Nel prologo dell’Ordinatio Duns Scoto si domanda se per l’uomo sia sufficiente il solo intelletto o se, per conoscere se stesso e il mondo, egli necessiti di una forma di conoscenza sovrannaturale. Sulla questione Scoto riporta le posizioni contrapposte di filosofi e teologi. I primi sostengono l’assoluta sufficienza e autonomia dell’intelletto umano, mentre i secondi affermano la necessità della grazia divina per conoscere. Il brano si concentra su tre possibili obiezioni mosse alla posizione dei filosofi, delineando una separazione tra i due ambiti, che si rimandano l’un l’altro restando tuttavia autonomi.
Prologus dell’Ordinatio
tr. it. in Filosofia medievale, a cura di M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Cortina, Milano - 2004
Ci si chiede se all’uomo, nello stato presente, debba necessariamente essere infusa in modo sovrannaturale una qualche conoscenza speciale, a cui non potrebbe pervenire con il lume naturale dell’intelletto. [...]
A proposito di tale questione sembra esservi una controversia tra i filosofi e i teologi. I filosofi sostengono la perfezione della natura, e negano la perfezione sovrannaturale; i teologi invece riconoscono il difetto della natura, la necessità della grazia e la perfezione sovrannaturale.
Direbbe dunque un filosofo che l’uomo, in questo stato, non ha bisogno di alcuna conoscenza sovrannaturale, ma che egli può acquisire ogni conoscenza che gli è necessaria in base all’azione delle cause naturali. E a sostegno di ciò vengono addotte, da luoghi diversi, insieme l’autorità e l’argomentazione razionale del Filosofo. [...]
Contro questa posizione si può argomentare in tre modi. [...]
[Prima ragione principale] E in primo luogo così: a chiunque agisce in modo consapevole è necessaria una conoscenza distinta del proprio fine. Dimostro questa premessa: chiunque agisce in vista di un fine agisce in base al desiderio del fine; tutto ciò che agisce per sé agisce per un fine, dunque tutto ciò che agisce per sé desidera a suo modo il fine. Come dunque a chi agisce in modo naturale è necessario il desiderio del fine per il quale deve agire, così a chi agisce in modo consapevole – che è pur sempre qualcosa che agisce per sé, come si ricava dal II libro della Fisica – è necessario il desiderio del suo fine, per il quale deve agire: risulta così evidente la maggiore.
Ma l’uomo non può conoscere a partire dalle realtà naturali, in modo distinto, il proprio fine; gli è dunque necessaria, a questo proposito, una qualche conoscenza sovrannaturale. […]
[Seconda ragione principale] In secondo luogo: a chiunque agisca in modo consapevole in vista di un fine è necessaria la conoscenza di come o in che modo si possa conseguire tale fine; è anche necessaria la conoscenza di tutto ciò che è necessario per quel fine; e in terzo luogo è necessaria la conoscenza di tutto ciò che è sufficiente per quel fine. […] Ma queste tre cose l’uomo, nella sua condizione presente di viator, non può conoscerle con la ragione naturale. […] Infatti non si può conoscere con la ragione naturale l’accettazione della volontà divina, ovvero come quest’ultima, in modo contingente, accetti tali o tali [atti] come degni della vita eterna, né sapere se essi siano sufficienti; ciò dipende soltanto dalla volontà divina relativa alle cose verso cui si rapporta in modo contingente, dunque...[...]
[Terza ragione principale] Si può poi argomentare contro l’opinione dei filosofi con un terzo argomento principale. Nel VI libro della Metafisica [si afferma] che la conoscenza delle sostanze separate è quella più nobile, perché verte intorno al genere più nobile. […] Ma sulla base delle sole realtà naturali non possiamo conoscere ciò che è loro proprio. In primo luogo perché se tali proprietà fossero conosciute in una scienza di cui fosse possibile disporre ora, ciò potrebbe accadere solo nella metafisica; ma non è possibile per noi acquisire naturalmente una conoscenza metafisica di ciò che concerne le proprietà delle sostanze separate, come è evidente.
La logica di Ockham si muove sul piano degli enunciati e dei termini che li compongono. Il filosofo inglese riprende la distinzione classica di Boezio, secondo la quale i termini si distinguono in scritti, orali e mentali. Benché essi costituiscano sistemi di significazione distinti, uno stretto rapporto gerarchico li lega: i termini mentali o concetti sono i segni primi delle cose per le quali stanno, mentre i termini orali e scritti le significano solo in dipendenza da quello che i concetti significano. Non esistono dunque mediazioni tra le parole e le cose: i termini orali, scritti e mentali sono una forma di conoscenza diretta delle cose, e il concetto coincide con l’atto intellettivo stesso.
Summa logicae, I, 1
in Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici, tr. it. A. Ghisalberti, Nardini, Firenze - 1991
Tutti gli studiosi di logica mettono in evidenza come gli argomenti sono composti di proposizioni e le proposizioni di termini. Aristotele così definisce il termine nel libro I degli Analitici primi: “chiamo termine ciò in cui la proposizione si risolve, come il predicato e il soggetto, siano questi congiunti o disgiunti mediante l’essere o il non-essere”. [...]
Si deve dunque sapere che secondo Boezio [Commento al libro I De interpretatione] il discorso è triplice, cioè scritto, parlato e solamente pensato nell’intelletto, e che allo stesso modo il termine è triplice, cioè scritto, orale e mentale.
Il termine scritto è parte di una proposizione fissata su qualche corpo, in modo che si vede o si può vedere con gli occhi corporei.
