Per saperne di piùLa medicina medievale e il suo statuto filosofico

di Giorgio Cosmacini

La storia della cultura medica medievale affonda le sue radici nel monachesimo “vivariense”, legato cioè al monastero fondato a Vivarium, in Calabria, da Cassiodoro (480-550).

In una periodizzazione larga, che comprenda il Medioevo tra la bassa latinità e la grande peste di metà Trecento (1347-1350), il ruolo assunto dalla cultura medica non può, infatti, non partire dal monachesimo “vivariense”, all’estremità meridionale di un’Italia contesa fra Goti e Bizantini, e quindi a Cassiodoro, il quale, dopo aver ricoperto incarichi di potere e prestigio con Teodorico, Amalasunta, Atalarico e Vitige, si ritira a Vivarium, in Calabria, fondandovi un monastero dove i monaci coltivano, con le erbe “semplici” degli orti, le dottrine dei classici. È sempre Cassiodoro a fissare, nelle Institutiones, i principi di una vera e propria paideia monastica basata sulle arti del trivio, del quadrivio e sulla medicina come ottava arte.

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Le arti liberali: Cassiodoro e Marziano Capella

Isidoro di Siviglia (560-636), nelle Etymologiae, fa risalire il termine “medicina” a modus, riconducendo l’arte della cura alla “giusta misura” che deve guidare chi la professa. È un’ottica aristotelizzante, che approda alla definizione di medicina come philophia secunda. Isidoro detta anche una regola monastica secondo cui l’assistenza ai malati deve essere affidata a un uomo assennato e pio che si prenda cura di loro. Più in generale, è il monachesimo benedettino, fiorito a Subiaco nel cenobio dedicato ai santi protettori dell’arte medica Cosma e Damiano, a sancire nella regola XXXVI l’obbligo fatto ai monaci di “prima di tutto e sopra tutto prendersi cura dei malati”.

I monaci non solo coltivano nell’hortus le piante medicinali e non solo assistono nell’hospitium coloro che necessitano di cure, ma anche si dedicano nello scriptorium alla riscrittura amanuense dei testi classici, ivi compresi quelli di medicina.

LETTURE

Le enciclopedie medievali come modelli di sapere

In questo panorama monastico figure di grande spicco, la cui dottrina teologica comprendeva anche quella cosmologica e medica, sono monaci come Rabano Mauro (784-856), abate di Fulda e autore dell’opera encilopedica De universo, e Valafrido Strabone (809-849), abate di Reichenau e autore del poema Hortulus, dedicato alla botanica dell’orto abbaziale; nè va dimenticato il Venerabile Beda (672-735).

Ildegarda, Trotula, la Scuola Salernitana

Doppiato l’anno Mille, figura d’alto rilievo, prototipo di scienza femminile,è Ildegarda di Bingen. La medicina di Ildegarda è compendiata in due libri, intitolati l’uno Physica, d’argomento botanico ed erboristico, e l’altro Causae et curae, d’argomento più complesso, concernente le “forze che rendono malati” e le “forze che guariscono”, tra cui al primo posto la viriditas, verdeggiante forza vitale alleata della natura.

Figura femminile di pari spicco, anche se su tutt’altro versante, è Trotula, nel cui nome taluni dicono compendiata la sapienza delle mulieres salernitanae degne, a pieno titolo, del nome di medichesse. A lei si deve l’opera latina d’argomento ostetrico-ginecologico sulle “passioni delle donne prima, durante e dopo il parto”, che rappresenta la riappropriazione da parte della competenza medica (muliebre) della pratica empirica di assistenza alle gravide, partorienti e puerpere.

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Visione e conoscenza: Ildegarda di Bingen

La Salerno scolastica era la radiosa capitale del ducato normanno di Puglia e Calabria. L’arrivo da Cartagine, nel 1077, di Costantino Africano (1010-1085) segna l’apporto della medicina araba, coniugata con quella latina e greco-bizantina. Il fior fiore di questa sintesi è il Regimen sanitatis salernitatanum, l’opera considerata la silloge divulgativa della medicina medievale.

Pilastri della medicina medievale sono la dietetica, la farmaceutica e la chirurgia. Anche se una vera e propria istituzionalizzazione degli studi medici era ancora là da venire, una theorica articolata in compendi e commentari era già disponibile per dare supporto alla practica empirica.

