Nuove biblioteche per filosofi e teologi

Nel corso del XIII secolo Aristotele entra a far parte stabilmente delle autorità filosofiche indiscutibili.

Il XIII secolo vive degli effetti del movimento di traduzioni e commenti (translatio) che, dagli inizi del secolo precedente, aveva consentito di colmare il ritardo scientifico e filosofico dell’Occidente latino nei confronti del sapere arabo e delle fonti classiche di lingua greca. Le riletture contemporanee del dibattito filosofico dell’epoca hanno ampiamente ridimensionato la visione tradizionale che si aveva del periodo cosiddetto “scolastico”, per la quale il XIII secolo costituiva l’affermazione e l’apogeo di una filosofia organica e sistematica – la scolastica appunto – nella quale venivano a confluire e a risolversi, in accordo con la definizione aristotelica di scienza, le questioni della teologia precedente.

Riscoprendo gli intrecci tra la filosofia dell’Occidente latino e le fonti arabe ed ebraiche, e l’importanza di queste in un’epoca molto più frastagliata e conflittuale di quanto si pensasse, il lavoro degli storici ha permesso di riportare all’attenzione un sapere solo in apparenza marginale come quello enciclopedico, autori considerati minori, come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, e la grande influenza delle tradizioni filosofiche arabe ed ebraiche.

Nel XIII secolo si fa imprescindibile l’autorità di Aristotele. Il lavoro intrapreso nei secoli precedenti dai traduttori giunge a termine: alla metà del XIII secolo Roberto Grossatesta traduce l’Etica Nicomachea, poi rivista da Guglielmo di Moerbeke, e negli anni Sessanta dello stesso secolo Guglielmo fornisce una versione completa della Politica. Michele Scoto, alla corte “multiculturale” di Federico II, traduce dall’arabo i libri sugli animali e poco dopo li traduce anche Guglielmo di Moerbeke dal greco. Questi traduce anche la Poetica nel 1278 mentre il Commento Medio alla Poetica di Averroè appare intorno al 1256 a opera di Ermanno il Tedesco, che traduce anche negli stessi anni la Retorica dall’arabo.

È dunque nel corso del XIII secolo che Aristotele entra a far parte stabilmente delle autorità filosofiche indiscutibili per teologi e filosofi cristiani; ma lo fa tra mille polemiche accademiche, resistenze e dispute tra la facoltà delle arti e la facoltà di teologia, tra le rivendicazioni di autonomia dei Maestri delle Arti, coscienti della propria identità intellettuale e professionale, e gli interventi delle autorità ecclesiastiche.

L’ambiente nel quale queste discussioni si animano è l’università; è qui che si definiscono i metodi e le forme di argomentazione, prima tra tutte la quaestio, che organizza intorno a un problema dato le varie tesi e controtesi, le esamina, le dibatte, le confronta, e perviene a una conclusione che si vuole decisiva. La quaestio si presenta come l’ossatura stessa della summa, anch’essa modello di stile filosofico che pretende di sistematizzare l’intero campo del sapere teologico e filosofico. Ma la quaestio rappresenta anche la forma della discussione pubblica (che contrappone il maestro ai propri allievi e avversari) sotto forma di quaestio disputata che, come la quaestio quodlibetalis, può concernere anche i più marginali tra i problemi teoretici o morali.

La riscoperta di Aristotele e soprattutto la lettura degli Analitici secondi – che contengono i principi della scienza dimostrativa – offrivano alla ricerca filosofica un modello di scienza che non era possibile ignorare; e Tommaso d’Aquino è colui che raccoglie la sfida con maggior coscienza e profondità. Ma lo scontro sull’interpretazione dell’aristotelismo e sulla sua conciliabilità con l’ortodossia cristiana sarà duro. Nel 1255 il corpus aristotelicum è adottato in blocco dalla facoltà parigina delle Arti; ma nel 1277 la condanna del vescovo Tempier colpisce 219 tesi riconducibili all’aristotelismo e considerate in contrasto con la dottrina della Chiesa (eternità del mondo, immortalità dell’anima, unità dell’intelletto ecc.). Si cerca in questo modo di limitare la diffusione del pensiero di Aristotele: i maestri delle Arti – questa l’accusa – leggono Aristotele e il suo commentatore Averroè e pretendono che le verità sostenute dai due filosofi pagani possano stare, diverse ma ugualmente vere, accanto alla rivelazione cristiana. Per questi magistri, la filosofia non va velata né sacrificata all’unità del sapere cristiano: attraverso differenti letture di Aristotele, i maestri delle Arti sostengono una varietà dei metodi scientifici. Pur all’interno di una fede alla quale nessuno contestava il possesso di una verità assoluta e imprescindibile, si fa strada la convinzione della necessità di delimitare gli ambiti del sapere e di stabilire i criteri e il rigore dimostrativo di ognuno di essi.

Il XIII secolo, orientato dagli aristotelismi, in cui svetta tra gli altri quello di Tommaso d’Aquino, ci consegna l’immagine di un’epoca segnata da un pluralismo di voci irriducibile a sintesi unitaria. Nel contempo, e comunque nel quadro di una formazione aristotelica, la tradizione francescana recupererà, anche tramite la rilettura di Agostino, il valore dell’esperienza nella riflessione scientifica e teologica, grazie ad autori quali Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone e Bonaventura da Bagnoregio.