Il termine orale è parte di una proposizione proferita con la bocca e percepita dagli orecchi del corpo.
Il termine mentale è un’intenzione o modificazione dell’anima, per sua natura significante o consignificante qualcosa, capace di entrare come parte in una proposizione mentale (e in grado di supporre per qualcosa). Tali termini mentali e le proposizioni da essi composte corrispondono a quelle parole della mente di cui Sant’Agostino [nel libro XV del De Trinitate] dice che non sono proprie di nessuna lingua, che restano soltanto nella mente e non possono essere proferite esteriormente, benché esteriormente si pronuncino dei termini che sono segni a esse subordinati.
Affermo poi che i termini orali sono segni subordinati ai concetti o alle intenzioni dell’anima, non perché, stando all’accezione propria del vocabolo “segno”, quei termini orali significhino primariamente e propriamente i concetti stessi, ma perché i termini orali sono imposti a significare le stesse cose che sono significate dai concetti della mente, cosicché il concetto primariamente e naturalmente designa qualcosa e il termine orale significa la stessa cosa secondariamente. Siccome i termini orali sono stati istituiti per significare qualche cosa che viene significato dal concetto mentale, se questi mutasse il suo significato, anche il termine orale modificherebbe il suo significato senza che intervenga una nuova istituzione.
La suppositio terminorum è la teoria cruciale della logica nominalista di Ockham: essa indica l’uso significativo di un termine che, in una proposizione, sta al posto di ciò cui esso si riferisce. La funzione conoscitiva primaria del segno consiste quindi nello “stare per” (supponere pro) il proprio significato. In questo modo la suppositio rende possibile produrre nuove conoscenze senza dipendere da alcun contenuto precedente e quindi da nessuna forma di mediazione che impedisca l’apprensione diretta delle cose.
Summa logicae
in Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici, tr. it. A. Ghisalberti, Nardini, Firenze - 1991
Dopo aver trattato del significato dei termini, resta da parlare della supposizione, che è una proprietà del termine, che però gli è propria solo quando si trova all’interno di una proposizione. [...] Qui parlerò della supposizione in senso ampio, in forza della quale sia il soggetto sia il predicato suppongono, e, più in generale, suppone tutto ciò che può fungere da soggetto o da predicato.
La supposizione è per così dire il porre al posto di qualcos’altro, di modo che quando un termine in una proposizione sta al posto di qualche altra cosa, suppone per essa: quando cioè usiamo quel termine al posto di qualche altra cosa, della quale o del suo pronome dimostrativo si verifica quel termine oppure il suo caso retto, se è di caso obliquo; e questo è vero almeno quando il termine che suppone viene preso significativamente.
In generale, il termine suppone per quella cosa, della quale [...] si denota che il predicato si predica, se il termine che suppone è soggetto; se invece il termine che suppone è predicato, si denota che il soggetto è soggetto rispetto a quella cosa o rispetto al nome che la mostra, se si forma una proposizione. Per esempio, con la proposizione : “L’uomo è un animale”, si denota che Socrate è veramente un animale, in modo che se si forma questa proposizione: “Questo è un animale” e si indica Socrate, tale proposizione è vera. Con quest’altra proposizione: “Uomo è un nome” si dimostra che il termine è un nome; perciò in essa uomo suppone per quel nome. Parimenti, con questa: “Bianco è un animale”, si denota che quella cosa che è bianca è un animale, di modo che questa proposizione è vera: “Questo è un animale”, indicando quella cosa che è bianca, e pertanto il soggetto suppone per quella cosa. Lo stesso si deve dire, con le debite proporzioni, circa il predicato; per esempio, con la proposizione “Socrate è bianco” si denota che Socrate è quella cosa che ha la bianchezza e perciò il predicato suppone per essa; che se poi nessun’altra cosa all’infuori di Socrate avesse la bianchezza, allora il predicato supporrebbe precisamente per Socrate.
Tratto dalla Summa logicae, il brano riporta la distinzione fondamentale tra i due modi di intendere il segno: mentre il primo significato, di matrice agostiniana, individua nel segno ciò che appreso consente di conoscere qualcos’altro, e presuppone dunque una conoscenza abituale pregressa, il secondo presenta l’accezione fondamentale per Ockham, per il quale “segno” è soprattutto ciò che consente una conoscenza diretta della cosa cui si riferisce sostituendola (“supponendola”) nelle proposizioni del linguaggio.
Summa logicae
da Scritti filosofici, tr. it. A. Ghisalberti, Nardini, Firenze - 1991
[…] bisogna sapere che il termine “segno” può essere inteso in due modi. In un modo indica tutto ciò che una volta appreso fa conoscere qualcos’altro, sebbene non faccia pervenire la mente alla prima conoscenza di qualcosa […] ma a una conoscenza attuale che viene dopo una conoscenza abituale. E la parola significa naturalmente in questo modo, come qualunque effetto significa la sua causa, come anche il circolo davanti alla taverna indica il vino.
Ma in questo contesto non parlo del “segno” secondo un’accezione così generale. In un altro modo si intende per “segno” ciò che fa conoscere qualcosa ed è destinato a supporre per quella stessa cosa o per essere aggiunto a tale segno in una proposizione, come i sincategoremi e i verbi e quelle parti della proposizione che non hanno un significato determinato, o che ha per natura la proprietà di essere composto da tali termini, come nel caso della proposizione. E considerando il vocabolo “segno” secondo tale accezione la parola come suono vocale non è segno naturale di nulla.