Pratica e teoria, dottrina e disciplina

È a partire dal XIII secolo che la medicina medievale inizia a configurarsi nella forma teorico-pratica che le permette di ambire al ruolo di scienza cognitiva e operativa. Coltivata nel segno delle somme auctoritates – Ippocrate, Galeno, Avicenna e altri – in un mondo di pergamene, da un lato essa è intesa come accumulazione di conoscenze tratte dai testi autorevoli, problematizzate però attraverso una ragione analiticamente operante. Dottrina e disciplina sono i due aspetti speculari di un unico procedimento, il movimento cognitivo da ciò che è conosciuto a ciò che è da conoscere, tramite il quale dal docere e dal discere emerge lo scire, il sapere. Il sapere medico-scientifico è conoscenza rigorosa che procede dunque per auctoritates e rationes.

D’altro lato, nella scienza medica così concepita trovano posto anche i prontuari e manuali e i trattatelli divulgativi, come per esempio i “regimi”, che afferiscono all’arte intesa come artigianato, come complesso di esperienze e di comportamenti derivanti dalla pratica. Quest’ultima viene a essere in tal modo inserita nella dottrina che sarà trasmessa ex cathedra, peraltro vagliata e arricchita attraverso le fasi di studio tradizionali. Ogni novità acquisita per diretta esperienza dev’essere autenticata dalla tradizione. In questo modo, contemplato dalla logica formale del discorso aristotelico, la medicina pratica viene uniformata e unificata alla medicina teorica in una sintesi coerente.

Quel che resta fuori dalla sintesi, afferendo a un’arte che non è “liberale” ma “meccanica”, è convogliato nel “fare con le mani”, cioè in una chirurgia oggetto non di apprendimento intellettuale, ma di apprendistato manuale. Essa non fa parte della scienza, ma dell’usus, come quello appreso per imitazione e praticato per ripetizione dalla manovalanza dei chirurghi-barbieri e dalle brave esercenti la “medicina delle donne”.

Al di là di questo praticismo, che snatura la professione medica e la relega fra i mestieri meccanici e vili, la medicina viene legittimata a essere scienza, fondata sulla speculazione e sul metodo dialettico-disputatorio come la scienza del diritto, raccordata a quest’ultima da analogie procedurali e didattiche. Essa ha validi motivi per rivendicare la propria autonomia tra le scienze e per pretendere parità di grado rispetto alla giurisprudenza. Uomo e natura diventano gli oggetti di una indagine medica a sè stante, per la quale il corpo umano – come il cosmo universo – è un insieme ordinato di fenomeni naturali direttamente osservabili e di cui la ragione può ricavare le leggi. Con tale statuto filosofico, la medicina “scolastica”, coltivata e professata da medici nuovi, legati alla traditio ma aperti a una ratio raccordata alla experientia, si inoltra nel XIII secolo e si affaccia al XIV.

Medici e filosofi

Interpreti protagonisti di questo nuovo statuto sono tra gli altri nella seconda metà del Duecento e alle soglie del Trecento, i medici Arnaldo da Villanova, Taddeo degli Alderotti e Pietro d’Abano. Taddeo Alderotti (1223-1295), nativo di Firenze, insegna a Bologna dal 1260. Oltre che di un testo “sulla conservazione della salute”, scritto in volgare, è autore dei Consilia medicinalia inauguranti il genere nuovo dei “consigli medici” messi per iscritto e redatti sugli “artisti” (i medici) da parte dei “legisti” (i giuristi). Taddeo instaura nello Studio bolognese il metodo scolastico applicato all’insegnamento-apprendimento della medicina. Egli inizia la lectio con la expositio di un passo tratto o dall’Articella galenico, per gli studenti alle prime armi, o dal Canone di Avicenna, per quelli di livello più avanzato. Procede poi per quaestiones, talora con digressioni exstravagantes; infine formula una serie di dubia, cui fanno seguito, a conclusione, i momenti euristici della disputatio e della solutio.

