofici e teologici degli avversari della fede (catari, valdesi, ebrei e musulmani), l’autore fa ricorso sia a citazioni patristiche che ad argomenti razionali. La Summa de arte praedicatoria (o Ars praedicandi) ricalca lo schema delle omelie tenute dal sacerdote durante la funzione sacra. Summa “Quot modis” è in realtà un esemplare significativo di un altro genere teologico caratteristico del secolo, ossia le Distinctiones: dizionari di termini teologici e filosofici dove la principale preoccupazione è di carattere linguistico e semantico.

Teologia e assiomatica

Tuttavia il contributo più significativo offerto da Alano di Lilla è la produzione di opere teologiche in forma assiomatica. La novità, anticipata da Gilberto di Poitiers, sta nell’introduzione del rigoroso metodo deduttivo, tipico della geometria, in ambito teologico, il che implica un notevole sforzo di astrazione per costruire una scienza teologica fondata su affermazioni assiomatiche evidenti in sé, che non necessitano quindi di essere provate, formulate sul calco delle proposizioni immediate di cui parla Aristotele negli Analitici secondi. Alano è l’autore delle Regulae caelestis iuris (Regole del diritto celeste), in cui condensa in una rigorosa concatenazione di assiomi la stessa materia teologica argomentata nella Summa “Quoniam homines”. Dal punto di vista dottrinale, si riconoscono le influenze del Liber de causis e dello pseudo-ermetico Liber XXIV philosophorum (Libro dei ventiquattro filosofi).

Per Alano la teologia, al pari delle altre scienze, deve fondarsi su premesse indubitabili, universalmente ammesse: e così, dalla definizione di monade, giunge alla Trinità come relazione e dalla definizione di Dio come causa incausata e forma normalissima deriva che nessun nome può attribuirsi in maniera conveniente alla divinità assolutamente semplice. Sulla base di questo presupposto, che risale da un lato allo Pseudo-Dionigi e dall’altro alla tradizione agostiniano-boeziana, Alano sviluppa la teoria della translatio (da intendere qui nel senso di una trasformazione di significato nel passaggio da un ambito lessicale all’altro) dei nomi dalle discipline naturali alla scienza divina, fondata sull’assunto che nessun termine può essere attribuito nello stesso modo a Dio e alle creature. Le prime 115 regole sono dedicate esclusivamente alla teologia, le successive dieci alla filosofia naturale, ma con regole comuni alla teologia, le ultime nove al puro ambito della filosofia naturale. Ciascuna regola appare come il naturale sviluppo delle precedenti e sostiene la costruzione di una vera e propria assiomatica teologica, in cui ogni regola è accompagnata da una breve spiegazione che giustifica la successione delle asserzioni. L’affermazione dell’immutabile unità divina è posta al principio dell’enucleazione concettuale delle verità di fede: a partire da questo primo, indubitabile assioma si dipana la successione delle regole.

Luigi Catalani

La mistica speculativa: Riccardo di San Vittore

La scuola vittorina condivide con il proprio secolo i presupposti fondamentali del platonismo medievale. Ma se è la cosmologia platonica a essere oggetto delle ricerche della scuola di Chartres, i Vittorini riprendono soprattutto le distinzioni sottili della dottrina neoplatonica dell’anima, filtrata da Agostino. Il filosofo di Tagaste aveva distinto fra visione corporale (la percezione diretta da parte dei sensi), visione spirituale (l’immaginazione che genera nella mente le immagini dei corpi) e visione intellettuale (l’intelletto che pensa le entità incorporee). Questa distinzione è uno dei capisaldi della mistica vittorina: la ritroviamo in Ugo, nell’idea del triplice “occhio della conoscenza”, ma soprattutto nella teoria della contemplazione mistica che Riccardo di San Vittore delinea nel De praeparatione animi ad contemplationem (noto come Benjamin minor) e nel De gratia contemplationis (o Benjamin major).

Il Benjamin minor è una descrizione del cammino di purificazione dell’anima, preliminare alla contemplazione mistica. Nel Benjamin major, invece, è esposto il percorso per gradi della via mistica a Dio: nell’ascesa verso il divino, la ragione dilata il proprio potere procedendo dalla fede, attraverso la speranza e l’amore, i quali conducono alla manifestazione e poi alla contemplazione e alla conoscenza, ultimo grado prima della visione completa di Dio. L’ascesa dell’anima conduce fino a un punto dove le parole mancano e dove il sapere filosofico non si annulla ma si trasfigura in contemplazione mistica: al vertice del processo speculativo l’anima accede all’esperienza del divino solo attraverso una “alienazione” da sé (alienatio). Il percorso della ragione verso la verità si risolve, per la natura ineffabile del divino, in una “tenebra” dove la forma più alta di illuminazione si converte nella più intensa negazione, proprio come la forma più compiuta di realizzazione dell’anima umana diventa l’annullamento della propria identità nella contemplazione di Dio.

Quanto al fulcro del pensiero mistico, cioè l’amore di Dio, in Riccardo esso non è mai disgiunto dal momento speculativo della contemplazione, che ha i tratti di un “amore intellettuale” di Dio. Amare Dio significa arrivare a comprenderlo nella forma della sua più pura intellegibilità e la riflessione che comprende il divino tramite questa via non può che generare amore dell’oggetto che contempla, in un intreccio tra ragione, volontà e desiderio che rimane un tratto caratteristico della teologia vittorina.