Nelle pagine del trattato Sul sommo bene (De summo bono), il magister Boezio di Dacia conduce un appassionato elogio della vita contemplativa (cioè la filosofia) come l’esistenza più nobile per l’uomo. Attraverso una distinzione gerarchica tra i diversi tipi di bene, Boezio giunge a individuare il bene sommo nell’attività della facoltà eminente dell’uomo, cioè l’intelletto. Il testo richiama quasi letteralmente il X libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele, dove si esaltava la vita intellettuale come la forma più virtuosa e felice di esistenza, e suona come un’apologia del filosofo e della sua autonomia rispetto al controllo dottrinale delle autorità ecclesiastiche e ai vincoli alla libera ricerca imposti dagli statuti universitari. Il trattato Sul sommo bene va compreso come un momento importante nelle lotte dei magistri delle Arti di Parigi nella seconda metà del XIII secolo: forti dell’autorità di Aristotele, i cui testi erano stati imposti dal 1255 come base dell’insegnamento universitario, essi lottavano per rivendicare l’autonomia, nei metodi e nelle finalità, del sapere filosofico rispetto alla teologia.
De summo bono, pp. 19-20
da Boezio di Dacia, De summo bono, tr. it. G. Fioravanti - 1984
“Poiché per ogni specie dell’essere si dà un qualche sommo bene raggiungibile, e l’uomo è una specie dell’essere, occorre che esista per l’uomo un qualche sommo bene che sia raggiungibile. Non dico un bene sommo in assoluto, ma sommo per l’uomo: i beni raggiungibili dall’uomo, infatti, hanno un limite né si dà processo all’infinito. Nostro compito è allora quello di indagare razionalmente quale sia questo sommo bene che l’uomo può raggiungere: ora il Bene più alto che l’uomo possa ottenere, lo otterrà attraverso la più alta delle sue facoltà […].
Dunque il bene più alto che l’uomo può raggiungere, lo raggiungerà attraverso l’attività dell’intelletto. Per questo avrebbero motivo di rattristarsi quegli uomini che tanto sono irretiti dai piaceri dei sensi da tralasciare i beni che dall’intelletto provengono: così, infatti, mai raggiungono il sommo bene. […]
Dunque, da tutto quanto si è detto si può chiaramente concludere che il bene più alto raggiungibile dall’uomo è la conoscenza del vero e l’attuazione del bene, e il piacere che da entrambe le cose deriva.
E poiché il più alto bene che l’uomo può raggiungere si identifica con la sua felicità suprema, ne consegue che la suprema felicità umana si identifica con la conoscenza del vero, l’attuazione del bene e il piacere che da entrambe le cose deriva. […] Questo è il bene più alto che l’uomo possa ricevere da Dio e che Dio può dare all’uomo in questa vita […]. Infatti, chi è più perfetto nella beatitudine che per ragione sappiamo essere possibile all’uomo in questa vita, è anche più vicino alla beatitudine che per fede aspettiamo nell’altra […].
In questa condizione, dunque, si trovano i filosofi che dedicano tutta la propria vita alla ricerca e all’amore della sapienza; perciò tutte le facoltà che il filosofo possiede agiscono seguendo l’ordine di natura […]. Dunque il filosofo, contemplando le realtà del mondo che richiedono una causa, e la loro struttura e i rapporti che le uniscono, viene indirizzato alla contemplazione delle loro cause più alte e generali [...].
Questa dunque è la vita del filosofo, e chiunque non la vive non vive una vita giusta.”
Il testo presenta il celebre “argomento dell’uomo volante” dal Libro dell’anima di Avicenna. L’argomentazione segue una struttura sillogistica: a partire dalle premesse, maggiore e minore, si giunge a una conclusione. Il ragionamento del filosofo ha come scopo la dimostrazione dell’esistenza dell’anima come realtà indipendente dal corpo e principio dell’identità individuale. Così come l’uomo sospeso può definirsi esistente anche senza percepirsi come un corpo avente lunghezza, forma e membra fisiche, così l’anima ha la certezza di esistere indipendentemente dal corpo.