Questa metodologia riformatrice dell’Alderotti diventa rivoluzionaria in Pietro d’Abano (1257-1315). Questi, dal 1307, insegna medicina, filosofia e scienza degli astri nello Studio patavino. Dopo l’influsso, a Costantinopoli, della medicina greco-bizantina, il suo pensiero crea inconsuete alleanze fra alchimia e medicina, tra medicina e matematica e tra medicina e astrologia. Per Pietro d’Abano il medico è anzitutto un matematico, studioso del moto degli astri, che si fa dapprima astrologo, studioso delle influenze degli astri sull’uomo, e poi umanista e naturalista, studioso degli aspetti antropologici e fisiopatologici degli influssi astrali. L’astrologo non si oppone al medico, anzi coincide con esso: l’astrologia guida l’arte indicandole il momento più opportuno per agire con efficacia. L’astrolabio non è solo uno strumento di calcolo astronomico per misurare l’altezza del sole e delle altre stelle all’orizzonte; è anche uno strumento d’uso medico per ricavare dalla posizione degli astri le informazioni necessarie per cogliere le erbe medicinali al momento giusto e per somministrare i rimedi nel tempo più propizio.

La medicina, per Pietro d’Abano, non è solo un’arte da aggiungere alle sette del trivio e del quadrivio, né è solo una scienza fra le altre. È invece la scienza per eccellenza, scientia scientiarum cosmologica e umanologica, è la philosophia, sintesi delle sette arti. Il medico quindi è, più che mai, un filosofo della natura, ivi compresa, al primo posto, la natura umana.

Quanto ad Arnaldo da Villanova (1240-1313), catalano, si afferma come massima autorità medica nella universitas magistrorum dello Studio di Montpellier. È autore di una sessantina di opere comprendenti argomenti di alchimia, astrologia, matematica e medicina. L’introduzione in campo medico di tecniche di calcolo è il suo tentativo di transizione da una logica meramente qualitativa, basata sulle qualità elementari degli umori corporei (sangue, flegma, bile, atrabile), a una logica anche quantitativa, fondata anche sulla ponderazione di tali qualità (calidità, frigidità,umidità,secchezza).

Per certi aspetti accostabile alla figura di Arnaldo è quella del suo contemporaneo e conterraneo Raimondo Lullo (1235-1314), la cui Ars generalis si propone come clavis universalis per aprire e svelare tutti i segreti della natura, ivi compresi quelli medici. A Montpellier, dove la figura di Arnaldo domina, oltre ai medici locali e a quelli catalani, lusitani, ebrei, italiani (detti “salernitani”), è consistente la colonia britannica rappresentata da autori come Gilberto Anglico e John di Gaddesden.

Anche in Provenza la medicina riceve lustro, soprattutto nel periodo del papato avignonese, dal 1305 al 1377. Un medico-papa, benché anteriore al trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone, è infatti Giovanni XXI, Pietro Ispano (1226-1277). Oltre a un testo di oftalmoiatria, Liber oculorum, suo è un trattato di terapia per il popolo, Thesaurus pauperum, finalizzato a fornire ai non abbienti criteri e suggerimenti terapeutici per ovviare alla crescente medicalizzazione, al costo delle cure mediche, alla esosità dei medici curanti.

Da Napoli a Melfi: Federico II e la medicina

Nel XII secolo siamo nel periodo di piena fioritura delle università. Sul suolo italiano, con quelle di Bologna, di Padova e di altre città centrosettentrionali, hanno grande rilevanza l’università di Napoli, fondata dall’imperatore Federico II, e l’università di Roma, fondata da Bonifacio VIII. La fondazione dell’università partenopea non è il solo merito dello stupor mundiFederico II. A lui si devono anche le Costituzioni melfitane del 1231, nelle quali è fatto “divieto dell’esercizio della medicina a chi non avesse conseguito con pubblico esame l’approvazione dei medici di Salerno” (libro III, titolo XLIV); il che sancisce l’obbligo, vigente per ogni medico, di possedere una licenza certificata dall’autorità universitaria e ratificata dall’autorità civile.

Le Costituzioni melfitane proibiscono l’esercizio della medicina agli ebrei (libro III, titolo LXX), nelle cui file la professione medica è molto diffusa e ben praticata, ispirata a regole di temperanza e criteri di moderazione. Va ricordata a tale proposito la figura di Mosé Maimonide (rabbi Moshe ben Maimon 1135-1204), autore tra l’altro di una “guida alla buona salute” scritta nel 1193 per il figlio del Saladino, nella quale prende in considerazione il rapporto psicosomatico nel determinismo delle malattie. Da un punto di vista più generale, filosofico-medico, egli teorizza la medicina come medietas, derivandola dalla “medianità” o “giusto mezzo” che in un’ottica neoaristotelica comporta la pratica della “giustezza” e della “giustizia”.