Salta il legame necessario tra [la teologia] e la filosofia: non solo le conclusioni della filosofia non debbono essere ricondotte alla teologia, ma discorso scientifico e discorso teologico vengono progressivamente ricondotti ad ambiti distinti.
Dopo la condanna del 1277, nell’ultima decade del XIII secolo si incrina la fiducia nell’aristotelismo come modello in grado di fornire una spiegazione unitaria di tutti i saperi, dallo studio dei fenomeni naturali alla scienza, dalla psicologia alla metafisica sino alla teologia. In particolare, salta il legame necessario tra quest’ultima e la filosofia: non solo le conclusioni della filosofia non debbono essere ricondotte alla teologia, ma discorso scientifico e discorso teologico vengono progressivamente ricondotti ad ambiti distinti. Non potendo trovare un modello forte e univoco per la spiegazione della realtà, si ammette che gli oggetti e gli ambiti di indagine della filosofia e della teologia si collocano su piani diversi. Le due discipline non si escludono: i loro metodi possono coesistere a patto di essere rigorosamente delimitati. Si dubita apertamente che omne verum cum Vero consonat, cioè che ogni verità deve essere in accordo con la Verità teologica. Ma non solo: l’unità del sapere è considerata come un vincolo alla ricchezza di un mondo contingente e individuale – vale a dire un mondo che può teoricamente cambiare, ma che è stato comunque scelto liberamente e ordinato, tra gli infiniti possibili, dall’onnipotenza divina. La cultura che si volge al XIV secolo si apre alla pluralità delle verità. E qualora vi siano contrasti tra il rigore causale e necessario degli argomenti dei filosofi e l’indagine sugli oggetti della teologia, spetta ai teologi di ridefinire i termini della propria disciplina. Si cercano metri di misura per le qualità, si studiano argomenti, paradossi ed esperimenti mentali che, lungi dall’essere solo inutili verbosità, vengono elaborati per fornire garanzie circa la stabilità dell’ordine del mondo.
Tra la fine del Duecento e gli inizi del nuovo secolo si ha la consapevolezza di vivere una stagione di novità: nova è la musica, moderni i seguaci del pensiero di Guglielmo di Ockham, nova è la pittura di Cimabue e Giotto. I maestri percorrono l’Europa e, in una lingua comune, insegnano le loro conclusioni nelle università di Parigi, Oxford, Bologna, Erfurt… Cresce il bisogno di filosofia e il sapere esce anche dalle aule universitarie per aprirsi alle novità e alle esigenze della società. Ne sono esempio i continui riferimenti nelle opere dantesche, i sermoni di Meister Eckhart scritti in volgare e rivolti ai lettori più vari, la straordinaria ricerca di un accesso originale al divino da parte di Raimondo Lullo. Scriverà Ockham, chierico “del dissenso”, che “la Scrittura, parlando della chiesa non esclude i laici. La parola ‘Chiesa’ comprende uomini e donne laici. Come Dio è il Dio dei chierici così è il Dio dei laici”.
Cresce il bisogno di una felicità raggiunta attraverso lo studio, ma tutta terrena. Governanti e filosofi si interrogano sul fondamento delle forme politiche. E, come si può ammirare nel capolavoro del Lorenzetti al Palazzo Pubblico di Siena, gli artisti si incaricano di trasmettere ai cittadini le immagini del buongoverno e delle sue degenerazioni. Nei suoi scritti, Marsilio da Padova sostiene con decisione che si difende la pace affermando l’autonomia della legge civile e della sfera politica. Aristotele resta il punto di riferimento, ma le prospettive da cui lo si esamina sono molteplici e in contrasto tra loro. I filosofi aristotelici possono tranquillamente condurre le loro indagini al riparo proprio di quelle formule (come loquens ut naturalis, cioè “parlando da filosofo naturale”) che pochi decenni prima avevano sollevato violenti contrasti. Ogni teoria si misura sempre più frequentemente con posizioni contemporanee piuttosto che con le teorie del passato, considerate sempre meno come auctoritates e sempre più come fonti su cui discutere.
Sullo sfondo storico di questa polifonia intellettuale si aggira per l’Europa lo spettro di una guerra, quella dei Cento anni, che avrebbe segnato l’affermazione degli Stati nazionali; il papato, dal 1309 “in cattività” ad Avignone, cerca soprattutto con Giovanni XXII di mantenere un’egemonia sempre più incrinata dal dissenso dei movimenti religiosi che si richiamano alla povertà evangelica; l’impero cede il passo alla forza crescente delle monarchie di Francia e Inghilterra. Ma soprattutto, dalla metà del secolo la peste inizierà a flagellare l’Europa, assestando un colpo terribile a quella civiltà medievale che si rappresentava irradiata dalla luce e dai colori e, come si legge nel sermone di un predicatore del XIV secolo, immaginava persino il paradiso come una immensa biblioteca.