Libro dell’anima, I
da Avicenna, Libro dell’anima, I, tr. it. di A. Bertolacci in C. D’Ancona (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, Einaudi, Torino - 2005
[a. Introduzione]
“È opportuno preoccuparci [adesso] di far cogliere la quiddità [essenza] di questa cosa che è risultata essere, dal punto di vista suddetto, un’anima. Dobbiamo indicare in questo luogo come stabilire l’esistenza dell’anima che ci appartiene, per via di allusione e rammemorazione, in un modo che risulti adeguato a colui che ha la capacità di percepire il vero in quanto tale e non ha bisogno di essere guidato per il retto cammino, di essere aiutato a non sviarsi e di essere tenuto lontano dall’errore.
[b. Argomentazione]
[i. Premessa Maggiore] Noi diciamo: bisogna immaginare che uno di noi sia stato creato istantaneamente e perfettamente, in modo tale, però, che la sua vista sia incapace di osservare le cose esterne, e sia stato creato sospeso nell’aria o nel vuoto, in modo tale che la consistenza dell’aria non lo urti costringendolo a percepirla, e le sue membra siano state disgiunte le une dalle altre, in modo tale che esse non si incontrino e non si tocchino. Questa persona, poi, considera se sia il caso di affermare che egli stesso esista, e non ha alcun dubbio sull’opportunità di farlo. Tuttavia egli non afferma [l’esistenza di] nessuna delle sue membra, di nessuno dei suoi organi interni, del cuore, del cervello, e di nessuna delle cose esterne. Egli afferma, invece, l’esistenza di se stesso, sebbene non affermi di avere lunghezza, larghezza e profondità. Se, nella situazione suddetta, egli fosse in grado di immaginare una mano o un altro membro, non li immaginerebbe come parti di se stesso o come condizioni di se stesso.
[ii. Premessa Minore] Ora tu sai che ciò che viene affermato è diverso da ciò che non viene affermato, e che ciò che viene ammesso è diverso da ciò che non viene ammesso.
[iii. Conclusione] Perciò, il sé che quest’uomo ha affermato esistere come proprio di lui, per il fatto che questo sé è lui stesso, è diverso dal suo corpo e dalle sue membra, che egli non ha affermato [esistere]”.
La questione dell’esistenza di Dio è per Tommaso un tema che può essere affrontato solo a partire da ciò che è possibile osservare da vicino, ossia le creature sensibili. Questo è il senso delle “cinque vie” della Somma teologica. La prima delle cinque vie prende in esame il movimento. Si parte dall’assunto che “tutto ciò che si muove è mosso da altro” e dal binomio potenza-atto: ciò che è fermo ha in sè il moto in potenza, e il movimento trasforma in atto ciò che prima era presente solo in potenza. È però impossibile che qualcosa sia insieme atto e potenza, ossia che esista qualcosa che si muova da solo. Per evitare quindi che si proceda all’infinito nella sequenza di potenza-atto-potenza, occorre presupporre l’esistenza di un ente che sia immobile e che al contempo muova, cioè Dio. La quinta via, infine, procede dalla finalità insita naturalmente nelle cose.
La somma teologica
da Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Salani, Firenze - 1949
“Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di Dio.
In contrario: Nell’Esodo si dice, in persona di Dio: “Io sono Colui che è”.
Rispondo: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto.
È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualcosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che è già in atto. Per esempio, il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sin mosso da un altro. Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, come il bastone non si muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri.
[...]
La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come apparisce dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo intelligente, come la freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e questo essere chiamiamo Dio”.
Il testo è un esempio classico del modo di procedere delle summae e uno specchio fedele di come si articolava una disputa nell’università del XIII secolo: Tommaso pone il problema dell’esistenza di Dio presentando prima gli argomenti contrari alla sua dimostrabilità, successivamente procede con le argomentazioni a favore, quindi fornisce la conclusione magistrale (determinatio). Il percorso argomentativo si chiude con la risposta alle iniziali argomentazioni a sfavore.
