L’unum argumentum del Proslógion, più tardi noto come “argomento ontologico” o “prova a priori”, intende dimostrare l’esistenza di Dio indagando con la ragione l’atto di fede, ossia la certezza dell’esistenza di Dio. L’assunto da cui si sviluppa il ragionamento è: è possibile affermare con certezza che ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste. Anche lo stolto, che secondo la citazione del salmo biblico ne mette in dubbio l’esistenza reale, capisce ciò che l’espressione “ciò di cui non si può pensare il maggiore” intende: ne ha quindi, dice Anselmo, un chiaro concetto nell’intelletto. Quindi anche chi dubita nell’esistenza di Dio, comprende il significato dell’espressione “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Limitare l’esistenza di una simile entità all’intelletto sarebbe contraddittorio: l’esistenza nella realtà sarebbe infatti un valore aggiunto alla sola esistenza nell’intelletto e quindi ciò che esiste solo come concetto non potrebbe dirsi “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Se “ciò di cui non si può pensare il maggiore” esiste nell’intelletto è necessario che, per essere tale, esista anche nella realtà. L’unum argumentum stabilisce dunque che, a partire dalla definizione che la rivelazione presenta come certa e che la ragione mostra di accettare, Dio non possa essere pensato se non come esistente.
Proslógion, II
da Anselmo, Proslógion, II, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari - 2008
Dio esiste veramente
Dunque, o Signore, che dai l’intelligenza della fede, concedimi di capire, per quanto sai che possa giovarmi, che tu esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi più grande. O forse non esiste una tale natura, poiché “lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste” (Ps 13, I, e 52, I)?
Ma certo quel medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e cioè la frase “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande”, intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, altro è intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista quell’opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non solo l’ha nell’intelletto, ma intende pure che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli intende questa frase quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.
Ma certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.
In questo passaggio della Teologia del sommo bene, Abelardo spiega come la verità relativa ai misteri divini sia inaccessibile alla comprensione dell’intelletto umano. Sia la ragione che il linguaggio si dimostrano insufficienti. Quest’ultimo infatti non è in grado di dare nomi alla divinità: per parlarne usa termini che normalmente riferisce al mondo sensibile, ma che, applicati a Dio, risultano svuotati del loro significato originario e vanno intesi in senso figurato, come integumenta sotto i quali si nasconde il significato autentico. Per Abelardo quindi l’uomo, su tali argomenti, può formulare solo proposizioni “verosimili” servendosi di un linguaggio traslato, fatto di metafore e similitudini.
Teologia del sommo bene
da Abelardo, Teologia del sommo bene, a cura di M. Rossini, Bompiani, Milano - 2003
A proposito di queste cose [il mistero divino della Trinità] non ci impegniamo ad insegnare la verità, che evidentemente non possiamo conoscere né noi né alcun altro mortale, ma ci sembra giusto proporre qualcosa di verosimile, vicino all’umana ragione e non contrario alla sacra Scrittura, contro coloro che si vantano di combattere la fede attraverso ragioni umane e non si curano che di esse, trovando facilmente molti adulatori, quasi che la maggior parte degli uomini sia di natura terrena piuttosto che spirituale. Ci basta disperdere in qualche modo la forza di questi mortali nemici della sacra fede, e, non potendolo fare in altro modo, ci accontenteremo di ricorrere alle ragioni umane. Dichiariamo quindi che tutto ciò che esporremo a proposito di questa altissima filosofia, non è verità ma ombra della verità, non è la cosa ma una certa similitudine di essa. Solo Dio conosce ciò che è vero; io ritengo invece di dover dire ciò che è verosimile e in massimo grado conforme alle ragioni filosofiche per mezzo delle quali veniamo attaccati.