La conoscenza di Dio nella somma teologica
da Tommaso d’Aquino, La conoscenza di Dio nella somma teologica, Rizzoli, Milano - 1996
“Articolo 2
L’ESISTENZA DI DIO È DIMOSTRABILE?
Sembra che l’esistenza di Dio non sia dimostrabile. Infatti:
1. L’esistenza di Dio è un articolo di fede. Ora le cose di fede non si possono dimostrare perché la dimostrazione genera la scienza, mentre la fede riguarda solo le cose non evidenti, come assicura l’Apostolo. Dunque non si può dimostrare l’esistenza di Dio.
2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ma, di Dio, noi non possiamo conoscere la natura o ciò che è. Possiamo sapere solo ciò che non è, come osserva Giovanni di Damasco. Dunque non possiamo dimostrare che Dio esiste.
3. Anche se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò avverrebbe solo movendo dai suoi effetti. Ma questi non sono proporzionati al suo essere, giacché egli è infinito, mentre i suoi effetti sono finiti. Tra il finito e l’infinito non vi è alcuna proporzione. Allora, dal momento che non si può risalire, per via di dimostrazione, ad una causa partendo da un effetto senza proporzione rispetto ad essa, ne risulta che non si può dimostrare l’esistenza di Dio.
Dice san Paolo: “Le qualità invisibili di Dio si rendono a noi visibili per mezzo del mondo creato”. Ora ciò non sarebbe vero se non si potesse dimostrare l’esistenza di Dio, movendo dal creato, poiché la prima cosa che bisogna conoscere intorno a un dato soggetto è se esso esista.
Ci sono due specie di dimostrazioni: una parte dalla causa e viene chiamata propter quid1 perché muove da ciò che in sé ha una proprietà logica. L’altra parte dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia2 perché muove da cose che hanno una priorità soltanto rispetto a noi. Ogni volta che un effetto ci è più noto della causa da cui deriva, noi ci serviamo di esso per conoscere la causa.
Comunque, movendo da qualche effetto si può dimostrare l’esistenza della sua causa (naturalmente a condizione che gli effetti siano per noi più noti della causa). E ciò perché, dal momento che l’effetto dipende dalla causa, una volta che c’è un effetto è necessario ammettere la preesistenza della causa. Pertanto, dal momento che l’esistenza di Dio non è evidente per noi, essa può essere dimostrata per mezzo degli effetti a noi più noti.
1. L’esistenza di Dio e altre verità di lui che si possono conoscere con la sola ragione, al dire dell’Apostolo, non sono articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede. Difatti la fede suppone la conoscenza naturale, così come la grazia presuppone la natura e, in generale, la perfezione suppone ciò che può esser perfezionato. Nulla però impedisce che una causa – di per sé dimostrabile e oggetto di conoscenza razionale – sia accolta come oggetto di fede da chi non arriva a comprenderne la dimostrazione.
2. Quando si vuol dimostrare una causa mediante un effetto, è necessario mettere l’effetto al posto della definizione della causa, per dimostrare appunto l’esistenza della causa stessa. E ciò si verifica specialmente per Dio. Poiché, per provare l’esistenza d’una realtà, è necessario accogliere come termine medio la sua definizione nominale, e non già la sua essenza, dal momento che la ricerca dell’essenza di una realtà è posteriore alla ricerca della sua esistenza. Ora i nomi da noi attribuiti a Dio derivano dai suoi effetti, come sarà dimostrato in seguito. Dunque, nel dimostrare l’esistenza di Dio movendo da un suo effetto, possiamo accogliere come termine medio la definizione nominale di Dio.
3. È vero che da effetti non proporzionati alla causa non si può raggiungere di quest’ultima una conoscenza perfetta. Ma, movendo da qualunque effetto, noi possiamo dimostrare con tutta evidenza l’esistenza della causa. Così, partendo da opere di Dio, se ne può dimostrare l’esistenza benché, mediante tali opere, non ci sia possibile conoscere perfettamente l’essenza di Dio”.
1. Cioè dimostrazione a priori.
2. Cioè dimostrazione a posteriori.